Sbalorditivi ritratti, ottenuti da fotografie di un’altra epoca. Ma sembrano scatti di oggi e ridanno vita a uomini e donne straordinari. Provate a scorrere questa galleria.
No, non è Gerard Depardieu giovane, prima di toccare i 120 chili. Non ci credevo, eppure alla fine mi sono convinto anch’io. È Vladimir Majakovskij.
Un’occhiata di sbieco, la sua, che vale più di cento versi. Lo sapeva bene la sua musa poetica, Lilja Brik.
E si può anche capire perché il marito di Lilja, Osip Brik, appena saputo che la moglie era finita letto con Vladi, avesse pronunciato la sconsolata frase: “è un uomo a cui non si può negare nulla”.
Dopo Majakovskij, le foto di due signori più anziani, più inoffensivi. Che tanto anziani poi non sono. Perlomeno: non lo erano al momento dello scatto. Attorno al 1860 Fëdor Dostoevskij (a sinistra) aveva solo 40 anni. La barba lasciata andare, i capelli radi gli regalano qualche lustro di più. Impressionano i dettagli del ritratto di destra: Lev Tolstoj. Nel 1880, quando venne scattata questa fotografia, aveva poco più di 50 anni.
La fotografia aumentata
Eppure – sarete d’accordo con me – sembrano scatti di ieri. Il colore, la definizione, la qualità complessiva, fanno pensare a immagini recenti. Sembrano selfie appena fatti, al massimo ieri: una antica realtà aumentata.
Sergej Esenin e Isadora Duncan
Guardate questi due. Il giovanotto ha 26 anni e si chiama Sergej Aleksandrovič Esenin, poeta prodigio. La signora ne ha 53 e si chiama Isadora Duncan, pioniera della danza moderna. “Si sposarono il 2 maggio 1922, nonostante il fatto che la Duncan conoscesse solo una dozzina di parole in russo, mentre Esenin non parlava nessuna lingua straniera” avverte Wikipedia. Trascura però un altro fatto: che oltre a un “amore a prima vista”, fu anche un’abile operazione di marketing, visto che entrambi esibivano stili di vita anticonvenzionali. Che oggi si definirebbero LGBT+.
Il passatempo di Olga
A compiere queste meticolose ricostruzioni visive, e a ridare la vita a personaggi vissuti cento o più anni fa, è Olga Shirnina, che di mestiere fa la traduttrice, in Russia. Per passatempo, la signora Olga mette quotidianamente mano a Photoshop e, dopo aver lavorato di fino, decine e decine di layer sovrapposti, riconsegna al presente i personaggi di una storia che è la sua Storia.
Dalla famiglia imperiale Romanov al temibile Grigorij Rasputin. Da Lenin a Stalin a Krushov. E ancora scrittori, danzatori e danzatrici: la Russia ne è stata prodiga. Ma anche soldati, contadini, uomini e donne qualsiasi.
Questo è sempre Majakovskij. La giustapposizione spiega bene le difficoltà, non solo tecniche, che si incontrano nel voler immaginare ciò che la tecnologia fotografica dell’epoca ignorava: il colore. Cioè la vita. Di che colore erano le cravatte preferite da Majakovskij? E soprattutto, di che colore gli occhi, così penetranti.
Klimbim, colorista
Per evitare interferenze con il proprio mestiere di traduttrice, e o forse perché le piace giocare, la signora Olga non firma i ritocchi con il proprio nome.
Preferisce firmare “Colors by Klimbim“. Ed è con questo alias che potete trovare in rete molte delle sue rielaborazioni. Colorized by Klimbim.
Ad avermi colpito è una specie di Augmented Reality che percepisco, ad esempio, quando Klimbim si impegna su Anton Cechov. Il colore ne fa davvero un nostro contemporaneo. Augmented Anton.
Sembra davvero un selfie scattato poche ore fa. Struggente Anton. Ricordate che non vivrà a lungo. La sua ultima fotografia è stata scattata nell’anno in cui va in scena Il giardino dei ciliegi, il 17 gennaio 1904. E lui ha 43 anni. Morirà il 15 luglio: una coppa di champagne, il suo ultimo desiderio.
