Com’è giusto, com’è bello, rottamare Pirandello

Roberto Latini prende in mano Sei personaggi. E a Castrovillari, durante la 19sima edizione di Primavera dei teatri, prova a dimostrare che Pirandello si può ancora portare in scena. Facendolo giustamente a pezzi.

Roberto Latini – ph Fabio Lovino

Non sarà stato il mio post della settimana passata – Tante buone ragioni per prendere il bus per Castrovillari – però a Primavera dei teatri, nei giorni scorsi, c’era davvero un sacco di gente.

La manifestazione calabrese, che apre l’estate dei festival, si è appena conclusa e ha registrato sale piene e liste d’attesa. Per la soddisfazione di chi la programma: la compagnia Scena Verticale.

Ma anche per la gioia degli esercenti: bar affollati, alberghi e b&b al completo, tempi biblici ai tavoli dei ristoranti, nel mescolarsi di pubblico locale, facilmente riconoscibile, e artisti, programmatori, responsabili di festival, giornalisti e blogger, studiosi e studenti: la varia umanità specializzata che rappresenta la linfa del settore. Un manipolo di spettatori d’avanguardia, che fin da maggio comincia a sciamare per luoghi e città della penisola, all’inseguimento di debutti che dovrebbero marcare l’originalità di ciascuna manifestazione. Dalle colline torinesi (qui il programma) ai lungomare adriatici (qui), da città feticcio come Napoli (qui) alle montagne calabresi appunto.

In realtà l’espressione debutto, che in teatro sarebbe sinonimo di prima assoluta, da parecchio tempo si sbriciola tra le mani, visto come si è trasformato il tessuto produttivo del teatro italiano, soprattutto le sue regole. Invece, anteprime, studi, schegge, prove aperte, trailer, spoiler, perfino le temibili restituzioni, si sono decuplicate, nella variopinta tipologia di prime che si accavallano l’una con l’altra durante la lunga stagione dell’Italia dei festival.

A Castrovillari, per questa Primavera assai generosa nell’offerta di titoli – tre al giorno – la mia attenzione era appuntata proprio su uno di questi debutti, il più solido, a mio avviso. Molte altre prime hanno mostrato infatti chiaro il limite di una precoce e timida uscita. Da Calcinculo di Babilonia Teatri, con i suoi tre quarti d’ora di tentativi, all’Eracle odiatore ma ancora dispersivo del Teatro dei Borgia, alle tre proposte di Europe Connection (in collaborazione con Fabulamundi, Playwriting Europe), progetto di drammaturgie internazionali, alle quali si potrebbero però augurare migliori selezionatori.

Mi va allora di parlare di Sei – E dunque, perché si fa meraviglia di noi? – il nuovo tuffo di Roberto Latini nel teatro importante di Pirandello.

Come alcool, il testo è un distillato

Sei sono i Sei personaggi, che con un radicale lavoro da dramaturg, Latini, compatta, spreme, asciuga, comprime fino a cavarne un distillato di parole, di cui incarica un solo attore, Piergiuseppe Di Tanno. La memoria va a I giganti della montagna, che lo stesso Latini aveva interpretato in solitudine, quattro anni fa. Operazioni simili si sono viste pure altrove: Fausto Russo Alesi aveva preso in carico tutti i ruoli di Natale in Casa Cupiello, per esempio. Ma è chiaro che il realismo popolare di Eduardo poco ha a che fare con la densità concettuale del titolo principe fra i titoli pirandelliani: Sei.

I giganti della montagna

Ho scritto spesso che, a mio parere, Pirandello non è più rappresentabile. Almeno così com’è scritto, nei modi in cui di solito si rappresenta, con tutti i suoi valori in vista. Come se non fosse passato un secolo – e quale secolo! – da allora e da quei valori. E ho scritto e riscritto che la via per salvaguardare Pirandello, per liberarlo dall’orribile pirandellismo di primo Novecento, mi sembra sia solo quella di rottamarlo.

