STORIE – Enrico Intra, il jazz e quel magico Dorfles

Almeno una cosa, io e Enrico Intra, milanese, maestro internazionale del jazz, condividiamo assieme. Un autore, e certi libri che stanno sempre sui nostri comodini, a portata di braccio. 

Tanto lui tanto io ammiriamo Gillo Dorfles. Non solo per il traguardo di quei  107 anni di una vita vissuta bene, ma soprattutto per il talento che Dorfles, maestro formidabile di pensiero, aveva nel guardare avanti, sempre, nell’accrescere la propria curiosità per il nuovo, sempre, nell’evitare ogni rimpianto per “il bel tempo andato”.

Enrico Intra - by courtesy Fondazione Milano - Civica scuola di musica
Enrico Intra – by courtesy Fondazione Milano – Civica scuola di musica

È lo stesso talento di Enrico Intra che, a dispetto dei suoi 88 anni, da compiere il prossimo 3 luglio, condivide con il magico intellettuale triestino e milanese, la voglia di non mettersi mai in pantofole. Tanto meno di impantofolare il cervello.

L’intervallo perduto, il saggio sulla musica e non solo, che Dorfles aveva scritto nel 1980 – mi dice – è il suo “livre de chevet“. Poi, elegantemente traduce libro da capezzale, quello che tiene sul comodino. Dice che lo legge e lo rilegge spesso. E non è mai lo stesso libro.

Ci vuole il jazz per non mettere pantofole al cervello

Ieri sera, a Trieste, al Teatro Miela, Intra si è seduto al pianoforte e a forza di musica e improvvisazioni ha cominciato a battagliare con un giovane quartetto d’archi, bravi intraprendenti strumentisti appena usciti dal Conservatorio.

Cornice dell’incontro-scontro, le ispirazioni bizzarre di Erik Satie, il compositore francese di cui il Teatro Miela festeggia ogni anno il compleanno con un evento: SatieRose

Trapezista di un circo sonoro” è la definizione che Intra dà dell’autore delle Gymnopédies. Lo ha dimostrato con la suite intitolata Ossimoro per Satie. La serata si era placidamente avviata con la Gymnopédie n.1 trascritta per archi (lent et doloreux) e eseguita dal Quartetto Rêverie (Uendi Reka, violino; Florjan Suppani, violino; Lucy Passante Spaccapietra, viola; Alice Romano, violoncello).

Ma è stata subito travolta dagli spunti jazzistici con cui, da dietro la coda del maestoso e lucido Steinway and Sons, Intra ha pungolato i giovani musicisti, educati al pentagramma, disposti però a seguirlo anche nelle improvvisazioni più ardite.

Ossimoro per Satie - Teatro Miela Trieste - 17 maggio 2023
Ossimoro per Satie al Teatro Miela – ph Paola Sain

Parliamo un po’ musica, gli chiedo. O meglio sarebbe dire musiche.

“Non trovo una gran differenza tra la musica che faccio io e gli altri generi. Esiste un grande universo del suono, che è la musica, e contiene tanti diversi modi di fare musica” – spiega lui, pianista, compositore arrangiatore, direttore d’orchestra, docente e maestro di generazioni di musicisti .

“Il jazz – prosegue – è semplicemente un modo di pronunciarla. È una lingua che raccoglie i generi, li elabora, li trasforma. Poi li sputa fuori, restituendo forti emozioni, a chi esegue e a chi ascolta”.

Con una felice espressione – “nulla è lontano” – Intra cancella le distanze tra mondi: quello di Satie, appena eseguito, e quello dei più grandi strumentisti jazz gli sono stati amici e colleghi, come il sassofonista Gerry Mulligan.

“I pensieri degli altri mi arricchiscono. È certo vero che, nella propria vita, uno può decidere di leggere un solo libro, di vedere un solo quadro. Ma gli scrittori sono infiniti e i pittori pure. Io ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Mi affascinava sentire ciò che diceva Luigi Pestalozza, ineguagliabile storico della musica: quando parlava, ogni volta era un fiume. Mi arricchivano gli incontri con Strehler e Grassi, a Milano, quando collaboravo con il Piccolo Teatro. Ma ascolto volentieri anche ciò che la gente dice mentre viaggia sui mezzi pubblici, al supermercato, nei bar… La loro musica è dappertutto”.

Enrico Intra - ritratto

Intra dappertutto, tra jazz e pop

Lei non si è risparmiato nulla. Dal jazz alla musica nazional-popolare: direzioni d’orchestra a Sanremo, pezzi per una giovane Giuni Russo e poi Zanicchi, Malgioglio. Perfino i Caroselli, come il suo indimenticabile compagno d’avventura, il chitarrista Franco Cerri, “l’uomo in ammollo”.

“E perché no? Era una forma di comunicazione molto popolare, ci mettevamo la faccia, eravamo ‘quelli del jazz’. Così la nostra musica passava attraverso i media, quel suono si diffondeva”.

Jazz e improvvisazione sono parole pronunciate a volte con diffidenza.

“Il jazz è stato comunicato male. Musica americana, si è scritto spesso. In realtà è il frutto di ciò che gli europei, gli ebrei, gli africani hanno portato in quel continente. Da un punto di vista geografico è statunitense, di fatto è invece la fusione di tante diverse culture. Quanto a improvvisazione, è chiaro che, detta così, comporta sfumature negative. Un medico improvvisato, un giornalista improvvisato… persino un musicista improvvisato. Preferisco dire che sono un musicista estemporaneo. Quest’altra parola mette in evidenza la capacità di inventare all’istante, di cogliere l’atmosfera, le sensazioni intorno. Il pubblico si trova davanti a un artista che crea, in quell’esatto momento”.

L’improvvisazione è di casa al teatro Miela, palcoscenico famigliare per Paolo Rossi.

“Esatto. Paolo, che io definisco appunto ‘jazzista della parola’. Ci ho lavorato e ho riconosciuto in lui lo stile del mio amico Walter Chiari: arrivava sempre all’ultimo istante, magari in ritardo, ma approfittava dell’ambiente, sentiva il profumo, registrava i suoni della gente, li trasformava al volo in parole e storie, con grande simpatia anche, e comicità”.

Quegli anni all’Intra’s Derby Club

Stiamo parlando di quei formidabili anni ’60, vero?

“A Milano avevo dato vita all’Intra’s Derby Club, 1962. Da noi, in Italia, il cabaret non esisteva ancora e al Derby sono passati attori e musicisti, e molti attori-musicisti. Franco Nebbia, per esempio, suonava benissimo il pianoforte. Davvero, grandi jazzisti della parola. Quello era il momento: possedevano una plasticità che ora manca, perché gli attori si impegnano su altri fronti. Ma ritornerà, perché il jazz si arricchisce sempre di ciò che gli sta intorno: musica contemporanea è l’unica definizione giusta. Ritornerà il momento”.

Enrico Intra
Enrico Intra e Fiorenza – anni ’70

Ne è proprio sicuro?

“Tutto ritorna. Pensi che sono ritornati persino quegli imbecilli che fanno la guerra. Me lo ripeto ogni mattina: ci vuole il jazz per non mettere le pantofole al cervello”.

Eggià. Chiudiamo tornando a Dorfles? A quei libri sul comodino.

“Ogni volta che li riapro ci trovo qualcosa di nuovo. Anni fa avevo composto un pezzo e lo avevo intitolato proprio Dorfles. Adesso però, dopo questo passaggio a Trieste, credo proprio di voler scrivere un pezzo espressamente dedicato a lui. Lo si potrebbe far nascere proprio qui, su questo palcoscenico, il prossimo anno”.

Promesso?

“Promesso”.

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Le STORIE di QuanteScene!
Oltre a questa, ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, Massimo Castri e tanti altri.

Lasciati portare in giro dai link di QuanteScene!

[questa intervista è stata parzialmente pubblicata sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste mercoledì 17 maggio 2023]

Inevitabile: il festival più under 30 d’Europa incontra Rete Critica

Forse davvero è il più young d’Europa. Del resto, giovane mi sento anch’io. Nonostante i numeri.

In realtà Mittelyoung, cioè l’anticipo generazionale del più maturo Mittelfest (quest’anno alla 32esima edizione, a Cividale del Friuli), i numeri li tratta bene. E anche le lingue. Terza edizione, 169 candidature da 22 Paesi europei diversi, 9 spettacoli selezionati da un panel internazionale di 41 osservatori. Doverosamente under 30.

Numeri e lingue

La macchina organizzativa e artistica si è avviata questo inverno. Una chiamata rivolta a tutta l’Europa ha mobilitato 169 concorrenti. Tra questi, una giuria internazionale formata da una quarantina di giovani specialisti, i curatores, ha selezionato 9 spettacoli. Sono allestimenti di teatro, di danza, di musica e di circo, individuati seguendo anche il tema che si è dato quest’anno Mittelfest: Inevitabile.

Adesso, a partire da giovedì 18 maggio in Slovenia a Nova Gorica (prossima capitale europea della Cultura nel 2025, assieme a Gorizia) e poi venerdì 19, sabato 20 e domenica 21 maggio in Italia a Cividale del Friuli, Mittelyoung condividerà per il terzo anno consecutivo le sue scoperte. 

Nove, i selezionati

Scoperte che potete conoscere in anticipo scorrendo il programma della manifestazione (lo si può sfogliare qui, compresi i teaser e un sacco di altre notizie.)

Per fare un esempio: Quieto parado dell’italiano Pietro Barilli (nel filmato qui sotto), è il primo degli appuntamenti, previsto appunto venerdì 18 (durata 35 minuti) al SNG di Nova Gorica .

Dopo ogni spettacolo, gli artisti incontreranno il pubblico. A Cividale, il punto di incontro per queste vivaci chiacchierate multilingue sarà il cortile del bar Da Giordano.

Tra i nove spettacoli del cartellone Mittelyoung e dopo le necessarie riflessioni, i curatores ne sceglieranno tre, che saranno poi presenti del cartellone principale di Mittelfest (previsto tra il 22 e il 30 luglio 2023).

Una mappa della next generation

La cosa che mi fa piacere è che anche quest’anno si rinnova la partnership tra Mittelfest e Rete Critica. Il gruppo che riunisce testate, siti, portali e blog di cultura teatrale online, già lo scorso anno aveva lanciato la sua proposta. Condividere con il “festival più under 30 di Europa” una delle proprie missioni: l’esplorazione e la mappatura del territorio teatrale italiano.

