Il bambino anatra e lo stagno della dislessia

Sono età fragili, l’infanzia e la vecchiaia. Fragili e indifese davanti ai colpi d’ariete che natura e cultura preparano loro, all’insaputa. Per un bambino, la conquista delle abilità dei grandi è pari al disagio che un anziano prova quando comincia a capire che quelle abilità ormai le sta perdendo.

cronache bambino anatra 2

Cronache del bambino anatra è un testo teatrale, e poi uno spettacolo, che con toni da favola quotidiana, affronta i problemi di chi in quelle difficoltà si imbatte. Lo ha scritto Sonia Antinori, dopo una ricerca di quasi due anni che l’ha portata a studiare i disturbi dell’apprendimento. In particolare la dislessia, il meccanismo che fa sì che alcuni bambini non raggiungano lo standard di lettura che viene considerato adeguato a una certa età della vita.

Empatia per la dislessia

Maria Ariis e Carla Manzon, dirette da Gigi Dall’Aglio, da due anni portano in scena lo spettacolo, che ha come primo obiettivo una riflessione empatica su quel disturbo. Che fino a un decennio fa non veniva riconosciuto come tale. E spesso giustificava una diagnosi di ritardo mentale in chi lo manifestava. Oppure la solita spiegazione: “è intelligente, è sveglio, ma non si applica”. Non era, e non è un ritardo. Neppure era svogliatezza. Ma un diverso comportamento delle reti neuronali, che rendono più lento e più difficile l’adeguamento alle aspettative degli altri.

Cronache del bambino anatra sono una madre e un figlio, che nel pieno degli anni Sessanta, si trovano ingabbiati in quella situazione. Maestra lei. Scolaro lui. Un rapporto che diventa sempre più difficile e conflittuale mano mano che l’adesione alle norme delle età, evidenzia quel deficit nella lettura. Mentre l’intelligenza sembra crescere a grandi passi, quasi per compensazione.

Riletta con gli occhi smagati e contemporanei di un’autrice teatrale, questa è la fiaba del brutto anatroccolo. Alla quale sia stato tolto il fiabesco, sostituito con le difficolta quotidiane di chi, suo malgrado, sente che il mondo richiede altro da ciò che lui può dare.

Ma come sempre accade, il tempo e la natura alla fine hanno ragione. Dell’uno e dell’altra. Lui, dislessico, diventerà uno scienziato di fama, confortato da onorificenze e stima. Lei, sensibile e comprensiva nella sua pedagogia elementare, accuserà via via i sintomi di quell’Alzheimer, che qui ci appare come l’opposto speculare dei disturbi dell’apprendimento: la perdita di quelle abilità che poco tempo prima sembrano capacità naturali. E sono invece frutto di cultura.

Una forte adesione ai personaggi. Un clima che la regia sottolinea musicalmente: dalla fiaba beatlesiana di Eleanor Rigby agli urli psichedelici dei primi Pink Floyd. E tutti gli accessori del caso: il mangiadischi, i 45 giri, lo stereo, il registratore Geloso.

Una forte empatia con il pubblico, infine, che facilmente si lascia vincere una storia che, come tutte le storie autentiche e sincere, non conosce né lieto né brutto fine. Ma l’inoppugnabile capacità della vita, di condurre ciascuno al suo traguardo. Con, senza, o magari grazie alle proprie imperfezioni.

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Informazioni sui disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) si possono trovare sul sito dell’Associazione Italiana Dislessia (www.aiditalia.org).

Venerdì 6 e sabato 7 aprile 2018, l’Associazione SOS Dislessia organizza a Torino il convegno nazionale “Guardare, provare, imparare: dai neuroni a specchio alla didattica a scuola”, due giornate dedicate alle origini dei processi di apprendimento implicito che costituiscono le basi per la costruzione della conoscenza e dell’apprendimento anche scolastico.

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Cronache del bambino anatra, di Sonia Antinori. Con Maria Ariis e Carla Manzon, regia di Gigi Dall’Aglio. Scene Enzo Sammaritani, costumi  Ilaria Bomben. Produzione  Associazione Malte  & A.Artisti Associati, Teatro Verdi di Pordenone, con il sostegno di Fondazione Crup, con il patrocinio di Associazioni Italiana Dislessia e di Associazione Nazionale Pedagogisti Italiani-Lombardia.

(le fotografie dello spettacolo sono di Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2016)

Ave Maria, priva di grazia. Sara Alzetta è Maria Farrar

Rinchiusa in carcere per il suo crimine, Maria Farrar veniva uccisa dalle altre detenute. A lei e a tutte le donne che per miseria, ignoranza, disperazione, compiono atti che indignano la società, Bertolt Brecht dedicava, cento anni fa, nel 1922, una delle sue poesie più toccanti.