Chissà se la parola è giusta. Di fatto attorno alla questa proposta di rottamazione, la rivista Hystrio ha realizzato nel numero di luglio 2017 un vasto questionario di opinioni, al quale un certo numero di pirandellisti doc, e non solo i più conservatori, hanno risposto con i soliti luoghi comuni. Quelli scolastici.

Rottamare Pirandello per me significa invece privarlo della sua scolasticità: demolire la rete di valori storici e sociologici che regge quei personaggi, quelle situazioni, quelle infinite discussioni su adulteri, paternità e maternità contese, reputazione civile. E con ciò che resta – problemi di estetica, diciamo per semplificare – dare forma contemporanea a certi snodi, a certi specchi di pensiero capaci di riflettere, oggi, alcune delle nostre domande. Ripeto: nostre. Non del 1921. La luce che restituiscono i classici, quando noi, oggi, li interroghiamo, illuminandoli: solo quella luce è ciò che li rende classici.

Nelle parole con cui Roberto Latini dà avvio alla sua operazione di drammaturgia e di regia (già anticipata con I giganti e poi con il Goldoni del Teatro Comico) trovo riflessa proprio questa operazione. Soprattutto, la trovo realizzata nello spettacolo Sei. Sottotitolo: E dunque, perché si fa meraviglia di noi?

ph Angelo Maggio

Pirandello dissugato

Guardate allora quel trespolo, quella piccola piattaforma che galleggia a quasi due metri da terra. Guardate quel performer lassù, con mezza maschera, collare a gorgiera, blusa bianca, le gambe fasciate di lattice nero, le unghie smaltate, un improbabile taglio di capelli orientale. Niente a che fare con i Pirandelli di maniera. Con gli abitucci borghesi che si vedono sempre. Dietro, solo un telo bianco, mosso ogni tanto dal vento del ventilatore nascosto. Nient’altro.

A lui, Piergiuseppe Di Tanno, toccano tutte le voci dei personaggi dei Sei personaggi. Didascalie comprese. E non si comincia dall’inizio. Via tutto lo spiegone iniziale, via la compagnia degli attori che arriva alle prove alla spicciolata, via l’ingresso grottesco della famigliola dei fantasmi. Si comincia con la battuta citata nel sottotitolo – E dunque, perché si fa meraviglia di noi?–  e siamo già a pagina 100.  Ma la battuta va al cuore del problema. Quello del personaggio. Quello dei personaggi. Non solo questi sei, di tutti i personaggi. Di loro come creature.

Infatti subito dopo, nella sola voce del performer, si manifesta la situazione chiave. Non il quadretto oramai insopportabile del Padre che nel bordello-sartoria di Madama Pace incontra la Figliastra: Latini non si cura proprio di quella patetica vicenda. La situazione chiave è quella del personaggio. Del suo statuto.

La figliastra: (venendo avanti come trasognata) È vero, anch’io, anch’io signore, per tentarlo, tante volte, nella malinconia di quel suo scrittojo, all’ora del crepuscolo, quand’egli, abbandonato su una poltrona, non sapeva risolversi a girar la chiavetta della luce e lasciava che l’ombra gl’invadesse la stanza e che quell’ombra brulicasse di noi, che andavamo a tentarlo…

Chi è, che cos’è, il personaggio per l’autore. E per l’attore? Che cos’è per lo spettatore? Un fantasma, una creatura, un’allucinazione che ci turba non il sonno, ma la veglia. La domanda che ognuno sarebbe invitato a porsi davanti a un lavoro di spettacolo dal vivo. E che a volte autori, attori e spettatori si pongono. Così l’opera – il classico – si libera da tutto il ciarpame (i cappellini di Madama Pace, la busta cilestrina con i soldi dentro) e come dice la Figliastra, “si dissuga”.