Con il compito di portare alla luce quegli artisti, quelle compagnie, quegli eventi che per diverse ragioni (collocazione geografica, fondazione recente, acerbità organizzativa, ridotto budget di comunicazione, ecc..) non hanno ancora una visibilità sufficiente. Però meritano di essere conosciuti.

Carla Vukmirovic  Piango in lingua originale - Mittelyoung 2023
Carla Vukmirovic è tra le nove proposte di Mittelyoung con Piango in lingua originale

Così anche nel 2023, durante Mittelyoung, alcuni membri di Rete Critica si faranno garanti di questi artisti, poco visibili ancora, e con l’aiuto di documenti video preparati per l’occasione, li porteranno all’attenzione di giornalisti e operatori interessanti alla next generation

Intitolato Panorami teatrali, l’incontro si svolgerà tra le 13.00 e le 17.00 di sabato 20 maggio (per aderire, scrivere a questo link).

Lavish Trio - What if... - Mittelyoung 2023
Lavish Trio è tra le nove proposte di Mittelyoung con What if…

Dodici, da scoprire

Dodici sono le esperienze che verranno presentate in Panorami teatrali. Per ognuna, qui sotto è possibile seguire il link che vi porta alla loro pagina.

L’attrice Chiara Verzola, il Teatro della Contraddizione di Milano, le compagnie Teatro delle Bambole di Bari, Farmacia Zooè di Mestre, La Fabbrica dello Zucchero di Rovigo, ArtiFragili di Trieste, QuattroxQuattro, Domesticaalchimia e Usine Baug tutti e tre di Milano.

Infine tre festival: Ragazzi Medfest di Reggio Calabria, Gea – Gioiosa et amorosa di Treviso, e BTTF Festival che si svolge al Quartiere Adriano a Milano.

Come ho fatto lo scorso anno, nei prossimi giorni QuanteScene! seguirà Mittelyoung e l’attività di Rete Critica. E naturalmente vi terrà informati.

Dare i numeri è facile. Romaeuropa 2023 però dà quelli buoni

Ricco sì, ma ricco così, non me lo sarei aspettato. A volte è facile dare i numeri, ma in questo caso, il caso di Romaeuropa 2023, sono numeri proprio buoni. 13 spazi, 90 titoli, 300 repliche, più di 500 artisti, 62.000 posti in vendita.

Inoltre, se leggete più sotto, nientemeno che 3.200 parole per raccontare da cima fondo tutto Romaeuropa Festival, REF 2023, giunto all’edizione numero 38, in programma tra il 6 settembre e 19 novembre prossimi.

Ve le trascrivo qui tutte 3.200 (3.209, per l’esattezza, 21.605 battute) le parole che riassumono il cartellone. Qualcosa che vi piace, che vi incuriosisce, che agita da tempo le vostre notti, che vi farà prendere un treno, oppure l’auto per Roma, se non ci abitate già, qualcosa di magnetico, sicuramente lo trovate.

Prendetevi 5 minuti buoni e, in santa pace, leggetevi tutto il comunicato stampa che segue. Da questo link, alla fine, potete pure scaricare il programma in pdf.

Romaeuropa 2023  Ballaké Sissoko + Lorenzo Bianchi Hoesch - Radicants
Ballaké Sissoko + Lorenzo Bianchi Hoesch

La 38sima edizione di Romaeuropa Festival…

… è una fotografia della geografia delle arti, un invito alla scoperta della pluralità delle prospettive offerta dalle sensibilità degli artisti e dal loro racconto di quel “mondo fluttuante” che è il presente». Così ha esordito Fabio Grifasi, direttore generale e artistico di Romaeuropa.

Non a caso “immagini del mondo fluttuante” sono quelle portate in scena, il 6 e il 7 settembre en plein air nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone” per l’inaugurazione di Romaeuropa 2023, da Ukiyo-e, prima coreografia firmata da Sidi Larbi Cherkaoui per il Ballet du Grand Théâtre de Genève di cui è attualmente direttore. Ispirandosi al senso di impermanenza incarnato nell’omonimo movimento culturale giapponese sviluppatosi nel periodo Edo, il coreografo (primo tra i nomi del percorso dedicato alle Fiandre), interseca composizioni contemporanee con i suoni della tradizione interpretati dal maestro del Taiko, compositore e cantanteShogo Yoshii raccontando, tra musica e danza, la nostra capacità di cogliere la bellezza anche nei momenti di crisi.

Ma in Cavea la settimana inaugurale del festival continua a valicare confini tra discipline e culture ospitando la leggenda della techno Jeff Mills al fianco dei musicisti Jean-Phi Dary e Prabhu Edouard e il ritorno della coreografa Anne Teresa De Keersmaeker che in Creation 23 prosegue la sua ricerca tra musica e danza in un inedito affondo nelle radici delle sonorità pop e blues.

Lo spettacolo è presentato grazie al supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels, il progetto attraverso il quale la celebre Maison sostiene artisti ed istituzioni nella diffusione del patrimonio coreografico e nel quale rientrano anche Ukiyo-eSomnole del coreografo – neo-direttore del Tanztheater Wuppertal – Boris Charmatz (in corealizzazione con Teatro di Roma) e Rite de passage, pièce dell’icona dell’hip hop francese Bintou Dembélé (presentata a Villa Medici in collaborazione con Accademia di Francia a Roma).

Romaeuropa 2023, creazione contemporanea

Da qui il festival continua ad attraversare dialoghi tra discipline, creazione contemporanea nazionale e internazionale e omaggi al repertorio musicale italiano. Il regista Ivo van Hove dirige la pluripremiata attrice, icona della cinematografia mondiale, Isabelle Huppert nel suo allestimento de Lo zoo di vetro di Tennessee Williams ( al Teatro Argentina in corealizzazione con Teatro di Roma) mentre, con la presentazione della sua ultima produzione Tempest Project, il REF omaggia, a un anno dalla sua scomparsa, il grande Maestro Peter Brook e il suo indelebile segno nella storia del teatro internazionale e del festival stesso (di cui è stato più volte protagonista).

Il coreografo anglo-bengalese Akram Khan ritorna a Roma con il suo Jungle Book Reimagined (coproduzione REF2023) liberamente ispirato all’amato Il Libro della Giungla di Rudyard Kipling mentre la regista Susanne Kennedy  – nome tra i più originali della scena europea – approda per la prima volta al festival insieme all’artista visivo Markus Selg per presentare la sua ultima produzione Angela (A strange loop), nuova indagine sulle estetiche del virtuale e sulla costruzione della soggettività nell’epoca digitale.

Romaeuropa 2023 -Aram Kahm - Jungle Book Reimagined
Aram Kahm – Jungle Book Reimagined

Se, con la regia e l’interpretazione di Massimo Popolizio, il Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretto da Tonino Battista, porta in scena L’imbalsamatore – Monodramma giocoso da camera di Giorgio Battistelli festeggiando i settant’anni del compositore, è dedicata a Fausto Romitelli – a circa vent’anni dalla sua scomparsa – l’esecuzione del suo capolavoro An index of Metals (i due spettacoli sono presentati con Fondazione Musica per Roma). Celebra Franco Battiato il concerto presentato in esclusiva per il REF da Sentieri Selvaggi che, per la prima volta nella stessa serata, esegue le composizioni classiche d’avanguardia scritte dall’inimitabile artista illuminando una pagina poco conosciuta del suo straordinario percorso musicale.

A questa idea di movimento tra radici e futuro corrisponde anche la presenza – con il patrocinio dell’Ambasciata d’Ucraina – del quartetto folk originario di Kiev Dahka Brakha che, spaziando dal folklore al teatro, fondendo musica tradizionale e ritmi provenienti da tutto il mondo, produce un suono internazionale ma saldamente radicato nella propria cultura d’origine: un canto contro la guerra che reinventa la tradizione nel segno della speranza e concorre alla costruzione del sistema di coordinate che muove l’intera mappa del festivalterreno di confronto tra generazioni e linguaggistorie, tradizioni e musiche.

Generazioni e linguaggi

È il dialogo tra generazioni e l’alternanza tra i grandi nomi della scena internazionale e le nuove proposte a definire il ritmo delle differenti emersioni del Romaeuropa Festival 2023, modellando i confini dei linguaggi artistici e i codici della danza e del teatro.

Il greco Christos Papadopoulos prosegue il suo percorso al festival presentando la sua prima creazione per Dance On Ensemble, celebre formazione composta da danzatrici e danzatori professionisti over 40; la coreografa Kat Válastur presenta, al fianco del gruppo vocale femminile Pleiades, una personale indagine intorno alla figura mitologica della dea Diana, protettrice delle donne, mentre il collettivo italo-spagnolo Kor’sia fa proprio un capolavoro della letteratura italiana come Ascesa al monte ventoso di Francesco Petrarca guardando con la propria pièce ad un nuovo umanesimo.

Kat Valastur - Diana, Even
Kat Valastur – Diana, Even

Sono coprodotti da Romaeuropa anche i nuovi lavori di Francesca Pennini – che con la sua compagnia CollettivO CineticO in Abracadabra si concentra sui temi dell’illusione, dell’assenza e della sparizione tra danza e teatro – della compagnia pugliese VicoQuartoMazzini che porta in scena l’adattamento dell’acclamato romanzoLa Ferocia di Nicola Lagioia (Premio Strega 2015) e della regista Fabiana Iacozzilli che, con Il Grande Vuoto (presentato in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello), completa la sua Trilogia del Vento avviata al festival con la presentazione degli spettacoli La Classe (2018) e Una Cosa Enorme (2021).

Sono infine due ritorni quelli della storica compagnia inglese Forced Entertainment che presenta la trasposizione italiana del cult Tomorrow’s Parties interpretata dall’attore premio Ubu Marco Cavalcoli e da Caterina Simonelli e del maestro del teatro di narrazione Ascanio Celestini che in Asino e bue (presentato in corealizzazione con Fondazione Musica per Roma) dà vita a un “racconto senza spettacolo”, una costruzione teatrale e sonora che lo vede in scena con tre musicisti.

