Sì, ma la Huppert… pensavo tra me e me l’altra sera, seduto in uno dei 1451 posti dell’Auditorium Grande del Centro Culturale di Belém a Lisbona. Davanti agli occhi mi si srotolavano i 90 minuti di Mary Said What She Said. Monologo che Robert Wilson ha creato per Isabelle Huppert, anti-diva in un tempo in cui anche l’anti-divismo è passato di moda.
Sì, ma la Huppert… quasi come come sessant’anni fa Giovanni Testori aveva scritto Sì, ma la Masiero…
È uno spettacolo di forte impatto visivo, Mary Said What She Said. Basta vedere le foto.




Sì, però peccato…
Peccato, pensavo ascoltando il regale monologo di Huppert. Peccato che un maestro della scena come Robert Wilson – uno che ha segnato con il suo stile il teatro del ‘900 – da quel ‘900 non riesca proprio a uscire. Peccato che vent’anni dopo la fine del secolo, intelligente e bravo com’è (o com’era), Wilson viva esclusivamente di rendita, copiando e ricopiando se stesso. Regie perfette. Non una sbavatura. L’indispensabile e il necessario. Nulla di troppo. Spettacoli dell’altro secolo, però. Gioielli antichi.
Al Festival Almada, in Portogallo, mi sono fermato una settimana (lo raccontavo nel precedente post). E al centro del programma del Festival, in una serata in collaborazione con il Centro Culturale di Belém, c’era lo spettacolo che Wilson regista, Isabelle Huppert interprete, e Darryl Pinckney autore del testo, hanno dedicato a Mary Stuart, pugnace ma sfortunata regina di Scozia.
Titolo allusivo e capzioso: Mary ha detto quel che ha detto. Interprete aristocratica e precisa come un macchina per monologhi. Allestimento impeccabile. Identico però a tutti gli ultimi dieci o quindici spettacoli di Wilson. Le stesse luci, gli stessi fondali sfumati pastello, la stessa rigidità, la stessa ossessione per le ripetizioni. Giurerei che il testo di Pinckney sia stato ripetuto almeno tre volte: riprese, riattacchi, reiterazioni. Lo stile che ha reso grande Wilson dai tempi di Einstein on the Beach. Anche lo stesso movimento del corpo, che taglia il palcoscenico in diagonale. Allora c’era Lucinda Childs, ora c’è Huppert. Allora il compositore era Philip Glass, ora c’è Ludovico Einaudi. Ma il risultato non mi sembra cambiato.
Ma la Huppert…
… è un’attrice iconica. Niente da obiettare. C’era la Lisbona bene a vederla e sentirla, a complimentarsi per la precisione ingegneristica della regia, ad applaudire in piedi per minuti e minuti. Beh, volete saperlo? A quell’iceberg di spettacolo, ho preferito sette attrici altrettanto francesi che, tutte assieme magari non fanno una Huppert, ma con il loro lavoro mi hanno riportato di colpo al presente. La loro torrida performance si intitola Saison séche.

Stagione secca, titolo altrettanto forte nel cartellone di Almada 2019, è una caduta nelle imperfezioni del teatro. Nell’imprecisione dei generi. Né rappresentazione né coreografia, né maschile né femminile. Anzi le due cose assieme. O forse nessuna. L’opposto di Wilson.
Sono figure nude, e poi vestite. Sono colori violenti – rossi, gialli, viola, blu – che macchiano, sporcano, manomettono i corpi e il bianco abbagliante di una scenografia vergine. È un caos di drammaturgia che sembra evocare il rito e si manifesta come un combattimento. È un gesto che insulta, marcia aggressivo, ma è anche atto di accoglienza o di sottomissione, a gambe spalancate.

Una banda di erinni
Orchestrata da una banda di erinni, o da una gang di maschi violenti, Stagione secca – dice la creatrice, Phia Ménard – è la condizione storica della femmina, ma anche una punizione vaginale: secchezza. Mentre con la faccia al muro, sette maschi, incarnazioni del potere, pisciano liberamente. E piscia anche la scena: da insospettabili aperture cola a un certo punto un blob nero come la pece, che distrugge ogni bellezza, se mai ce n’è stata una. Le pareti si accartocciano. I neon del soffitto sbarellano. Potete leggerci dentro un’apocalisse futura. Forse è soltanto, pessimisticamente, il presente.

Avrete capito che Saison Séche non è facile da raccontare. Meglio se vi guardate tre minuti di estratto video, e ve ne rendete conto.
Insomma, Phia Ménard, che assieme a Jean-Luc Beaujault ha realizzato tutto questo, è una che ha la stoffa terrorista di Angelica Liddel, di Romeo Castellucci. Non per niente è stata l’exploit dello scorso anno ad Avignone. E ha lasciato senza parole anche il pubblico portoghese, magari lo stesso che una sera prima aveva visto Wilson. E in mezzo a tutto quello sporco, lo ha congedato con la provocazione dell’intramontabile Femme Fatale dei Velvet Undeground. Fatale, e anche geniale.
Sì, ma la Huppert… Vabbè, se proprio insistete, Mary Said What She Said, sarà a Firenze al Teatro della Pergola, dall’11 al 13 ottobre 2019. Io vi ho avvisati.