Maria Farrar, nata in aprile, senza segni
particolari, minorenne, rachitica, orfana,
a sentir lei incensurata, stando alla cronaca,
ha ucciso un bambino nel modo che segue.

Per anni, la storia di questa minorenne che uccide il neonato che ha appena messo al mondo, aveva raggiunto il pubblico grazie anche alla voce di Milva, in una famosa selezione di poesie e canzoni, fatta da Giorgio Strehler. Come il verbale di una stazione di polizia, i versi raccontavano povertà e sfruttamento, neve e fame, solitudine, mancanza di alternative. Una giovanissima madre senza domani, il gesto di un momento. E il ritornello, tornava più volte a reclamare quel po’ di umanità che ancora oggi sembra non abitare il pensiero di chi richiama la legge cruda del respingimento.

Contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema.
Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena.
Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi:
ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.

Manlio Marinelli, autore che lavora in Sicilia, ha preso in mano la storia di Maria Farrar. L’ha accompagnata lungo le strade d’Italia, oggi, tra parlate e dialetti del Nord e del Sud, e ha scritto la sua Maria Farrar. L’ha affidata quindi a un’attrice, non solo a una voce, ma alle tante voci di Sara Alzetta. Che ne ha fatto la sua Maria senza domani.

Questa Maria, che prima è una figlia mai voluta. Poi una bambina sfigurata dalla bruttezza. Poi sguattera in un convento di suore. Poi ragazzina abusata e gravida. Infine infanticida.

Maria Farrar, nata in aprile,
defunta nelle carceri di Meissen,
ragazza madre, condannata, vuole
mostrare a tutti quanto siamo fragili.

Alzetta Maria Farrar 1

Il monologo dell’attrice triestina che si è formata alla scuola di Strehler, negli scorsi giorni ha esaurito tutti i posti a sedere del Ridottino, la piccola sala che il Teatro Miela riserva agli spettacoli più raccolti, si potrebbe anche dire più intimi.

Ma Alzetta è una donna determinata e la sua interpretazione è tanto forte, che il tono crudo e documentario della poesia di Brecht, ripreso in mano e rielaborato da lei e Marinelli, diventa ciò che oggi risuona come un pianto e una risata tragica. Pietoso e derisorio allo stesso tempo.

Un neo-espressionismo in cui il senso di pietà che proviamo per quella vittima si sfrange nel comico dei suoi carnefici. Genitori, suore, parroci, bulli di periferia, carabinieri, nei loro diversi dialetti, nelle loro crudeltà ignoranti.

Con l’apparizione infine di una Madonna, luminosa, bellissima, madre di un figlio diventato giustamente famoso. La quale, con accento emiliano e gesti televisivi da salotto, rimprovera alla sua devota omonima, il peccato più grave, il più mortale, oggi nella società dell’apparenza. Quello della bruttezza: Ave Maria Farrar, priva di tutte le grazie.

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La Maria Farrar, di Manlio Marinelli, interpretata da Sara Alzetta, produzione Bonawentura, si replica ancora oggi 20 marzo, al Teatro Miela.

La traduzione della poesia, dal Libro di devozioni domestiche (Einaudi) è di Emilio Castellani e Roberto Fertonani.

Transquinquennal. Teatro con data di scadenza

“Transquinquennal si scioglierà il 31 dicembre 2022. Nel frattempo avrà fatto la sua storia” annunciano.

Come yogurt e formaggi, pelati e piselli in scatola, Transquinquennal ha una data di scadenza. Anche se questa compagnia di teatro belga ha poco a che fare con latticini e scatolame. Sul loro sito, un orologio conta comunque a ritroso il tempo che manca.

Transquinquennal è un collettivo composto da tre uomini (Bernard Breuse, Stéphane Olivier, Miguel Decleire, registi e performer) e una donna (Brigitte Neervoort, manager), che del teatro hanno deciso di fare una pratica anti-autoritaria. “L’autoritarismo, anche a teatro, è una maniera per semplificare la complessità del reale” sostengono. E poi passano ad illustrare il proprio metodo di regia collettiva. Se un attore ad esempio chiede loro: “Perché nel terzo atto il mio personaggio uccide la propria madre?”, uno risponde in un modo (“perché ha cercato di sedurre il fidanzato di tua sorella”), un altro dà una risposta completamente diversa, e il terzo dice: “Boh, arrangiati un po’ tu”.