Vico Quarto Mazzini + Nicola Lagioia - La ferocia
Vico Quarto Mazzini + Nicola Lagioia – La ferocia

Storie e tradizioni

Geografie reali e immaginarie si sovrappongono nelle visioni degli artisti delineando percorsi orientati al futuro ma costruiti sul confronto tra storie, identità e tradizioni. Sono incontri con “altri mondi” per tracciare nuove connessioni e vicinanze, narrazioni del nostro presente, cartografie intime o sguardi collettivi capaci di sfumare i confini tra il personale e l’universale.

L’acclamato regista Milo Rau (già direttore artistico di NTGent e ora alla guida del Wiener Festwochen) prosegue il percorso di coproduzione costruito con il festival e chiude la sua Trilogia degli Antichi Miti con lo spettacolo Antigone in Amazzonia in cui trasporta la tragedia di Sofocle nello stato brasiliano del Parà, coinvolgendo gli indigeni, il Movimento dei Lavoratori Senza Terra e attori professionisti e non professionisti. Dopo oltre dieci anni di assenza, torna a Roma, con la sua personalissima estetica forgiata nelle tradizioni dei popoli del Pacifico, il coreografo e regista neozelandese Lemi Ponifasio che nella sua Jerusalem (presentata in corealizzazione con Teatro di Roma) costruisce un ponte tra rituale e spettacolo musicale, preghiere tradizionali, canti della tradizione Maori e le parole di Adonis Ali Ahmad Said Esber tra i più influenti poeti arabi del ventesimo e ventunesimo secolo.

Alle radici del Butoh e alla figura emblematica di Tatsumi Hijikata (tra i suoi fondatori) si rivolge il coreografo singaporiano ma di base a Berlino Choy Ka Fai che in Unbearable Darkness trasla i temi dell’alienazione e della disumanizzazione che hanno attraversato questa corrente coreografica giapponese nelle immagini e nei codici generati dalle tecnologie digitali.

Un ponte tra differenti tradizioni e un incontro culturale è anche quello costruito in scena dal dantzari Jon Maya e dal bailaor Andrés Marín che con Yarin(presentato in corealizzazione con Instituto Cervantes di Roma) propongono un dialogo tra tradizione basca e flamenco attraversato tanto dalle differenze quanto dal desiderio di un cammino comune verso il futuro.

Tra la Sardegna e Londra nasce il progetto del duo Igor & Moreno che con Karrasekare (coproduzione Romaeuropa) dà vita ad una pièce caratterizzata dall’energia dei rituali catartici e nella quale si coniugano tradizioni carnevalesche pagane sarde e dei Paesi Baschi.

Al carnevale, questa volta coniugato con la tradizione dell’Africa occidentale dei Wara (nella regione di Senufo), sembra rivolgersi anche il coreografo Serge Aimé Coulibaly che in C la vie (altra coproduzione del festival) dà vita ad un nuovo rituale alimentato da forme e ritmi tradizionali ma volto a celebrare il nostro mondo contemporaneo. Affonda le sue radici nell’Africa Occidentale anche il percorso di Princess Isatu Hassan Bangura che nel suo Great Apes of the West Coast racconta il viaggio che dalla Sierra Leone l’ha portata nei Paesi Bassi fino a NTGent.

Una festa è infine quella costruita dall’astro nascente della danza africana Qudus Onikeku che, nel suo Re:incarnation – presentato in corealizzazione con Fondazione Musica per Roma come parte del Gran Finale del Romaeuropa Festival 2023 – omaggia la ricchezza musicale nigeriana e fonde l’energia degli antichi riti a quella di una nuova generazione di artisti attiva sui social network e partecipe alla definizione dei nuovi trend musicali che dalla Nigeria conquistano il mondo.

Milo Rau - Antigone in Amazzonia
Milo Rau – Antigone in Amazzonia

Una geografia di suoni

Proprio la musica torna ad attraversare l’intera edizione del REF2023 disegnando geografie emotive e articolando percorsi specifici dedicati alla contaminazione, all’elettronica o al repertorio contemporaneo. Doppia la presenza del prestigioso Ensemble Modern di Francoforte che se da un lato, nel concerto Fantasie Meccaniche, presentato in corealizzazione con Villa Massimo – Accademia Tedesca Roma, esegue le musiche di Ondřej AdámekUnsuk Chin e Vito Žura j(con lo chef-star Daniel Gottschlich) dall’altro in Xerrox Vol.4 (in corealizzazione con Fondazione Musica per Roma) accompagna l’icona Alva Noto nell’esecuzione della sua opera strumentale, arrangiata appositamente per l’ensemble tra musica, video e installazioni luminose.

Prende forma un vero e proprio focus dedicato al panorama della sperimentazione elettronica con la presenza di alcuni tra i più acclamati artisti internazionali: Caterina Barbieri presenta nella cornice del Teatro Argentina il suo Spirit Exit con il quale si è imposta come uno dei nomi di punta dei festival musicali di tutto il mondo; torna l’eclettico producer e musicista australiano ma di base in Islanda Ben Frost; i Plaid – storico nome della prestigiosa Warp Records e parte vitale della generazione elettronica degli anni Novanta – eseguono dal vivo il loro ultimo album Feorm Ferlox in corealizzazione con Manifesto Fest, mentre Tovel (aka Matteo Franceschini) mescola in Gravity suoni acustici di pianoforte, sassofono, archi ed esplosioni di sintetizzatori modulari.

Il teatro musicale continua ad essere frontiera di ricerca e terra priva di confini plasmata dalla commistione di linguaggi: con la coproduzione del REF2023 la regista greca Elli Papakonstantinou incontra l’eclettico musicista Ariah Lester per reinventare il mito di Dioniso nello spettacolo The Bacchae; il regista Luigi De Angelis, insieme alla cantante americana Claron McFadden e Muziektheater Transparant, costruisce una dedica per Nina Simone mentre il producer e pianista Dario Bassolinoe il regista Rosario Sparno, portano in scena il proprio Livietta + Tracollo da Giovanni Battista Pergolesi.

Se il pianista e compositore Fabrizio Ottaviucci conclude il suo percorso pluriennale dedicato alla monumentale Treatise di Cornelius Cardew, l’Atom String Quartet insieme a Leszek Możdżer – tra i più eminenti musicisti jazz polacchi e pianista di fama internazionale – dedica un omaggio al musicista di riferimento dell’avanguardia polacca Krzysztof Penderecki in una serata presentata con l’Adam Mickiewicz e il Ministero della Cultura Polacco. Traccia una linea di connessione tra il grande repertorio della fine del romanticismo e dell’inizio del ventunesimo secolo e creazioni per pianoforti ed elettronica Augmented Pianist, recital presentato dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con la rockstar del virtuosismo pianistico Simon Ghraichy e il compositore Jacopo Baboni Schilingi.

Smail Kanouté  - Never 21
Smail Kanouté – Never 21

Mattatoio – Una mappa per il futuro

La centralità della creatività emergente di Romaeuropa sembra incarnarsi in una precisa idea dell’utilizzo degli spazi della città e di costruzione di un’ideale geografia dedicata al futuro. Al cuore dei suoi percorsi e della sua mappa, il festival, grazie alla collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo, pone La Pelanda del Mattatoio di Testaccio, suo centro nevralgico con l’allestimento di quattro sale di spettacolo, l’area installazioni e incontri, il servizio di accoglienza e box office e una nuova area ristoro realizzata grazie alla collaborazione con Fischio. È qui che si sviluppano le differenti sezioni del festival. 

Curata da Giulia Di Giovanni e Matteo AntonaciLineUp! fotografa in tre giornate dedicate alla musica l’attuale panorama pop italiano a partire dalla riappropriazione della tradizione nei suoni delle nuove generazioni di artiste e artisti: La Niña fonde lingua e tradizione napoletana con sonorità pop e urban; echi di Sardegna attraversano i live di Vieri Cervelli Montel e Daniela Pes per il Tanca Records Showcase dedicato all’etichetta fondata da IOSONOUNCANE, elettronica, derive trap e hyper-pop convivono nelle scritture della bresciana Miglio e del cantautore di origini rumene Rareș.

Voci soul colorate e travolgenti, dagli svariati richiami ad atmosfere tropicali, caratterizzano il sound del giovane Ethan presentato in collaborazione con Alcazar live (partner dell’intera rassegna) mentre sintetizzatori analogici e atmosfere techno segnano i concerti finali di Marta Tenaglia e della romana Whitemary. Completano la sezione i Djset a cura di Fischio e il programma de Le Parole delle Canzoni presentato da Treccani che, dopo i tour negli istituti italiani di cultura all’estero (grazie alla collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale), torna all’interno del Mattatoio con i suoi incontri tra musicisti e scrittori.

Una mappa delle culture digitali è quella proposta dalla sezione Digitalive, curata da Federica Patti, che incrocia percorsi musicali, coreografici e virtuali: ne sono protagonisti il nuovo spettacolo multimediale del collettivo romano NONE, il live dell’outsider della techno Cosimo Damiano, il percussionista, sound artist e curatore modenese Riccardo La Foresta, l’esperienza immersiva audio-video proposta dal collettivo SPIME.IM e il sofisticato hyper-pop del romano Arssalendo con un live speciale realizzato appositamente per la rassegna. Se gli studenti dei corsi di Interaction Design, Gaming e Virtual Design di RUFA – Rome University of Fine Arts si cimentano nella creazione di proposte artistiche dal carattere performativo ma radicate in ambienti virtuali, completano la rassegna il ciclo di talk curato dal network ADV – Arti Digitali dal Vivo e il rinnovato appuntamento con RE:Humanism Art Prize.

Riccardo La Foresta - Drummophone
Riccardo La Foresta – Drummophone

Progetti speciali

Un attraversamento di estetiche e formati che si completa con i progetti speciali di Romaeuropa 2023 ospitati al Mattatoio e che attraversano tutta la durata del festival conperformance in VR come quella costruita da Mauro Lamanna e Aguilera Justiniano in Real Heroes, la giornata dedicata al graphic design curata da Stefano Cipolla (art director dell’Espresso) insieme allo studio creativo Mistaker (che per il terzo anno firma la campagna del festival rappresentando visivamente le sue geografie).

