Si sono dati questo nome: Transquinquennal. Un po’ troppo lungo e complicato da scrivere. Ma il significato è chiaro. Abbastanza chiaro. Transquinquennali. Già l’anno prossimo potrebbero chiamarsi transquadriennali. Poi transtriennali e così via, fino alla data di scadenza. Il collettivo teatrale belga formato da Bernard Breuse, Miguel Decleire e Stéphane Olivier ha scelto un assetto originale, se non altro, per collocarsi sul grande arco sulla scena europea. Un progetto di eutanasia, o autodistruzione, che porterà il gruppo a cessare l’attività il 31 dicembre del 2022. Sappiatelo: Andrebbero consumati preferibilmente prima del.
Intanto lavorano, creano, si danno da fare, secondo le tappe di un disegno, scandito anch’esso in cinque tempi poiché riproduce, applicato al teatro, le famose fasi che la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross (scomparsa nel 2004) aveva individuato studiando l’elaborazione del lutto: Rifiuto. Rabbia. Contrattazione. Depressione. Accettazione.
A sentirli parlare di sé, i Transquinquennal si trovano ora a esplorare la terza fase. E proprio il tema della Contrattazione ha dato loro lo spunto per progettare il lavoro che in queste settimane stanno svolgendo come maître dell’Ecole des Maîtres, la scuola dei maestri (le informazioni, qui).
Il corso itinerante per giovani attori europei ideato 26 anni fa da Franco Quadri è riuscito, in questo quarto di secolo, a raccogliere nelle proprie “classi” tutti i più importanti maestri della fine del millennio. Dai registi “signori della scena” come Stein, Nekrosius, Dodin, Ronconi, alla nuova regia autoriale di gente come Pippo Delbono, Antonio Latella, Ivica Buljan, fino alla post-drammaturgia di Rodrigo Garcìa, Rafael Spregelburd, ricci/forte, Christiane Jathay. La particolarità di questa edizione 2017 è che gli odierni “maestri”, i Transquinquennal, su questa idea di magistero nutrono sostanziosi dubbi. Da una parte negano di aver qualcosa da insegnare (un metodo di pensiero, tutt’al più), dall’altra sembrano allergici a quel principio di potere che riesce a far funzionare in maniera fluida tanti sistemi e tanti strumenti sociali, dall’esercito, ai partiti tradizionali, alla scuola, fino ad arrivare anche al teatro, almeno così come lo conosciamo abitualmente. I Transquinquennal sono un collettivo antigerarchico, che in nome della parola democrazia e (in questo momento) della contrattazione si propone di ribaltare le regole del gioco.
Ora: tutto ciò può risultare interessante sul piano della riflessione, e forse dei processi mentali che vengono attivati nel costruirsi professionale di un attore. Ma diventa un po’ ostico – e diciamolo, pure palloso – se lo si orienta verso un’esperienza da portare sulla scena, e da far vedere al pubblico. Proprio questa, invece, mi sembra fosse l’idea alla base della dimostrazione che i tre Transquinquennal assieme a 14 attori dell’Ecole 2017 hanno presentato a un piccolo pubblico convenuto a Udine per scoprire qualcosa sul loro lavoro. Udine, sotto l’egida del CSS – Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, è stata la tappa iniziale del percorso internazionale di lavoro che continua a svilupparsi adesso a Bruxelles, toccherà poi Roma, Reims e Caen (Francia), e in conclusione Coimbra (Portogallo) il 24 settembre.
Mi voglio spiegare: ho l’impressione che la democrazia sia un utensile un po’ troppo ingombrante per essere usato a teatro. E che la contrattazione non sia il procedimento che mette in relazione gli attori con il pubblico. Su che cosa dovrebbero negoziare quando il contratto (generalmente siglato con l’acquisto di un biglietto) è già stato concluso. Ed è davvero opportuno che una decisione artistica (oppure semplicemente espressiva) venga presa a maggioranza?
Insomma: aspettarsi che scena e platea si confrontino democraticamente, che il pubblico negozi con agli attori che cosa devono fare, che un’esperienza di scena vada avanti a forza contrattazioni – ciò che probabilmente era nel programma della serata a cui ho assistito – si dimostra talmente ambizioso da scivolare subito nel fallimento. Nonostante un pubblico un po’ abituato a considerare la condivisione, l’interazione, la partecipazione attiva alla cosa pubblica come comuni processi quotidiani. Poiché il mondo digitale, oggi, verso tali modalità si sta indirizzando: il famoso approccio 2.0.
Eppure – lo abbiamo sperimentato un po’ tutti – essere pubblico, essere spettatori, mettersi in una condizione di ricezione, visione, ascolto, perché no, accomodarsi in una comodità passiva, è un privilegio al quale non siamo quasi mai disposti a rinunciare. Chi fa attivamente teatro lo sa (dovrebbe saperlo). Per venti minuti, invece, siamo rimasti così, i 14 attori e noi del pubblico, silenziosi, in attesa, a guardarci negli occhi. E nei successivi quaranta minuti, beh, non è successo granché.
Lo dico in modo sbrigativo: in platea si ragiona così: se scelgo di fare lo spettatore perché mai dalla scena tu mi inviti, mi solleciti, mi costringi a fare pure il co-protagonista. Stai al posto tuo. Fai quello che devi fare. Lascia che mi goda lo spettacolo. Tranquillamente. Alla faccia del 2.0.
E’ pur vero che l’Ecole des Maîtres non ha l’ambizione né l’intenzione di mettere in scena spettacoli: si tratta di un’attività di pedagogia per attori. Però sentitemi, maestri non maestri cari, progettisti a scadenza, per i prossimi cinque anni, pensate anche a noi spettatori, che siamo un po’ pigri e un po’ comodoni, non costringeteci a fare un mestiere che non è il nostro. Si fa già tanta fatica a farne uno, bene.
Devo aggiungere qualcosa. Vale la pena conoscere meglio il lavoro dei Transquinquennal e qualcuno dei loro 41 titoli di progetto. Provate a dare un’occhiata a questo breve teaser, che mostra l’idea che stava dietro a L’un d’entre nous.
O al trailer del loro spettacolo – questo sì, uno spettacolo – Capital Confiance.
O ancora a quel simpatico pasticcio intitolato : We want more.
E su questa pagina (clicca qui) trovate invece tutte le informazioni sull’edizione 2017 dell’Ecole des Maîtres.