In un approccio che destruttura, o dissuga, l’opera, e che la fa diventare un nettare di parole, per quasi tutti i sessanta minuti di Sei, Roberto Latini sembra concentrarsi su questo problema. Più di quanto facesse Ronconi con In cerca d’autore. Il grottesco che Ronconi metteva in bocca ai suoi giovani attori (resta indimenticabile la Madre di Sara Putignano) diventa nella regia di Latini, nella sua indole barocca, una super-recitazione, una modalità non post ma iper-drammatica. Piena di strappi, contorcimenti, amplificazioni di voce, ma anche allucinazioni di gesti, su quella minuscola piattaforma. In un immaginario fast rewind io mi immagino recitassero così, se ne avessimo testimonianza audiovisiva, le mitiche Figliastre pirandelliane: Vera Vergani, Marta Abba. Forse è la mia allucinazione. Ma intanto l’opera vola, perché è fatta solo di parole.

Per questo, forse, sono stato attento, e anche incantato, per quasi tutta la durata dello spettacolo ideato da Latini, sempre più dissugato e culminante in un prosciugamento estremo. A un certo punto si assenta persino l’attore. Il palco è vuoto e sul velatino che intanto si è sollevato, il regista proietta le parole raggianti che emanano dal testo. Realtà. Finzione. Personaggio. Rappresentare. Solo quelle poche, null’altro, luminescenti nel buio.

E dovremmo appunto finirla qui, la commedia, con questi pochi lacerti di senso in cui si riassume tutto Sei personaggi, oggi. Rottami di ciò che cento anni fa suscitò contestazioni e che adesso potrebbe essere invece un grimaldello per riaprire il teatro.

Ma all’indole barocca di Latini, il cuore magmatico dei Sei Personaggi non sembra del tutto sufficiente. Sbagliando – almeno a me pare – la regia fa dire a Di Tanno, sceso dal trespolone, in lingua quasi inglese, l’intermezzo shakespeariano dei becchini dell’Amleto. La Bambina di Pirandello – pensa qualcuno – annega così come annegò l’Ofelia di Danimarca. Domando: che c’entra? Concludo: mi pare svii l’attenzione.

Certo, a tutto lo sforzo precedente, a tutta questa muscolare prova d’interprete, al congegno registico che rottama Pirandello, manca il gran finale. Ma Latini, con la complicità di Gialuca Misiti alle musiche e l’impianto luci di Max Mugnai ce lo aveva preparato piano piano. Lo attendevamo e finalmente si svela.

Quasi nel buio, un macchinario kafkiano viene fatto entrare in scena. In primo piano un groviglio indistinto, che sembra simulare un contenitore, più esattamente una vasca: la vasca dove è affogata, dove affogherà sempre, la Bambina.

Parte una musica leggera, l’interprete si libera di tutto, si tuffa nella vasca, e la macchina misteriosa comincia a vomitare schiuma. Iconico flashback: Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza. O molte altre dive gambe lunghe fra le bolle, pensiamo un po’ tutti. Come se Latini ci strizzasse l’occhio.

ph Angelo Maggio

Ma la musica è quella di Midnight, the Stars and you, uno standard da sala da ballo degli anni venti, composto da Ray Noble e cantata da Al Bowlly. E mi viene in mente che Stanley Kubrick l’aveva usata in Shining, nella scena che ricostruisce la festa all’Overlook Hotel, nel geniale avanti e indietro con la fotografia-ricordo in cui compare la data del 1921. Che poi è l’anno in cui al Teatro Valle di Roma debuttava Sei personaggi. Se i conti tornano. Ma temo che sia un’altra allucinazione: mia.

 

SEI.  E DUNQUE, PERCHE’ SI FA MERAVIGLIA DI NOI?

da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello
drammaturgia e regia  Roberto Latini
musica e suono  Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica  Max Mugnai
assistente alla regia  Alessandro Porcu
con  PierGiuseppe Di Tanno
produzione  Fortebraccio Teatro
con il sostegno di  Armunia Festival Costa degli Etruschi
con il contributo di  MiBACT, Regione Emilia-Romagna

 

 

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