La performance audio-video Da qui in poi ci sono i leoni proposta dalla regista Paola Di Mitri e da Ghost Track, il nuovo format del REF dedicato al teatro, alla musica, alla stand-up comedy e alla poesia estemporanea articolato in 5 capitoli giornalieri per due fine settimana del festival condotti da Gioia Salvatori e musicati da Simone Alessandrini con ospiti provenienti dal mondo del cantautorato, della scrittura, del teatro, della filosofia e di altrettante discipline.

È Anni Luce, a cura di Maura Teofili, a scommettere sulla generazione under 30 del teatro italiano. Qui Giovanni Onorato presenta in prima nazionale il suo A.L.D.E – Non ho mai voluto essere qui mentre dalla scorsa edizione di PoweredByREF torna Greta Tommesani al debutto con il completamento del suo CA.NI.CI.NI.CA. Si rinnova quindi l’appuntamento con il bando, nato con l’obbiettivo di offrire percorsi di accompagnamento e formazione ai giovani artisti della scena performativa, e oggi efficace strumento di incubazione per le più giovani generazioni attive nel panorama teatrale italiano. È invece legato alla nuova drammaturgia il progetto Situazione Drammatica sviluppato in collaborazione con Tindaro Granata e quest’anno dedicato alla lettura dei testi selezionati dal Premio Hystrio e di estratti delle drammaturgie finaliste del Premio Riccione nelle giornate dedicate alla sua finale.

Partnership

Istituito per il primo anno dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico insieme a Romaeuropa, il Premio “Silvio d’Amico” alla Regia dedicato agli allievi dell’Accademia seleziona e presenta Ho molto peccato I. Parlo del regista Paolo Costantini che, dopo un percorso di tutoraggio, debutterà al Mattatoio per il programma del festival.

Fanno parte dei bandi con cui Romaeuropa promuove la creatività emergente anche il premio Vivo d’Arte, realizzato in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dedicato ad artisti italiani residenti stabilmente all’estero e DNAppunti Coreografici, la call rivolta a coreografi emergenti di cui ogni anno il Romaeuropa Festival ospita la finale nell’ambito di Dancing Days a cura di Francesca Manica. La sezione articola un percorso dedicato ad una nuova generazione di coreografi e danzatori italiani ed europei grazie alla collaborazione con il network Aerowaves. Sono protagonisti delle giornate della danza Smaïl Kanouté,Anna-Marija AdomaitytéDaniel Mariblanca, il duo italiano Panzetti / Ticconi oltre al vincitore della scorsa edizione di DNAppunti Coreografici Alessandro Marzotto Levy con il suo Irene.

Het Filiaal theatermakers -The Night Watchman
Het Filiaal theatermakers –The Night Watchman

Romaeuropa è anche mappa della creazione per l’infanzia

Nel mese di novembre è la sezione Kids & Family a cura di Stefania Lo Giudice a ritrasformare l’intero Mattatoio in uno spazio dedicato ai bambini e alle loro famiglie. Un vero e proprio festival nel festival che, nello spirito di Romaeuropa, abbraccia più discipline disegnando ulteriori geografie di incontro e dialogo. S’inserisce nell’ambito del programma FuturoPresente sostenuto dal Fonds Podiumkunsten e dall’Ambasciata dei Paesi Bassiil focus dedicato alla creazione per l’infanzia olandese che vedrà protagoniste le compagnie Het Filiaal theatermakers con il visionario e immersivo The Night Watcham, Het Houten Huis con il divertente spettacolo di teatro musicale Ik…eh ik capace di far suonare qualsiasi oggetto domestico e Meneer Monster con Lucky Luck, spettacolo dalle atmosfere western liberamente ispirato alla famosa serie a fumetti Lucky Luke.

Con Leonia la compagnia di nuovo circo Quattrox4 torna al festival per proseguire la ricerca artistica avviata lo scorso anno in omaggio a Le Città Invisibili di Italo Calvinomentre Roberto Abbiati costruisce una piccola stiva di legno dalle cui pareti prendono vita storie, personaggi e viaggi ispirati a Moby Dick.

Torna, dopo due anni di sospensione, il Playground di Kids & Family, motore dell’intera sezione e spazio ludico dedicato al giovanissimo pubblico con installazioni, performance e giochi d’artista: un’altra piccola mappa suddivisa nell’area dedicata ai giochi di legno proposta da Officina Clandestina, l’Officina Sonora realizzata con materiale di recupero dalla Marlon Banda, il laboratorio di stop-motion proposto da Spin-Off e Moonchausen e la speciale giostra musicale e performativa La Dinamica del Controvento di Teatro Necessario, un vero e proprio spettacolo costruito come un’avventura, un viaggio verso nuove terre da scoprire o geografie ancora da immaginare.

Il gran finale

Nel segno della festa, il 19 novembre, il Gran Finale del Romaeuropa Festival 2023 occupa, in corealizzazione con Fondazione Musica Per Roma, tutte le sale dell’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone” in una giornata dedicata alla contaminazione e alle nuove sonorità del continente africano di cui sono protagonisti, oltre al già citato Onikeku, Ballaké Sissoko in dialogo con l’acclamato compositore e sound artist Lorenzo Bianchi, la stella luminosa del “desert blues”Bombino, e l’icona Fatoumata Diawara con il live del suo nuovo album London Ko prodotto da Damon Albarn, ponte tra i suoni delle metropoli occidentali e quelli della capitale del Mali Bamako.

Romaeuropa 2023 - Ballaké Sissoko
Ballaké Sissoko

Ma il festival prosegue oltre la sua chiusura con uno speciale appuntamento “extra” presentato dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: approda finalmente a Roma il compositore e direttore cinese, Ambasciatore Unesco e Grammy Award, Premio Oscar e Leone d’Oro Tan Dun per dirigere Orchestra e Coro dell’Accademia nella sua visionaria Buddha Passion.

E se Dio fosse un peluche peloso? Riconsiderare Shakespeare

Riccardo II d’Inghilterra, ultimo dei Plantageneti, ha un consigliere. Non come ce lo immaginiamo. Un saggio anziano, o il solito spin doctor che trama nell’ombra. No no, il consigliere di Riccardo è un orsacchiotto di peluche.

A lui il sovrano si rivolge quando, nei momenti solenni, ha bisogno di un consiglio. Oppure deve prendere una decisione importante. Poi, a tutti dice che a ispirarlo è stato Dio.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)
Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Succede così in Secondo Riccardo, primo episodio di un teatro palesemente pop che la Compagnia ArtiFragili, cresciuta nel Nordest d’Italia, sta portando in scena a puntate.

Il re ha una corona di cartone e un pelliciotto sintetico. La scena è un praticabile rialzato, un po’ balera, un po’ passerella. Troneggiano i microfoni ad asta. Il pubblico sta tutto intorno.

Riccardo secondo non è Riccardo terzo. Ovvio. Ce lo ricordano più volte i quattro interpreti di Secondo Riccardo, una tragedia che ufficialmente comporterebbe 25 personaggi, più un capitano gallese, due giardinieri, uno stalliere, un carceriere, svariate lady, soldati, servi.

Ce lo ripetono perché? Perché il loro pubblico è in larga parte giovane, generazionale, e i lavori di Shakespeare, in buona sostanza, li ignora. Certo: Amleto, Giulietta, Otello, possono avere qualche circolazione nell’immaginario giovanile, ma tutto il resto, soprattutto ciò che la storia del teatro definisce drammi storici, history plays, si confonde mirabilmente. Gli Enrichi, gli Edoardi. Figurarsi due Riccardi due. Proprio troppi.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

To play the game

Comunque, fosse anche il Riccardo più feroce, il terzo, non ha importanza. Secondo Riccardo è un gioco di teatro, anzi in teatro. E si potrebbe sviluppare anche attorno ad altri lavori. Prendendo in mano altre vicende.

Perché? Perché il proposito è di mettere in piedi una serata divertente, molto divertente, della quale il fine ultimo – almeno così mi sembra di capire – è raccontare una storia, scherzarci attorno, prendersene gioco. E buttare là qualche parola proibita, politically uncorrect, qualche madonna. Sussurrare nei microfoni. Strizzare l’occhio, solleticare l’orecchio con una furba playlist.

E poi battersela con il pubblico. Fargli girare la testa con i faretti colorati. Provocarlo, acchiapparlo con qualche gancio malandrino, per portarlo in scena. O fuori scena. Ovunque. To play the game. E chiudere con un bel dj set.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Duelli

Shakespeare suggerisce una contesa? Bene, loro moltiplicano i duelli: la sfida delle tabelline, il gioco del palloncino, un due tre stella, paga pegno chi ride per primo.

E’ vero: con Shakespeare di può fare tutto. Gli Oblivion strizzavano otto tragedie in otto minuti, cantando. Derek Jarman riscriveva gli elisabettiani con le sue pennellate barocche, soffrendo. I musical hanno rivoltato il Bardo come un calzino, da Kiss me Kate a West Side Story. Non parliamo del cinema, che ci ha campato per tutto il secolo. 

La theatre-band ArtiFragili ha studiato tutto questo, e magari anche altro. Poi, come si fa con il Martini Cocktail, hanno buttato via il Martini. E lasciato solo il gin, il gioco. Gin Game (ma no: questa è un’altra storia)

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Più puntate

L’impianto inoltre, è seriale. Non un solo spettacolo, da replicare. Ma più puntate, da accumulare. Quante ancora non si sa. Perché? Perché, come sanno gli sceneggiatori americani (quelli che stanno per scioperare, forse proprio per questo) è il pubblico alla fine che decide se una storia va avanti o no. Se si lavora, o si rimane fermi al palo. Il che comporta un seria (ben più seria) riflessione sul precariato creativo. Gli ArtiFragili mi sembrano gli interlocutori giusti per farla.

Ci domanda Riccardo: “Di cosa parla la mia storia? Cosa significa avere il potere e cosa significa perderlo? Cosa sareste disposti a fare per strapparlo a qualcun altro?

Il primo biglietto della tua vita

Ho visto la prima puntata di Secondo Riccardo, qualche sera fa al Teatro Miela a Trieste, Nordest. Mi sono divertito. Si è divertito anche chi stava attorno a me. E magari aveva acquistato per la prima volta in vita sua un biglietto di teatro. Potere dei social.

Adesso sono curioso di sapere se la prossima puntata sortirà lo stesso effetto. 