Nei suoi album, la signora Olga ha raccolto centinaia e centinaia di foto. Ogni volta mi incanto a guardarle e le scruto con curiosità morbosa. Forse perché mi tornano in mente le riflessioni che Roland Barthes faceva in un suo libro di anni, anzi decenni fa, che reputo una bibbia: La camera chiara.
Chi si trovasse mercoledì 27 a Roma, sappia che può incontrare un drammaturgo americano che si è fatto un nome.
Will Eno
Scatta qualcosa nella memoria se scrivo Will e aggiungo Eno? No, eh? In Italia, il nome del drammaturgo statunitense Will Eno non pare susciti particolari reazioni. Nemmeno in voi, che siete tra i pochi che leggono le cose di teatro.
È lo spirito dei tempi: che non sono più quelli di Arthur Miller e Tennessee Williams. Ma nemmeno di David Mamet. Le cose sono cambiate da quando i copioni made in USA entravano subito in circolazione tra chi si occupava di teatro in Italia e, un anno sì e un anno no, si faceva qualche bella scoperta.
Tre monologhi per il nostro tempo
Un decennio fa Will Eno era stata una bella scoperta. Nel 2010, un suo testo veniva tradotto in italiano e, intorno, scaturiva un piccolo caso. Anche perché a interpretare il monologo Thom Pain (basato sul niente) sarebbe stato Elio Germano. Che non era ancora il Germano che sappiamo. Ma un suo sfizio se l’era già tolto, quando sul palco della Croisette a Cannes, proprio in quell’anno, premiato come miglior interprete maschile (ex aequo con Javier Bardem) aveva pronunciato il famoso discorsetto: “Dedico questo premio – aveva detto – all’Italia e agli Italiani, che fanno di tutto per rendere l’Italia un paese migliore, nonostante la loro classe dirigente“.
Eravamo, all’epoca, agli sgoccioli dell’ultimo governo Berlusconi. Non che da allora le cose siano cambiate. Anzi.
Elio Germano in Thom Pain
Comunque Thom Pain (che Germano interpretava con quel nervosismo che non riesci a capire mai se è suo o del personaggio) era un monologo proprio bello. Non dico “uno dei più belli che io abbia mai sentito”, come aveva scritto una tipa sul Guardian, ma stavamo da quelle parti. Con la regia dello stesso Germano e Silvio Peroni, lo aveva prodotto Bam Teatro, che poche stagioni dopo avrebbe ritentato la fortuna sulla ruota americana. Toccava a Lady Grey (con le luci che si abbassano sempre di più) : un altro monologo di Eno, ma al femminile. Per come me lo ricordo, nel restituirlo al pubblico Isabella Ragonese era parecchio selvaggia, e magnetica, oltre che bella.
Isabella Ragonese in Lady Grey
Chi legge cose di teatro sa, forse, che anche il terzo spicchio della trilogia di monologhi composta da Eno in questi dieci anni, è arrivato da poco in Italia. Da alcune settimane è in tournée Proprietà e atto, diretto da Leonardo Lidi e interpretato da Francesco Mandelli, ancora una produzione Bam.
Mi sto impegnando, prima o poi, per vederlo. E ce la farò anche se, dice proprio Eno: “La vita oggi è infinitamente complicata, e non solo: a viverla è anche gente infinitamente complicata“.
Leonardo Lidi e Francesco Mandelli durante le prove di Proprietà e atto
Da una sponda all’altra
Chi veramente si impegna, e da un bel po’ di tempo, per riattivare la circolazione di testi americani in Italia è Valeria Orani. Imprenditrice intraprendente che dal Belpaese è immigrata in USA (sottolineo immigrata, parola che pertiene allo spirito di questi tempi). E oggi, con la sua factory newyorchese, che si chiama Umanism, e con il centro di produzione e distribuzione 369gradi di Roma, assicura la movimentazione Italia-USA. Non container, ma testi teatrali, drammaturgia, storie scritte per la scena, che lei fa liberamente circolare tra le due sponde dell’Atlantico.
