Quattro chiacchiere con l’attore americano, in questi giorni in Italia con Report on the Blind. Presente nei cartelloni di Emilia Romagna Festival, Festival di Lubiana e Mittelfest, il recital lo vede sfogliare le pagine allucinate di Sopra eroi e tombe, romanzo anni ’60 dell’argentino Ernesto Sabato. Mentre un pianoforte lo accompagna.
Lui parlava, parlava. Di ideologie, religioni, libri. E intanto io mi domandavo: quante volte avrò visto Morte di un commesso viaggiatore? Almeno una ventina. Edizioni italiane, americane, francesi, perfino una iraniana, incastonata dentro a un bel film sulla Teheran contemporanea, che si intitola Il cliente.
Lui provava a raccontare il modo in cui vede noi italiani, e come noi italiani gli abbiamo cambiato il carattere: cinico ieri, oggi più accomodante. E intanto io mi dicevo: Willy Loman, protagonista di quel dramma di Arthur Miller, può avere diversi volti. Ma il volto di Biff, il figlio che si ribella al sogno americano, per me è uno e soltanto uno. Il suo. Il volto di John Malkovich.
Un’edizione indimenticabile, quella con Dustin Hoffman diventata anche un film con la regia di Schlöndorff. Insofferente e disilluso, Malkovich era Biff, il figlio, ragazzino devastato dal suo fare a pugni con il sogno americano. L’attore aveva allora poco più di trent’anni.

Oggi ne ha più del doppio, ma se lo guardo bene in volto ritrovo quello sguardo elusivo, ostile ai sorrisi, penetrante, così diverso dalle patinate guance che popolano Hollywood. La diversità di Malkovich, ieri e oggi, è ancora un suo tratto distintivo.
“Era sul set di Il tè nel deserto che Bertolucci continuava ripetermi di non capire come io non capissi che tutto è politico” dice. “E io mi meravigliavo che lui non capisse che tutto invece è personale”.

Non è un campione anti-establishment il John Malkovich di adesso. Delle star americane ha tutto sommato le abitudini. La casa in Toscana (perché la moglie è italiana). La linea di abbigliamento maschile (rilassata e artigianale, si chiama Technobohemian). Un concept store in una delle capitali italiane del tessile (l’Opificio JM a Prato). L’interesse per qualcos’altro che non sia solo il recitare (per lui è il disegno: ha fatto persine delle mostre). Dimenticavo gli spot per Nespresso con l’amico George Clooney.
Eppure non sembra svanita, se lo guardi e se lo senti rispondere alle tue domande, quell’estraneità, quella superiorità climatica al mondo dello showbiz mediatico, quello strabismo intellettuale che ne avevano fatto un seduttore infallibile in Le relazioni pericolose, e diventava leggenda nel Tè nel deserto. I suoi registi lo hanno scelto proprio per questo. Da Altman (una particina, non accreditata, in Un Matrimonio) ad Antonioni, da Woody Allen a Manoel de Oliveira, da Spielberg a Zemeckis.
Proprio nel film co-firmato Antonioni – Wenders (Al di là delle nuvole) aveva costruito il suo rapporto con Mastroianni. ” Per Marcello – ricorda – nutrivo una grande ammirazione. Nonostante i settant’anni era per tutti un divo, eppure lo trovavo così semplice, immediato, senza i vizi di questo mestiere. All’epoca avevo un temperamento abbastanza cinico, e devo dire che è stato anche grazie a lui, che sono cambiato. Grazie a lui ho capito quanto sia importante fare un mestiere che ti piace “.
E nonostante un titolo come Essere John Malkovich (il film di Spike Jonze del 1999), titolo che avrebbe fatto uscire di testa parecchi suoi colleghi, oggi a 63 anni Malkovich è più che mai se stesso. E parla e veste dimesso.
“La politica? Ideologia e religioni le sono parenti. Insieme hanno provocato danni incalcolabili, eppure sembra che la gente non se ne accorga. Io non voto dal 1972 e non entro in nessuna chiesa. Non lo faccio per posa, ma per convinzione. Le pagine di Ernesto Sabato mi hanno ulteriormente convinto”.
Oltre a essere l’autore di Sopra eroi e tombe (romanzo di cui il Rapporto sui Ciechi è il terzo capitolo), Sabato è l’attivista politico argentino che aveva fondato la Commissione per le ricerche sui desaparecidos ed è stato il promotore e il primo firmatario del rapporto finale Nunca más (1984). Ma già delle pagine del ’61, quelle che Malkovich leggerà accompagnato dal pianoforte della russa Anastasya Terenkova che suonerà il sovietico Schnittke, il racconto allucinato e visionario della presa di potere dei ciechi, è l’affresco di un mondo dove le regimi e dittature si alleano con ideologia e religione.
“In quel romanzo credo di aver trovato la risposta da dare a chi si interroga sull’esistenza di Dio. Anzi, tre risposte. La prima: Dio non esiste. La seconda: Dio esiste, ma è un bastardo. E infine la terza, la più probabile: Dio esiste, ma ogni tanto si addormenta, e noi, l’umanità, altro non siamo se non i suoi incubi”.