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SECONDO RICCARDO
uno spettacolo di ArtiFragili
liberamente ispirato a Riccardo II di Shakespeare
progetto drammaturgico a cura di Davide Rossi
regia di Alejandro Bonn 

con Alejandro Bonn, Romina Colbasso, Veronica Dario, Davide Rossi
con il sostegno di Teatro Miela / Bonawentura

La prossima puntata il 30 e il 31 maggio 2023, sempre al Teatro Miela, a Trieste.

Le immagini sono di Massimo Baxa e Federico Valente

Angélica Liddell Caridad. I loro crimini, il nostro perdono

Non la fede, non la speranza, ma la carità: l’ultima delle virtù. Caridad si intitola la più recente creazione di Angélica Liddell. Ha debuttato lo scorso autunno al festival Temporada Alta di Girona e adesso è stata ospite per due serate all’Arena del Sole di Bologna, per Ert Fondazione che ne è anche co-produttore. Un’altra fra quelle opere estreme a cui l’artista spagnola ha abituato i pubblici di tutta Europa. 

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

You are my destiny

Al proprio destino non si sfugge. O perlomeno alla propria indole. Angélica Liddell flirta con la morte da quando era bambina e trascorreva la giornate in un collegio di suore. È un rosario l’elenco dei titoli dei suoi lavori – sia quelli pensati per la scena sia quelli di letteratura – che alla morte inesorabilmente ritornano.

Un assillo. Un’ossessione. Come quei crocifissi lugubri e maestosi, quelle deposizioni, quelle torture e quei martiri, che ornano le oscurità delle cattedrali di Spagna, tra fumo di candele e cera di rose. La morte come habitat

Basta sfogliare i titoli, le copertine, i manifesti delle sue opere, anche quelle più premiate: Greta vuole suicidarsi, Suicidio d’amore per un defunto sconosciuto, Cane morto in tintoria. Oppure Liebestod, che equivale a morir d’amore, e abbiamo potuto vedere lo scorso anno, proprio qui a Bologna.

Ritratto di Angélica Liddell
Angélica Liddel, ritratto

Sangue e arena

Angélica Liddell è però cambiata da quando si infliggeva sofferenze taglienti e sanguinava davanti ai nostro occhi (Ti renderò invincibile con la mia sconfitta). Da quando percuoteva con sassi le proprie parti intime rivendicando il diritto alla sterilità (Lesioni incompatibili con la vita). Da quando fotografava le proprie depressioni e le notti trascorse in vuote stanze d’albergo (fino a qualche anno fa esisteva in rete la galleria di questi autoritratti, in un sito oramai defunto) .

Oggi, più vicina ai sessantanni, contempla la morte da una certa distanza. La giusta distanza di chi è ancora vivo. E del morire apprezza soprattutto il valore estetico. O estatico. La bellezza ultima e irripetibile. E la esibisce in grande formato.

In Liebestod, la sua dichiarazione d’amore per il toreador Juan Belmonte, 50 trafitture e un finale suicida, diventava uno spettacolo maestoso, con i quarti di bue (idealmente, di toro) appesi ai ganci nel bel mezzo del palcoscenico. Bellissimi. Non per tutti, ovviamente.

Liebestod di Angélica Liddell
Liebestod di Angélica Liddell

Chi inventò la ghigliottina?

Di quello spettacolo del 2021, Caridad è adesso il proseguimento ideale. Sottotitolo: un’approssimazione alla pena di morte divisa in nove capitoli. Però la frenesia e l’odore del sangue che allora mi avevano colpito come banderillas infilate nella carne, qui non ci sono.

Caridad è un trattato, una dissertazione lucida sul vivere, o meglio sul morire. Una creazione didattica, una collezione di citazioni e exempla.

Tanto per dire: nel sesto dei nove capitoli, a un gruppo di bambini in scena, visitatori di un qualche Museo delle Atrocità, viene spiegata per filo e per segno la storia della ghigliottina. I piccoli, senza stupore alcuno, apprendono che fu un fabbricante di clavicembali a inventarla e che il suo utilizzo celebrava un sacrosanto principio di uguaglianza umana. La lama non guarda in faccia nessuno.

Vengono inoltre informati in dettaglio su come una ghigliottina funziona. E chissà se un brivido mi percorre mentre immagino che ai piccolini piacerebbe anche sperimentarlo, quel marchingegno. Su un bambolotto, beninteso.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

Gli organi del pudore e dell’orrore

Chissà poi se, dal camerino dietro la scena, sempre loro, riescono a sentire il Capitolo Sette. Nel quale si racconta la storia di Gilles de Rais, condottiero francese famoso per essere stato compagno d’armi di Giovanna d’Arco. Ma più famoso ancora per la efferatezza con cui rapiva, sodomizzava, torturava, uccideva e squartava le sue piccole vittime. Per diventare, nell’immaginario popolare, il precursore di Barbablù.

A Liddell piace insomma toccare i settori più delicati della nostra sensibilità, i nostri tabù, gli organi del pudore e dell’orrore. E in questo sta il potere magnetico dei suoi spettacoli

Non occorre essere letterati per intuire, dietro al raccapricciante racconto, la devozione dell’artista spagnola per Georges Bataille (Il processo di Gilles de Rais) e Pier Paolo Pasolini (Salò). Ma anche Hermann Nitsch e Marina Abramović sono riferimenti presenti. E poi, come costanti oggetti d’affezione, De Sade, Godard, persino il Beckett più crudele. Tutti citati.

In che modo tutto quell’orrore abbia che fare con il titolo Caridad si intuisce a poco a poco. Anche se fin dall’inizio Liddell ci aveva informati quanto sia stata impressionata osservando Caritas romana, un quadro di Rubens, e non solo.

Vi si vede Cimone, uomo anziano, colpevole, incarcerato, condannato a morire di fame, che viene però allattato, per carità, dalla figlia. Per quel gesto caritatevole, viene infine graziato. “L’arte può finalmente regnare al di sopra della legge” sostiene Angélica. Nome celestiale.

Pieter Paul Rubens, Caritas romana
Pieter Paul Rubens, Caritas romana (1612)

Io credo nell’innocenza delle azioni – dice – Osserva bene il peggiore degli assassini e vedrai un uomo innocente. (…) Credimi è una questione di sacrificio. Il giustiziato ci redime, che sia colpevole o innocente, tra l’altro, in quanto è sempre innocente. Questo implica anche l’accettazione totale della natura umana. (…) La nostra salute dipende dai condannati, dai criminali“. Nemmeno Jean Genet la metteva giù così bene.

Lei preferisce citare Matteo evangelista. “Signore, quante volte dovrò perdonare mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18, 21-22). Carità, perdono.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

La caritas romana, quel gesto iconico di carità filiale, reso immortale da Rubens, Liddell lo riproduce tale e quale, ricordandoci nel frattempo che il latte oggi si ottiene con mungitrici meccaniche a controllo digitale, protagoniste del Capitolo Uno.

Così come protagoniste del Capitolo Due sono attrezzi per la pulizia dei pavimenti che accuratamente ripuliscono e igienizzano il palcoscenico, invaso da tutto quel latte versato. 

Pasolini forever

Non mancano altre riproduzioni dal vivo. Il famoso fotogramma del pasoliniano Fiore delle mille e una notte, in cui Ninetto Davoli tende un arco con freccia a forma di fallo dorato, e lo punta nell’ovvia direzione auspicata dalla sua amata, diventa anche esso un tableau vivant.

E prima e poi, poi in rapide carrellate: due schermidori paralimpici che duellano su sedie a rotelle, un coro di laringectomizzati che cantano, un uomo e un cane disabili con protesi per la deambulazione, un cinghiale impagliato, due alligatori finti, pecorelle vive. E fiori, fiori: rose rosse, calle bianche, rami d’ulivo.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

Per non parlare delle frequenti occasioni in cui il sesso (magari non esplicito, ma certo esplicitato) diventa occasione di scandalo, o morbosità, o imbarazzo, o ironia, o noia. A seconda del vissuto di ogni singolo spettatore.

Topics

Ed è a questo punto che mi viene in mente quanto l’estremismo di Liddell vada inquadrato in quel contesto di formule che si rincorrono nel contemporaneo teatro europeo occidentale. Registrati sotto l’etichetta del post-drammatico, mi sembra di rivedere tutti i topic che rendono allettanti le rappresentazioni agli occhi dei pubblici più avanzati d’oggi.

Bambini in scena. Testi proiettati sul fondale. Colonne sonore che alternano il barocco (preferibilmente Bach) e il pop (preferibilmente anni ’60). La presenza di animali, morti o vivi. L’esibizione di corpi non-normalizzati, feriti, amputati, spesso denudati. La minacciosa presenza di protesi e macchine. 

Tutto ciò in Caridad c’è.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

E allora penso, non per la prima volta, che fare spettacolo oggi, circuitarlo nei i maggiori palcoscenici europei, diventare l’oggetto di desiderio di festival e manifestazioni, sia frutto di un equilibrio delicato tra originalità (e questo per Liddell non si discute) e i luoghi comuni di un teatro-merce, largamente apprezzato dal pubblico. 

Una bilancia accurata, in equilibrio, che da una parte invoca le ragioni alte e singolari dell’artista (“Non mi interessa il contemporaneo, ma l’eterno“) e dall’altra sa quanto siano indispensabili, al seguito, un bravo manager e un bravo commercialista.

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Il testo di Caridad, nella traduzione di Silvia Lavinia, è pubblicato da Luca Sossella Editore nella collana Linea a cura di Debora Pietrobono e Sergio Lo Gatto.

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Angélica Liddell parla di Caridad:

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CARIDAD
testo, scene, costumi e regia Angélica Liddell
con David Abad, Yuri Ananiev, Federico Benvenuto, Nicolas Chevallier, Guillaume Costanza, Angélica Liddell, Borja López, Sindo Puche
coro di laringectomizzati Shout at Cancer: Guy Vandaele, Frank Meeus e Andrew Pett
scherma paralimpica Alex Prior (campione di Spagna in modalità sciabola) e Ayem Oskoz
luci La Cía de la Luz (Pablo R. Seoane)
paesaggio sonoro Antonio Navarro
traduzione sovratitoli in italiano Silvia Lavina
produzione Iaquinandi S.L, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Temporada Alta Girona, CDN Orleans Centre Val de Loire, Teatros del Canal Madrid

Tom e Lao. Le piccole vacanze di Alessandro Berti

Qui è il paradiso. Là fuori può esserci l’inferno. L’inferno arido del surriscaldamento del clima. Quello della siccità, dei boschi morti, delle praterie ingiallite. Più lontano, forse, gli incendi.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri
Sebastiano Bronzati e Francesco Bianchini in Le vacanze – tutte le foto @Daniela Neri

Ma qui, proprio qui, chissà per quale miracolo, la falda è ancora viva e i bambù resistono. È un’oasi, un canneto d’ombra, uno stagno di refrigerio in mezzo al caldo che avvampa, asciuga la pelle, brucia gli occhi.