Di più: l’impegno di Orani, assieme a quello di Frank Hentschker, direttore del Martin E. Segal Theatre Center di NY, si è concentrato in questi ultimi mesi nel far sì che da sponda a sponda navigassero non soltanto i copioni, ma anche le persone. E tra i diversi biglietti aerei che i due hanno prenotato, c’è quello che porta in questi giorni Will Eno in Italia. Un po’ perché lui vuole conoscere il Paese. Un po’ perché a noi farebbe bene sapere qualcosa di lui, leggere suoi lavori che non conosciamo, sentire come la pensa: e degli Stati Uniti e dell’Italia, e del suo Presidente e dei nostri. Pensieri che nella testa di un drammaturgo producono spesso qualcosa. Tanto più se il drammaturgo, dopo i pensieri, pubblica anche testi come Oh, l’umanità, & altre buone intenzioni.
Allora, sempre voi, che trovate interessanti le cose di teatro, sappiate che mercoledì 27 marzo, alle 18.30 nel foyer del Teatro Valle a Roma, Will Eno incontrerà il pubblico in una conversazione con Frank Hentschker, moderata da Graziano Graziani, tradotta, e accompagnata da alcune letture, nel quadro delle iniziative del progetto pluriennale Italian and American Playwrights.
Will Eno davanti allo scaffale Contemporary Drama
Se questo viavai di teatro sopra l’Atlantico affascina pure voi, potete trovare altre informazioni seguendo il link verso questo progetto. Per me, già conoscere uno che è stato finalista al Pulitzer in Drama, è uno stimolo forte.
Due sono le fermate d’autobus rimaste nella storia. Una è quella dove Marilyn Monroe, costretta ad aspettare, finisce con l’innamorarsi di un cowboy esperto nel maneggiare il lazo (Bus stop, 1956).
L’altra è quella di corso Buenos Aires angolo via Petrella, a Milano. È qui che in una rigida giornata dell’inverno 1936, un giovane di nemmeno diciott’anni, Paolo Grassi, si rivolge a un sedicenne in attesa del tram numero 6.
“Senta, io la vedo sempre a teatro, evidentemente è una sua passione. Tanto vale che io mi presenti, che ci conosciamo e che ci frequentiamo, visto che abbiamo in comune questo amore. Io mi chiamo Paolo Grassi“.
“Io Giorgio Strehler” risponde l’altro. Così almeno l’hanno raccontata sempre i diretti interessati.
Al di qua della mitologia
Su quell’incontro e sulle sue conseguenze, la storiografia del teatro italiano ha costruito una mitologia. Si sviluppava là, all’incrocio con via Petrella, il germe di ciò che dieci anni dopo, con la fondazione del Piccolo Teatro della Città di Milano, e ancora oggi, in Italia, si chiamerà teatro pubblico.
Ritrovo l’episodio, narrato nel libro che si intitolaPaolo Grassi. Senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione, che Fabio Francione ha curato per Skira Editore (272 pp., 25 euro) e che racconta uno dei fondatori del Piccolo Teatro. Così come fa – in parallelo – la mostra con lo stesso titolo (e sempre curata da Francione, assieme alla figlia di Grassi, Francesca) che si può visitare fino al 24 marzo a Palazzo Reale, a Milano.
Il libro va letto con attenzione e la mostra visitata lentamente, da chi si occupa adesso di teatro, in Italia. Spiego perché. O perlomeno giustifico una personale opinione.
Le ricorrenze, gli anniversari, centenari o decennali che siano, mi incutono sempre diffidenza. In occasioni simili, si può fare ben poco per evitare la celebrazione, peggio: l’encomio. Ho faticato molto, quando mi sono occupato, in due anniversari, di Giorgio Strehler, per evitare la solita formula. Quella che dice quant’era bravo, quant’era talentuoso, quanto era geniale e rivoluzionario quell’uomo. Mi pareva più utile che la ricorrenza aprisse la porta a questioni, problemi, magari a dubbi.