Transquinquennal ha grande stima del filosofo francese Clément Rosset, autore di oltre trenta titoli nei quali – semplifico un po’ – si argomenta che “la realtà è idiota”, in quanto non possiede una sua propria intelligenza.

Maestri, senza nulla da insegnare

Tutte queste cose, Transquinquennal le ha raccontate nell’incontro che a Teatro Contatto, a Udine, precedeva il debutto italiano del loro più recente spettacolo. Io avevo incontrato i Transquinquennal già lo scorso agosto, quando conducevano, sempre Udine, e poi a Bruxelles, Roma, Reims Caen e Coimbra, la 26esima edizione dell’École des Maîtres, il corso internazionale di perfezionamento per attori (ecco ciò che ne scrivevo allora).

École des Maîtres, sì, la scuola dei maestri. Ma nel loro caso “senza maestri e senza nulla da insegnare, se non un metodo di pensiero”. Già ad agosto mi erano sembrati un po’ complicati. Adesso quell’impressione è confermata.

École des Maîtres, 2018

Philip Seymour Hoffman, per esempio

Il loro più recente spettacolo si intitola Philip Seymour Hoffman, par exemple. Non si tratta una biografia teatrale dell’attore e premio Oscar scomparso quattro anni fa – precisano – e tutto sommato non riguarda nemmeno la sua indimenticabile carriera cinematografica e la sua inaspettata morte. Lo spettacolo – dicono – ha invece a che fare con il concetto di identità e le sue conseguenze. Se si prova a seguirne la trama, a un certo punto si capisce che uno dei personaggi (che ha lo stesso nome dell’attore belga che lo interpreta, Stéphane Olivier) viene sistematicamente confuso con Philip Seymour Hoffman, l’attore statunitense. Tanto da ingenerare una infinita serie di malintesi e paradossi, su cui ruotano i 130 minuti della rappresentazione. Non bastasse ciò a complicare le cose, la trama principale è affiancata da un trama secondaria, nella quale sono coinvolti un attore giapponese e una concorrente di quiz televisivi che risponde a domande sulla carriera dell’attore giapponese. Vi venisse la curiosità di sapere se l’attore giapponese è vivo, è scomparso, o se è mai esistito, Transquinquennal vi risponderà che è una domanda da rivolgere all’autore del testo, non a loro.

Rivolgersi all’autore

L’autore del testo è quel simpatico e divertente argentino che risponde al nome di Rafael Spregelburd. Personalmente, lo considero uno dei più intelligenti drammaturghi contemporanei. Per una ragione soprattutto: perché non si prende mai troppo sul serio.

Così credo abbia fatto anche con i Transquinquennal quando gli hanno chiesto di scrivere una trama con due ingredienti: primo, che avesse nel titolo il nome di Philip Seymour Hoffman, secondo che avesse a che fare con le opere del filosofo francese Rosset e la sua teoria della “realtà idiota”.

Transquinquennal e Rafael Spregelburd (quello con il maglione chiaro)

Appassionato del teatro della complessità, Spregelburd il risultato l’ha sfornato in poche ore: Philip Seymour Hoffman, par exemple, appunto. Che i belgi hanno diligentemente allestito, e presentato in Belgio, in Francia e adesso anche in Italia, nel cartellone di Teatro Contatto. In mancanza di un attore giapponese, hanno pensato che bastasse uno di loro a interpretarlo. Tanto la realtà è un’idiozia e le identità si confondono.

Prima dello spettacolo, è stata comunque data una dritta agli spettatori. “Se nei primi 30 minuti vi sembra di non capire nulla – ha detto Stéphane Olivier – non vi preoccupate. E’ fatto apposta”.

Ma sinceramente: io ci ho capito poco anche nei 100 minuti successivi.

Questa sera ci vediamo al bar. Offre Harold Pinter

Non mi era mai capitata un’edizione così. Un’edizione così alcolica, così sbandata, di Notte, gioiello in miniatura fra la cinquantina di testi che Harold Pinter ha scritto per il teatro. Assieme a Il calapranzi e a altri piccoli episodi di scrittura, Notte fa parte di una breve playlist firmata Pinter che Valerio Binasco ha allestito per il Teatro Metastasio di Prato e lo Stabile di Genova. Titolo complessivo Night Bar. Un’intuizione personale e originale, che ha spinto il regista a raccogliere sotto le insegne di un locale aperto fino a tardi alcuni temi ricorrenti dell’autore inglese scomparso dieci anni fa.