Passato. Presente. Futuro prossimo

Le vacanze è il testo che Alessandro Berti (Premio Riccione 2021 per l’innovazione drammaturgica) ha scritto qualche anno fa, giusto nel tempo dell’epidemia. Lo ha anche portato in scena, da regista, a Bologna pochi giorni fa (per Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arena del Sole, sala Thierry Salmon).

Simulazione di futuro prossimo. Anche no: di presente probabile, molto probabile. Forse non qui nell’Occidente ricco, agguerrito e ancora (per poco) temperato. Ma certo in un altrove dove gli agglomerati urbani sono più fragili, le economie più deboli, il degrado ambientale più devastante.

Adattamento

Il testo ci racconta che fiumi e torrenti sono scomparsi. Figurarsi i ghiacciai. Le terre sono sterili. L’acqua vale più dell’oro. Una doccia, un tuffo in una pozza sono il lusso di pochi.

Ma non è uno scenario catastrofico. Da sempre la specie umana si arrangia. Passata l’emergenza, lasciato alle spalle il tempo dei Grandi Incendi, lo stile di vita che è cambiato. In fondo, l’intelligenza umana è adattamento, assuefazione. 

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Le vacanze di Tom e Lao

Tom e Lao, sono due adolescenti. Nemmeno ventenni, studenti. Hanno superato l’Esame e si concedono il lusso di una piccola vacanza. Proprio qui, nel canneto verde, al fresco di quei bambù, nella pozza d’acqua fangosa dove si può ancora fare il bagno. Occhiali da sole, costume da spiaggia, asciugamano, crema protettiva. Niente sembra cambiato. È cambiato tutto.

Immersi fino al torace, Lao e Tom discorrono. Giocano a immaginare luoghi freschi, o freddi, magari gelidi. Percezione e immaginazione, a volte, coincidono. E parlano. Del passato soprattutto, dei loro genitori, dei luoghi che hanno visto, e che non ci sono più. Ma anche del futuro, incerto, tra ingegneria genetica e umanesimo. Tra ottimismo della ragione e malinconia del cuore.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Un fermo temporale 

Le vacanze non racconta una vicenda, ma una situazione, un fermo temporale in cui si può leggere ciò che è, e anche ciò che è stato. Divorata da se stessa, dalla propria smania di conquista antropica, la specie umana si prosciugata, decimata. Ma si è fatta anche più scaltra. Ha inventato l’editing del dna, sterminato i mali e gli insetti, ingegnerizzato il cibo.

Eppure Gea, madre natura, è rimasta la più forte. Ha costretto l’homo sapiens a questa pace di sopravvivenza, alla sua enclave minoritaria, a una vita ridotta. A fronte, almeno, di quella che viviamo noi, oggi,. Ancora per poco.

Un danzatore per Tom

Non c’è dolore, comunque. Così come non c’era dolore in Giorni felici di Beckett, di cui Le vacanze è l’eredità dispersa, giusto sessant’anni dopo. Un tempo enorme. Nel tempo dei Grandi Incendi milioni di uomini sono scomparsi, i genitori di Tom e Leo sono scomparsi, abitudini millenarie sono scomparse. Altre sono drasticamente mutate. O ce ne sono diverse. 

Con un app, per esempio, si può “affittare” un artista. Ed è ciò che fa Lao, come sorpresa, improvvisando un regalo a Tom. Se esistono i menù digitali per il cibo, perché mai non dovrebbero esistere per l’arte. Tra le opzioni, Lao ha scelto danza.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Il vecchio stile

E come se spuntasse dal nulla il danzatore appare, una visione tra le canne. Androgino, misterioso sciamano. Per quelli che hanno vissuto “il vecchio stile” (lo chiamava così, Samuel Beckett) una specie di attore santo, Ryszard Cieślak  in Il principe costante di Grotowski, o Kazuo Ohno.

Davanti ai bambù appena appena mossi dal vento, il danzatore danza. Gesti lenti, rarefatti, orientali (ma cosa mai distingue più Occidente da Oriente?). Tom e Lao non ne sembrano soddisfatti. Sono confusi, agitati. Si domandano che posto occupi l’arte, in questo loro mondo .

La complessità del presente

Adolescenti alle prime armi con la vita, Lao e Tom sono interpretati da Francesco Bianchini e Sebastiano Bronzato. La scelta del regista Berti è caduta proprio su loro due, per la leggerezza consapevole, la supponenza ingenua che ci mettono dentro.

Con i loro occhi, Berti è bravo a leggere le complessità del presente. (Ma questo lo sapevamo già, almeno fin da quando aveva letto il successo agro-alimentare emiliano in Terra di Burro). Berti è bravo a ricordarci l’immensità del problema, senza però impartire prediche, senza dare esca ad allarmi o minacce. Senza danneggiare opere d’arte e monumenti, tanto per dire.

Gesti d’arte

Preservandoli anzi. Come quei gesti antichissimi, rituali, sacri, a cui il danzatore-sciamano ritorna, quando di nuovo ricompare (è Guido Corso, a cui idealmente questo lavoro è dedicato, così come è dedicato a Bernardo, il figlio di Berti). Movimenti d’arte. Gesti dello spirito. 

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Ma intanto si è alzato di nuovo il vento, il canneto si arrossa, il calore sale, Lao e Tom si addormentano esausti. I primi bagliori. L’incendio è già lì, dietro le piante. A pochi passi.

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P.S. Oltre che letto (è pubblicato nella collana I Gabbianiletteratura teatrale per giovani lettori di Edizioni Primavera, 10 euro) Le vacanze andrebbe visto, non fosse altro che per la scenografia. Un bambuseto autentico. Con il loro odore, il loro colore, il loro velo di foglie a terra, le canne costruiscono e definiscono un paesaggio artificiale e al tempo stesso organico. Futuro prossimo. Futuro presente anzi.

Collana I Gabbiani - Primavera Edizioni - Le vacanze di Alessandro Berti

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LE VACANZE

di Alessandro Berti
con Francesco Bianchini e Sebastiano Bronzato
danza Giovanni Campo
regia Alessandro Berti
disegno luci Théo Longuemare
assistente alla creazione e organizzazione Gaia Raffiotta
bambuseto Elle Natura Società Agricola
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con Casavuota

Questo Čechov è proprio Čechov. E un po’ mi spiace

Con un po’ ritardo, ma sono riuscito a vedere Il gabbiano firmato Leonardo Lidi. Aveva debuttato già l’estate scorsa, a Spoleto. Adesso, tra inverno e primavera si è incamminato in una fitta tournée in tanti teatri italiani. Del resto, a produrlo sono ben tre stabili: Torino, Umbria , Emilia Romagna.

Così l’ho visto al Verdi di Pordenone, un venerdì sera, in quella ricca e cospicua provincia italiana, dove la provincia russa, minuziosamente descritta da Čechov, si accomoda bene. Lo si notava anche dall’adesione del pubblico, molto coinvolto da questa storia di amori sbagliati e gabbiani morti ammazzati.

Il gabbiano - Leonardo Lidi

Quasi 125 anni separano la disastrosa ‘prima’ del Gabbiano, a San Pietroburgo (1896), da questa disciplinata replica a Pordenone. I tempi sono cambiati, i luoghi pure.

Quando scrive quella commedia Anton Čechov ha trentacinque anni, è malato, si sente vecchio. Leonardo Lidi ne ha trentaquattro quando, ai giorni nostri, decide di metterla in scena, e di lui si parla ancora come un giovane regista. I numeri, la parola vecchio, la parola giovane, hanno significati relativi.

Inutile affaccendarsi

Resta intatto invece, se non mi sbaglio, quel senso di torpore, o di languore, o di inutile affaccendarsi, quella rassegnazione che è tipica del teatro di Čechov. Lo dice molto bene Angelo Maria Ripellino, il nostro più bravo slavista del secolo scorso, nella sua introduzione al Teatro di Čechov per Einaudi. 

Sono sicuro che Lidi se l’è letta. Studiata anzi. Nei personaggi dello spettacolo rivedo proprio le sue frasi: “inchiodati in un punto morto… si muovono a vuoto… la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli…“. 

Così come giurerei che Lidi si è letto le note di regia al Gabbiano di Konstantin Stanislavskij, il regista che resuscitò la commedia, assieme a Nemirovič-Dančenko (1898), due anni esatti dopo il fallimento iniziale. Ne ha tratto, non dico suggerimenti, ma ispirazione, approfittando anche delle osservazioni e della traduzione di un altro nostro grande slavista, contemporaneo però, Fausto Malcovati (si possono leggere ora ripubblicate da Cuepress).

Il gabbiano - Leonardo Lidi - ph. Gianluca Pantaleo
ph. Gianluca Pantaleo

Fila tutto liscio

Sennò come spiegare questo Čechov così cechoviano. Questa di Lidi è una regia lontana da quella malizia che aveva spinto il regista, nato anche lui in provincia, dalle parti di Piacenza, a destrutturare Spettri di Ibsen, o a rigenerare La città morta di D’Annunzio (scrittori entrambi coevi a Čechov). Con un gran gusto perverso il primo, con una forte iniezione di parodia il secondo. 

E invece qui, con Čechov tutto fila, liscio, come l’autore vuole, nessun sussulto. 

La grazia e il tedio a morte del vivere in provincia” (poetava così un altro emiliano, Francesco Guccini). “I personaggi ascoltano di preferenza se stessi, studiandosi di cogliere e di rivelare ciò che avviene dentro a loro. Chiusi nel cerchio stregato delle proprie sollecitudini sono estranei l’uno all’altro, e non sanno comunicare né porgersi aiuto” (questo invece è di nuovo Ripellino). 