Grassi al Piccolo
Elegante, versatile, tracotante
Occuparsi di Paolo Grassi (1919 – 1981) è diverso. Grassi è stato il lato raziocinante del Piccolo Teatro. Strehler quello sensitivo, appassionato. Di Grassi non è possibile dire quant’era geniale, talentuoso. Di lui vanno conosciute, riconosciute e ammirate la determinazione e la perseveranza. Aggiungerei, la tenacia.
“Il suo congedo alla vita fu inaspettato”, scrive Francione nel volume. “La morte lo colse all’età di sessantuno anni. Aveva vissuto tre, forse quattro vite; forse aveva ancora molto da dare […] L’eleganza innata, la versatilità oratoria al pari della tracotante difesa delle sue idee e dell’ingombrante presenza per quarant’anni sulla scena culturale italiana, ne fanno uno dei protagonisti del XX secolo”. Verissimo.
Bertolt Brecht e Paolo Grassi sul palcoscenico del Piccolo (1956)
Meno mitologici degli anni passati nella plancia del Piccolo Teatro a tracciare le rotte della più importante istituzione italiana di prosa (1947-1972), ma ugualmente significativi, sono gli anni trascorsi da Grassi come sovraintendente del Teatro alla Scala (1972-1977) e quelli che lo videro poi alla presidenza della Rai (1977-1980).
A lato di queste già complesse tre vite, e di una probabile aspirazione a una quarta, come Ministro dello Spettacolo, c’è il suo importante lavoro di diffusione della cultura teatrale realizzato attraverso i libri e i giornali. Dagli aurorali impegni di critico militante per le riviste che durante il Fascismo, e subito dopo, tennero alta la riflessione culturale in Italia, alla curatela di collane per editori come Rosa e Ballo, Einaudi (dove con Gerardo Guerrieri diresse il più importante progetto teatrale di sempre, la Collezione di Teatro), poi per Cappelli ed Electa.
Poeta dell’organizzazione
Tutto ciò si legge bene nel volume e si vede documentato nella mostra, la quale a differenza di quelle dedicate agli artisti (a Strehler, ad esempio) non può esporre pezzi che strappano l’ammirazione, né fotografie-capolavoro, o cimeli da Wunderkammer.
I documenti di un poeta dell’organizzazione, consistono invece in centinaia di lettere, scritti programmatici, manifesti e appunti, fotografie ufficiali e d’occasione: il quotidiano lavoro di chi tesse la rete su cui poi si appoggeranno gli spettacoli, gli eventi.
Grassi e la regina Elisabetta II al Covent Garden di Londra per la tournée della Scala (1976)
Dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro, da quello della Scala, da quello a lui intitolato a Martina Franca in Puglia, e da epistolari e rassegne stampa, proviene dunque la grossa parte dei materiali esposti nella mostra. Anche se certi angoli d’atmosfera – uno per esempio con il televisore anni ’60 (funzionante, e appartenuto nientemeno che a Giovanni Testori) e due poltroncine del ’53, firmate Giò Ponti – riscaldano il contenuto documentario e rievocano un tempo.
Ugualmente, passeggiando attraverso le stanze di Palazzo Reale nelle quali la mostra si sviluppa, una domanda è tornata ad alimentare la mia diffidenza per gli anniversari.
Che cosa imparare da Grassi?
Mi chiedevo che cosa resta, oggi, del lavoro culturale di Grassi. Cosa possiamo imparare da lui? Alla domanda era stato più facile rispondere quando avevo davanti l’eredità artistica di Strehler, essendo quella modalità di regia, la regia critica, quasi completamente estinta.
Un giovane Patrice Chéreau (a sinistra), Tankred Dort e Paolo Grassi (1970)
La battaglia per una nuova cultura è qualcosa che invece non si esaurisce, rilanciata ad ogni nuovo decennio, con nuove parole d’ordine e nuove strategie. Se si scorrono quelle fotografie, quei ritagli di giornale e quelle lettere in copia su carta velina, in altre parole i quattro decenni dell’ingombrante presenza di Grassi sulla scena culturale italiana, ciò che resta costante è la ricerca e l’allargamento dell’arte (dello spettacolo, ma non solo) a un pubblico nuovo ogni volta. Il leit motiv di una vita. A cominciare dalle origini del Piccolo, quando fu lui a darsi da fare perché in sala ci fossero anche “operai […] nel loro abito blu della domenica, con le mogli col vestito bello, ancora timidamente in quella che presto avrebbero cominciato a considerare casa loro“.