Di Harold Pinter credo di conoscere tutti i testi, i collegamenti più intimi tra i diversi lavori, persino quel nucleo aurorale da cui ciascuno dei suoi titoli è nato. Nei tanti incontri e nelle tante interviste con lui – raccolte in quasi quindici anni e nel libro che lo racconta  – era ogni volta possibile strappargli un dettaglio, un’immagine, forse un segreto, che illumina meglio la sua elusiva drammaturgia.

RobertoCanziani, Gianfraco Capitta, Harold Pinter. Scena e potere, Garzanti 2005

Elusiva solo in apparenza. E per niente enigmatica, come vuole l’opinione comune e la storia del teatro. In realtà, il rapporto tra Pinter e le sue storie e i suoi personaggi assomiglia molto al rapporto che intratteniamo con la realtà. Che non conosciamo mai completamente. Che non possiamo ricondurre sempre a una logica. Che ci sorprende con svolte inaspettate e gioca con la nostra memoria, approssimativa, labile. “Io ricordo cose che possono non essere mai accadute ma, poiché le ricordo, sono accadute” dice uno dei personaggi di Vecchi tempi. Credo che sia una buona chiave per fare chiarezza sull’apparente mistero dei suoi lavori.

La memoria ubriaca

Notte, scritto nel 1969, racchiude in poche pagine questo tema. E’ così limpido e così compatto che tornerei a vederlo sempre. Per questo sono andato al Metastasio di Prato. Perché Notte concludeva con una nota superalcolica, la selezione dei quattro testi scelti da Binasco. E a questa nota ubriaca, che nella vicenda rende protagonisti anche il gin e la vodka, non avevo mai pensato. Cioè che Notte, non sia solo dimostrazione della volatilità della memoria, ma abbia anche a che fare con quel filone di bottiglie e bicchieri che sono una costante della drammaturgia anglosassone. Poi si sa: il vino bianco, secco, ghiacciato, Pinter lo apprezzava sempre.

In Notte, che dura meno di dieci minuti, ho trovato perfetti Arianna Scommegna e Nicola Pannelli. Interpretano due coniugi quarantenni, intenti a rievocare il loro primo incontro, decenni prima. Era successo sul ponte. No, sulla cancellata. Eravamo a un festa. Non ricordo bene. Faceva freddo. Sì, ti avevo messo le mani sotto il maglione. Davvero? Le mie mani sul tuo seno. Forse non ero io, era un’altra. Insomma non se lo ricordano proprio l’incipit della loro storia, brilli come sono, ma molto convincenti. E tutto quell’alcool li aiuta a confondere meglio le cose, che sembrano dissolversi in una nebbia lattiginosa. La stessa che mi accoglieva a Prato quella sera, infatti.

Interpretare Pinter

Di Arianna Scommegna (alle prese con Pinter anche in Il ritorno a casa di qualche anno fa, regia di Peter Stein) potevo già anticipare la bravura. Nicola Pannelli, per me, è ogni volta una rivelazione. Provate a guardarlo nella foto qui sopra (credo Binasco avesse in mente Marlon Brando e quel suo Ultimo tango). Non capisco perché il suo stesso teatro, lo Stabile di Genova che se li tiene sempre stretti i propri attori, non valorizzi di più Pannelli. O perché lui stesso, liberandosi, non provi a bucare la rete che lo tiene legato a personaggi di spalla.

Con Sergio Romano, che è il terzo interprete di Night Bar, aveva provato a farlo nella messa in scena di un testo di Agota Kristof (un’altra regia di Binasco, ne ho scritto qui). Ora, in questo spettacolo pinteriano, anche Romano ha i suoi spazi, ma nella riuscita della serata, nelle figure che tratteggia, a volte al limite del caricaturale, a me è sembrato meno interessante.

Anche perché il Calapranzi, in cui Romano interpreta un killer un po’ sopra le righe, non si inquadra perfettamente nel mondo di quel bar notturno. Mentre lo fanno bene Tess, monologo disinvolto e un po’ puttanesco di Scommegna, e L’ultimo ad andarsene, con quei due tipi che discorrono di giornali e buttano giù il bicchiere della staffa. Ma è un episodio minore della drammaturgia pinteriana. Che la colonna sonora disco anni ’70 però rafforza. Voulez-vous, un rendez-vous? Tomorrow…

 

Night Bar, con Nicola Pannelli, Sergio  Romano, Arianna Scommegna e la regia di Valerio Binasco, è in scena fino al 4 marzo al Teatro Duse di Genova. Versione italiana di Alessandra Serra. Scene Lorenzo Banci, musiche Arturo Annecchino, costumi Sandra Cardini, luci Roberto Innocenti.

Le fotografie sono di Duccio Burberi.