Ci sono pure dei guizzi ironici, e sono proprio quelle punture burlesche che Čechov amava inserire qua e là, tanto per dissipare ogni sospetto tragico. La stessa cosa fa Lidi.

[Tipo: si sente Gigliola Cinquetti cantare La Boèhme (da Canzonissima 1972) dopo che Nina ha detto che in casa di Kostja vivono come zingari. Spiritoso, no? Eppure mi domando sempre: com’è che questi millennial conoscono, magari amano, ste cose 😉 quelle che un boomer come me ha già archiviato in zona oblio?]

Gabbiano e solitudine

Ma poi è sulle note di solitudine che si accordano gli attori, a cui la regia sembra voler smorzare il mordente: Christian La Rosa (che era un disadattato Osvald in Spettri, un archeologo clown in La città morta) restituisce qui una interpretazione onesta, già vista, consolidata, di Kostja, giovane artista, pieno di ambizioni al primo atto, suicida per fallimento alla fine del quarto.

Mi è pure difficile capire quale inspiegabile attrazione amorosa debba coinvolgere in un triangolo stanco già sul nascere il vaporoso scrittore Trigorin (Massimiliano Speziani), l’egotistica attrice Arkadina (Francesca Mazza), la povera Nina, gabbiano protagonista suo malgrado (Giuliana Vigogna). E poi basta una battuta sola, a Maša (Ilaria Falini), per descriversi tutta: “Porto il lutto per la mia vita. Sono infelice“. Infelici sono tutti.

Il gabbiano Leonardo Lidi - Christian La Rosa e Giuliava Vigogna - ph. Gianluca Pantaleo
Christian La Rosa e Giuliana Vigogna – ph. Gianluca Pantaleo

“Il mordente è roba giovanilistica”

Leggo le note di regia a spettacolo concluso. Qui Lidi ci spiega che Čechov è il suo autore preferito, la sua scuola, che ogni tanto lo va trovare, e che si fida di quello che il russo gli dice. 

Čechov mi dice con cura che alla fine non c’è niente da vincere e che nessuna situazione si può gestire fino in fondo, mi abbraccia raccontandomi che il mordente è roba giovanilistica e che questa mania di controllo che tanto ci tranquillizza va mandata lentamente a quel paese“. 

Ho capito, ma un po’ mi spiace. Perché così, a 34 anni, Lidi sembra stare più con l’attempato scrittore Trigorin, il piacione, che con l’ambizioso Kostja, l’avventuroso. E poi perché di Čechov, Lidi ne promette altri due, prossimamente. E perché di Čechov chechoviani, in giro, ce ne son sempre tanti.

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IL GABBIANO 
progetto Čechov – prima tappa
da Anton Cechov
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, Angela Malfitano
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioliproduzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

visto al Teatro Verdi di Pordenone, marzo 2023

Akropolis non è solo Atene

Appartato. Defilato. Appena appena in periferia. A ponente di Genova. Devi sapere dov’è, per arrivarci. È un teatro. Ma è soprattutto uno spazio multiplo di lavoro. Uno studio per film-maker e per gente che si impegna, molto, nei libri. Inoltre: pedagogia e residenze artistiche, un festival, alfabetizzazione scenica, sviluppo dell’arte dello spettatore. Anche un Premio Ubu 2017 come progetto speciale. Una factory, insomma.

Apocatastasi - Akropolis - Genova

Factory

Mi è venuta subito in mente quella parola, quando è arrivato l’invito a visitare, assieme ad alcuni colleghi che scrivono di teatro, gli spazi di Akropolis, Sestri ponente, pochi chilometri in linea d’aria dalla famosa Lanterna. 

Factory. Non proprio quella resa famosa nei formidabili anni Sessanta da Andy Warhol, tutta pop art e trasgressione. Sotto i ponti, da allora ne sono passate di situazioni. Il pop è sparito dall’orizzonte. O meglio, ce n’è fin troppo, ma di sostanza diversa. E niente più trasgressione, siamo tutti più ponderati adesso, nei nostri severi anni Dieci e Venti. 

Akropolis è infatti una factory post-novecentesca, rigorosa, giudiziosa, un gruppo di lavoro e di pensiero. Al timone ci sono Clemente Tafuri e David Beronio. Che vent’anni fa, anzi qualcosa di più (2001), avevano deciso di fondare questa situazione

David Beronio e Clemente Tafuri - ph Laila Pozzo
David Beronio e Clemente Tafuri – ph Laila Pozzo

Akropolis, non solo Atene

Akropolis, lo sanno tutti, è quella di Atene, e anche di decine di città mediterranee. Akropolis, lo sanno molti di meno, è uno dei tre spettacoli culto di Grotowski, prima che il regista polacco optasse per altre speculazioni .

Le ragioni di quella scelta, quella fondazione che apriva il nuovo millennio a Genova, devono perciò stare là. In un luogo della mente, una toponomastica ideale che si situa tra l’origine e gli esiti del teatro. 

L’acropoli custodisce i misteri, rinnova il sacro” spiegano Tafuri e Beronio ” È solo in apparenza uno spazio separato. In realtà è, con l’agorà, il teatro di Dioniso e i luoghi preposti alla celebrazione dei misteri, il cuore pulsante di un’intera civiltà“.

Certo la civiltà nostra contemporanea, non ha più un cuore. Ne ha mille, migliaia, milioni. Ma lo sforzo per ricondurre teatro, arti performative, libri e prodotti audiovisivi, a un solo principio forte, a una originaria ispirazione, qui si percepisce bene. 

Akropolis - sala con gradinate chiuse
La sala di Akropolis con le gradinate detraibili

Lo avevo intuito già dalle pagine dei libri che da anni accompagnano l’attività di Akropolis. La collana si intitola Testimonianze ricerca azioni e sta in uno scaffale della mia libreria, un po’ defilato anche quello. È un taglio editoriale che si che nutre di filosofia, antropologia, umanesimi antichi e nuovi, e ritorna su su, fino a Nietzsche e alle sue riflessioni sulla nascita della tragedia. Poi corre giù giù, fino a uno dei padri negletti del teatro del ‘900 italiano: Alessandro Fersen.

Eliminare il superfluo è il motto che se ne può dedurre: andare alle radici. 

Viaggio ai confini del teatro

Lo intuisco anche adesso, mentre visito il loro spazio, rinnovato da qualche anno con una platea dinamica e leggera, dove Beronio e Tafuri ci fanno vedere i loro video e il loro teatro. Tre film-documentario dedicati a Paola Bianchi, una perfomer, a Carlo Sini, un filosofo, a Gianni Staropoli, un creatore di luce. Ce n’è ancora un altro dedicato a Massimiliano Civica

immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini
immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini

Viaggio ai confini del teatro è il sottotitolo per questo progetto. E si capisce bene, dal formato-intervista, dall’obiettivo-ritratto, dalle parole dette, che i tre vogliono aprirci porte e condurci in territori dove la definizione standard di teatro non vale più. Perché corpo, conoscenza, luce, sono grimaldelli per un discorso sulle profondità della rappresentazione. La parola giusta, anzi, è presentazione, messa in scena.

La danza dell’Ade

Il che accade un po’ più tardi, la sera, quando nello stesso spazio viene presentato Apocatastasi. Titolo complicato (io lo interpreto come ribaltamento radicale) e lavoro performativo essenziale. Nella presenze e nelle movenze di due figure femminili e una sola sedia, lo spettacolo lascia in noi spettatori il senso di ciò potrebbe, o dovrebbe essere stata, una “danza dell’Ade”: i volti oscurati dai lunghi capelli, la negazione dell’identità, due creature in relazione a tratti complice, a tratti conflittuale.

I fiati della colonna sonora, dal vivo, sono poi la sorpresa che si svela solo alla fine, con l’apparizione del Mademi Quartet. Formazione sperimentale che apre anche alla musica il registro plurale di questa Factory. Defilata, riservata, nella Genova del rumoroso business crocieristico. Turisti di terra e di mare che tra qualche giorno faranno magari tappa ad Atene. Per loro Akropolis sarà solo occasione per il prossimo selfie.

Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi
Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi

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LA PAROLA MALEDETTA. VIAGGIO AI CONFINI DEL TEATRO
quattro film di Clemente Tafuri e David Beronio
1) MASSIMILIANO CIVICA
2) PAOLA BIANCHI
3) CARLO SINI
4) GIANNI STAROPOLI
con la fotografia e il montaggio di Luca Donatiello e Alessandro Romi
produzione Teatro Akropolis Akropolislibri (2020, 2021, 2022)

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APOCATASTASI
regia Clemente Tafuri, David Beronio
con Roberta Campi, Giulia Franzone
musiche originali: Pietro Borgonovo /Mademi Quartet
produzione Teatro Akropolis con GOG – Giovine Orchestra Genovese

Umberto Saba poeta, nella succursale dell’inferno

Il 9 marzo 1893, a Trieste, nasceva Umberto Saba, il poeta del Canzoniere, della scontrosa grazia, della rima fiore amore.

Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e RaiRadio3 ne ricordano l’anniversario con una trasmissione in diretta (venerdì 10 marzo, ore 20.30).

Dal palcoscenico del Politeama Rossetti, Mauro Covacich, scrittore triestino, esplora la vita e i testi di Umberto Saba. Come aveva già fatto negli scorsi anni con Italo Svevo e James Joyce.

Umberto Saba a passeggio per Trieste
Umberto Saba a passeggio per Trieste

Trinità triestina

Prima era venuto Svevo, scrittore e manager. Poi Joyce, con quell’aria da ubriacone santissimo. Si completa adesso con Umberto Saba la trilogia teatrale che lo scrittore Mauro Covacich ha dedicato alla trinità letteraria triestina del primo Novecento.

In occasione del 140esimo anniversario – Saba era nato a Trieste il 9 marzo del 1883 – anche RadioRai si impegna a ricordare quanto sia stato importante, ma anche ambivalente, il rapporto tra il poeta e questa città. 

In diretta dal palcoscenico

Venerdì 10 marzo (in diretta, ore 20.30) RaiRadio3 offre all’ascolto una prova di Saba, il monologo che Covacich sta mettendo a punto in teatro, in vista del debutto dello spettacolo nel cartellone autunnale dello Stabile del Friuli Venezia Giulia, con la regia di Alberto Giusta, nel quadro della valorizzazione dei giacimenti culturali del territorio.