Nel tempo dell’Audience Development
Arte sempre più inclusiva, si direbbe oggi, nel tempo dell’Audience Development (che vuol dire allargamento ed coinvolgimento degli spettatori).
A voler semplificare le cose, si può dire anche che la lezione di Grassi, risulta oggi molto più longeva di quella strehleriana. Se non altro perché fu Grassi (“immodestamente, un poeta dell’organizzazione“) a dare contenuti e forme a una professione che l’Italia ancora non conosceva (altra cosa erano gli impresari) e per lui si spesero le prime etichette di manager della cultura. Così che il suo segno, a saperlo cogliere, si prolunga in un presente in cui la crisi dell’audience dello spettacolo dal vivo, richiederebbe strategie all’altezza di quelle che Grassi applicò prima al Piccolo, poi alla Scala, e infine alla Rai. Dove il varo della terza rete, quella della Cultura appunto, fu un merito suo. Mentre del segno di Strehler rimangono oggi quasi soltanto i preziosi monumenti. Alcuni peraltro in ottimo stato di conservazione, come l’Arlecchino, ma comunque “cimeli”.
Giorgio Strehler, Lorin Maazel, Paolo Grassi, Nina Vinchi (1980)
Molto più che segretaria, molto più che moglie
Non ho citato una sola volta, in queste riflessioni, il nome di Nina Vinchi. Segretaria del Piccolo come lei volle sempre definirsi. In realtà, il suo ruolo fin dalla fondazione fu molto diverso, molto più di quanto quella definizione potrebbe implicare. Di fatto, con Grassi e Strehler, fu la fondatrice. E fu l’ago della bilancia tra il pragmatismo veemente dell’uno e l’egocentrismo passionale dell’altro. Molte cose le decise lei, insieme a loro naturalmente. Il valore e il significato del matrimonio, che tardivamente la strinse a Grassi, nel 1978, andrebbero rivisti, grazie anche a questa mostra e alle sue immagini, pur centrate sul marito. Ma quello di Nina Vinchi è un profilo, e un tema, di cui si occuperà Giuseppina Carutti in un volume di prossima pubblicazione, in ottobre. E che attendo con impazienza.
Paolo Grassi – … senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione… (Centenario 1919 – 1981) Milano, Palazzo Reale, fino al 24.3.2019 (a cura di Fabio Francione)
Le sezioni Prologo autobiografico e album familiare 1. Costruzione di un progetto. Paolo Grassi prima di Paolo Grassi (1936-1946) 2. Al Piccolo Teatro con Giorgio, Nina e gli altri (1947-1967) 2.bis Un teatro fuori le mura. La direzione solitaria (1968-1972) 3. L’opera alla prova dei media e della comunicazione. Gli anni al Teatro alla Scala (1972-1977) 4. Un riformista alla Presidenza della Rai (1977-1980) 5. Una passione trasversale: l’editoria (1942-1981)
Sono in treno e con me ho un biglietto per Modena. Tra quanti leggono questo blog, alcuni avranno già intuito il perché. Altri penseranno a un weekend di lambrusco. Certo non mancherà il vino. E nemmeno le tagliatelle. Ma a Modena vado soprattutto perché questa sera comincia Vie.
Vie è un festival di teatro (e anche di danza) che da molti anni rimane un punto di riferimento indispensabile per tutti coloro che – più curiosi di quanto offre il panorama italiano di teatro (e non è comunque poco) – vogliono tastare in anticipo il polso a ciò che si fa nel mondo.
Negli scorsi anni, a Modena e negli altri centri emiliani in cui Vie si svolge, mi è capitato di incontrare per la prima volta artisti e gruppi che solo più tardi avrei visto muoversi tra festival europei e stagioni di qualità. Qui ho assistito all’approdo italiano dell’argentino Claudio Tolcachir, che da allora mi ha sempre entusiasmato. A Vie ho visto il debutto in terra italiana di lavori di Angelica Liddell, Alvis Hermanis, Pascal Rambert, Alain Platel, Theodoros Terzopoulos, Krzysztof Warlikowski, Eimuntas Nekrosius. Mica poco. E per paradosso, è partita proprio da Vie la prima produzione importante di una performer delle mie parti, Marta Cuscunà, È bello vivere liberi.
Ecco perché provo un particolare affetto per i biglietti di treno con destinazione Modena.
Di nuovo, quest’anno, c’è che Vie ha cambiato periodo. Tradizionalmente collocato in autunno, da questa edizione – la 14esima – è invece più prossimo alla primavera, dura fino al 10 marzo, e raccoglie quindi un maggior numero di primizie teatrali.
Sapete perché ci vado proprio oggi? Perché da questa sera, al teatro Storchi, si parte con El bramido de Düsseldorf di Sergio Blanco.
Solo di recente ho letto alcune cose su Sergio Blanco. Prima non lo conoscevo. Ora qualcosa so. Che è uruguaiano di Montevideo. Che ha studiato e si è formato a Parigi alla Comédie Française. Che fa parte del gruppo di ricerca drammaturgica COMPLOT.
Alla ricerca di una sinagoga di Düsseldorf
E so anche qualcosa dello spettacolo che vedrò stasera. Ha a che fare con il “mostro di Düsseldorf“. Ma anche con la sceneggiatura di un film porno. E con la volontà del protagonista di convertirsi all’ebraismo. Circoncisione compresa. Un bel pasticcio, ma riassumendo: “I limiti dell’arte, la rappresentazione della sessualità, la ricerca di Dio”. Così dicono le note di regia di Blanco. Non potevo perdere l’occasione.
El bramido de Düsseldorf
Ma non c’è solo il sudamericano Blanco che mi fa gola in questo weekend. A Bologna, all’Arena del Sole, una delle altre sedi dove si svolge Vie, sempre da stasera si può vedere all’opera un altro regista che mi sono messo da tempo a inseguire.
Nei bassifondi di Budapest
L’ungherese Kornél Mundruczó, 43 anni, è originario di un paesino che a pronunciarlo la bocca si accartoccia: Gödöllő. Mundruczó è soprattutto regista di cinema (43 premi e 30 nomination, tra le quali anche Cannes, Locarno, Chicago). A molti piacciono i suoi film (come il recente Una luna chiamata Europa) che parlano di migrazioni, diversità, discriminazioni, e spesso le ambientano nei bassifondi di una città non più aperta com’è la Budapest di oggi. Sempre da Budapest parte l’idea che il regista traduce stavolta a teatro, con il suo gruppo Proton, in Imitation of Life.
Oltre che il film di Douglas Sirk, il titolo rievoca un brutto crimine avvenuto nella capitale ungherese una decina di anni fa, episodio che il regista utilizza per rispondere alle domande chiave della sua poetica: “Siamo noi stessi a forgiare il nostro destino, oppure sono le nostre origini, i modi in cui siamo stati educati a pensare, a determinarlo?”. Un edificio fatiscente è il set di questo lavoro. Che qualcuno ha definito capolavoro. Aggiungendo: iper-realista.
Imitation of Life
Non si ferma qui il mio interesse per Vie 2019. Gia in questo weekend, è in programma un altro uruguaiano, Gabriel Calderón, con Ex – che esplodano gli attori. Debutta inoltre Menelao, testo dell’italiano Davide Carnevali reso prezioso e inquietante dalle figure e dai pupazzi del Teatrino del Giullare.
E altre attrazioni ancora promette il weekend successivo. Quando a tener banco saranno i belgi Berlin, il tedesco Falk Richter, il greco Dimitris Kourtakis, il debutto del nuovo spettacolo del gruppo italiano Kepler-452.