Gli appuntamenti teatrali di RaiRadio3, quelli curati da Antonio Audino, avevano già proposto l’ascolto di Joyce: era accaduto in occasione del Bloomsday lo scorso anno. Ora è la volta del poeta del Canzoniere, della rima fiore amore, della scontrosa grazia.

Intervista

Tre è un numero divino, non crede Covacich?

“Svevo Joyce Saba. Questa trilogia è il mio modo di fare i conti con quei grandi. Figure che, al tempo in cui ero un giovane scrittore, percepivo come un ingombro. Avevano su di me, esordiente, un effetto inibitorio. Adesso, con spalle di scrittura un po’ più larghe, e con tutta la reverenza e la soggezione del caso, provo ad mettermi di fronte a loro. Faccio il loro stesso mestiere, mi dico, gli attrezzi sono gli stessi. Ma non sono un critico letterario: li affronto e ne esploro piuttosto le pieghe umane”.

A Umberto Saba però non si addice una biografia clamorosa. Non è stato un perdente di successo, come lo sono stati Svevo e Joyce.

“Ha avuto una vita movimentata anche lui. Molto più di quanto immagina chi lo vede rintanato tra gli scaffali della libreria di via San Nicolò. Ha conosciuto stagioni diverse, città diverse: la Firenze della rivista la Voce, la Milano dell’editoria e del giornalismo, Parigi. Con lui, soprattutto, ho voluto esplorare la forza della parola poetica. Perché “La coscienza di Zeno” la puoi leggere e ne puoi parlare. La poesia no. La poesia va detta, recitata, eseguita. Non se può parlare senza averla fatta ascoltare. Ne ho messa tanta, della sua poesia, in questo spettacolo. Detto questo, Saba è certo diverso dagli altri due”.

Diversa anche la simpatia, l’empatia anzi, con cui lei ne parla. 

“Era una persona difficile. Non era mai soddisfatto. Era pure scontroso, lamentoso, rivendicativo. Ciò non toglie che fosse un grandissimo poeta. Ma con i grandi poeti mica ci devi andare a cena”. 

Insomma, non le sta simpaticissimo.

“Volevo mantenere tutta la franchezza e la trasparenza possibili nel parlare di questi tre scrittori. Seguire la mia attitudine nei loro confronti. Non posso negare che di Joyce sono un ammiratore, un vero fan. Come quei ragazzini che in cameretta attaccano il manifesto del calciatore del cuore”.

Saba si lamentava di aver dato più di quanto aveva ricevuto.

“Aveva la sensazione di essere considerato poco. Impossibile riuscire a convincerlo del contrario. E ci si era rovinato la vita. Nonostante i premi, nonostante la laurea honoris causa dell’università di Roma. Era talmente insoddisfatto che aveva pubblicato un saggio nel quale, sotto falso nome, dava un’interpretazione critica delle sue poesie: riteneva di saperlo far meglio di quanto non facessero i critici di professione. Poi, detestava Ungaretti, che pure si era adoperato per fargli ottenere quella laurea. Detestava Montale, che lo andava ogni giorno a trovare in tempi difficili. Se l’era presa con Slataper e anche con la rivista Solaria, che gli aveva dedicato perfino un numero monografico”. 

La succursale dell’inferno

A volte scrive che Trieste ha “una scontrosa grazia”. A volte la definisce “una succursale dell’inferno”. Nel secolo scorso, si parlava di ambivalenza.

“Questa città, lui la ama. Ma la odia anche. Eppure sappiamo che è stato proprio Umberto Saba che ha reso grande l’aria di Trieste, i suoi cieli, le sue salite, le partite di calcio, le donne, la gente per strada. È lui il genius loci, non c’è alcun dubbio”.

Per questa ambivalenza del sentimento, lei lo sente compagno?

“Massì, in filigrana. Ho trovato nella sua sua vita somiglianze che ritrovo nella mia. All’inizio anch’io mi ero allontanato da Trieste. Ho recuperato il mio rapporto con la città di recente. Anche grazie a queste tre esperienze teatrali. Potrei pensare che, in trasparenza, dietro alla sua vita ci sia anche la mia. Ma non ho voluto dirlo ‘apertis verbis'”.

[questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO, il 10 marzo 2023]

Verona è un bosco. Mario Martone esplora Romeo e Giulietta

Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta. Trentuno interpreti schierati davanti al pubblico entusiasta del Piccolo Teatro di Milano.
Quel pubblico che ha fiuto, che da sempre sa apprezzare, e vigorosamente applaude i grandi allestimenti. Lo faceva con Strehler. Lo faceva con Ronconi. Oggi lo fa con Martone.
In Italia, la grande regia continua.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
Romeo e Giulietta – ph Masiar Pasquali

Lacrime e adrenalina

L’intenzione – se ho capito bene ciò che ha detto nelle interviste – era dare a Romeo e Giulietta nuova vita. Conservare la storia, la potenza, la fortuna del più famoso fra i testi di Shakespeare. E allo stesso tempo liberarlo da croste, letture grigie, antiquate traduzioni. E da quella mitologia, teatrale e turistica assieme, che porta oggi a Verona milioni di persone. 

Mario Martone – se ho raccolto a dovere i tanti fili dello spettacolo – c’è riuscito. Come gli è capitato spesso di fare con i suoi allestimenti musicali (Barbiere e Traviata, per esempio). 

Oggi consegna al maggior palcoscenico contemporaneo italiano, quella combinazione di altezze e di bassifondi, di poesia e trivialità, di comico e tragico, che di sicuro c’era ai tempi in cui, con gli stessi ingredienti, il giovane Shakespeare catturava il pubblico di una Londra aristocratica e ultrapopolare, capace di lacrime per la acerba e funesta storia d’amore, ma anche di adrenalina davanti al sangue e ai pestaggi di giovani bande rivali. 

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

“Sono partito proprio dall’età – scrive il regista – da questo mondo minorenne misterioso, ambiguo, tutto da esplorare, come nel testo di Shakespeare, che ci avverte che non sempre tutto è scritto; quindi molto va cercato, interpretato”

Missione compiuta, direi. Come era compiuto il ribaltamento geniale, sessant’anni fa, di Sondheim e Bernstein in quella West Side Story (1961) di bianchi e portoricani. O più tardi di Baz Luhrmann, nel californiano William Shakespeare’s Romeo + Juliet (1996), reinventato per Leo Di Caprio e Claire Danes a Verona Beach, periferia pulp di Los Angeles.

Sballati e attaccabrighe 

Niente Verona nemmeno per Martone. Né balcone né cripta. E invece, con maestoso colpo di scena, un bosco lussureggiante, un intrico d’alberi, di foglie, di rami, camminamenti pericolosi, una stellata notte del cuore, questa è Verona.

Ma anche nuvole video, ombre minacciose dentro le quali si nascondono e si dipanano l’amore e i coltelli, Bach e l’house da discoteca, dance party e aperitivini. E inoltre birrette, caffè, occhiali da sole, felpe con il cappuccio, rottami polverosi e la jeep per il fuoristrada.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Segni contemporanei, ma non è un’attualizzazione. È uno Shakespeare infiltrato dal presente, cortocircuito tra il volo metaforico delle battute più celebri (dove cantano allodole e usignoli, dove la luce erompe da est) e l’aggressivo vocabolario di una treccani aggiornata. Nella quale daspo (che poi sarebbe l’esilio) e troia rifulgono alla luce blu delle sirene dei carabinieri. I Capuleti e i Montecchi di uno Shakespeare alcolico, sboccato, sballato, scurrile. 

Credo che la scena boschiva e strepitosa di Margherita Palli e la traduzione di Chiara Lagani a cui Martone aggiunge il propio carico di slang, sapranno rendere Shakespeare digeribile anche al pubblico delle scuole. Che di Capuleti e Montecchi ignora – per quella che è la mia esperienza – persino il nome

Grintosi, ribelli, delicati

Dentro al cast sornione, nel reparto genitoriale, Martone dispiega alcuni tra i nomi pop della scena italiana oggi, fra i più capaci di caricare di colore quei personaggi che edizioni banali di Romeo e Giulietta avevano ingrigito, per puntare al plot romantico.

Qui invece c’è grinta di Licia Lanera (che da balia si svela audace zia), di Michele Di Mauro, (festaiolo e irascibile boss dei Capuleti), di Gabriele Benedetti (che si fa frate condiscendente e parlaccione), di Letizia Guidone (una madre Capuleti avvolta in vestaglie di seta da dark lady). 

Gabriele Benedetti in Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Atletico e fumantino è poi il reparto adolescenziale. Ribelli senza causa, attaccabrighe selvatici pronti per un niente a venire alle mani e alle lame. Velocissimi ad arrampicarsi sugli alberi o a improvvisare una band canterina, basso, chitarra, percussioni. Capaci anche di esaltanti performance orali. Al monologo della regina Mab, Alessandro Bay Rossi, assicura l’impeto di uno poetry slam di scatenata fantasia. E non gli sono da meno Leonardo Castellani (Tebaldo) e Edoardo Sabato (Benvolio). Persino a Paride, insipido e sfortunato promesso sposo, Emanuele Maria Di Stefano dà una sua drammatica dignità.

Francesco Gheghi e Anita Serafini - Romeo e Giulietta - Piccolo Teatro Milano
ph Masiar Pasquali

Ma a fissarsi nella memoria degli spettatori saranno – ne sono sicuro – la delicatezza e la sicurezza con cui i giovanissimi Francesco Gheghi (19 anni) e Anita Serafini (15 anni) affrontano parti che, da quando Shakespeare le ha messe su carta, mettono i brividi a qualsiasi attore, con ben più esperienza.

Il suo Romeo timidino, la sua Giulietta imbronciata, sono gli assi vincenti di questa produzione allestimento. Sembra davvero che incontrino quell’amore che si incontra per la prima volta. Sembra che bevano davvero il veleno fiabesco che li uccide. Ma che da più di quattro secoli li rende anche immortali.

In scena al Piccolo Teatro di Milano, fino al 6 aprile

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ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
traduzione Chiara Lagani
adattamento e regia Mario Martone
scene Margherita Palli
costumi Giada Masi
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
video Alessandro Papa
regista assistente Raffaele Di Florio

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani

e con Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino
e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano: Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa