Tutti gli Ubu, minuto per minuto. In diretta, i finalisti 2019

I Premi Ubu sono i selfie del teatro italiano. Ogni anno fotografano lo stato dell’arte delle nostre scene e decretano la nobiltà teatrale di alcuni artisti, alcuni titoli, alcune scritture.

il database Premi Ubu 2019

Non sono i soli premi italiani, naturalmente, ma vuoi per l’anzianità (siamo alla 42sima edizione) vuoi per essere stati ideati da Franco Quadri a fianco del mitico Patalogo, sono quelli che scatenano la curiosità maggiore.

Siamo in una sessantina, tra osservatori di teatro e spettatori professionisti, a individuare le terne dei finalisti che concorrono, ogni anno, alla fase finale dei Premi Ubu. Che si terrà, per questo 2019, al Teatro Studio Mariangela Melato del Piccolo di Milano, lunedì 16 dicembre (ore 20.30).

Da Bologna, dove in questi giorni staziona la roulotte del Little Ubu Palace, in diretta, ecco l’annuncio delle nomination.

In collegamento radiofonico, intanto, all’interno della trasmissione Piazza Verdi (su RadioTre), dalle 15.10, c’è Massimo Marino che snocciola le terne per ciascuna categoria.


Eccoli qua, i finalisti dei Premi Ubu 2019

Spettacolo dell’anno
Aminta – Antonio Latella
La classe – Fabiana Iacozzilli
Un nemico del popolo – Massimo Popolizio
Quasi niente – Deflorian Tagliarini

Migliore spettacolo di danza
Bermudas – Michele di Stefano
Mbira – Roberto Castello Aldes
Nudità – Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni

Migliore curatore/curatrice o organizzatore/organizzatrice
Elena Di Gioia
Settimio Pisano
Michele Mele 

Migliore regia
Lisa Ferlazzo Natoli – When the rain stops falling
Fabiana Iacozzilli – La classe
Valer Malosti – Se questo è un uomo
Massimo Popolizio – Un nemico del popolo

Miglior progetto luci
Luigi Biondi – When the rain stops falling
Simone De Angelis – Aminta
Gianni Staropoli – Quasi niente

Miglior progetto sonoro
Gup Alcaro -Se questo è un uomo
Hubert Westkemper – Lo Psicopompo e La classe
Tommaso Q. Danisi – Cuore di cane

Migliori costumi
Manuela Dall’Aglio – Naturae
Gianluca Falaschi – Orgoglio e pregiudizio e When the rain…
Andrea Viotti – I giganti della montagna

Miglior progetto scenografico
Fiammetta Mandich – La classe
Stefano Tè, Dino Serra e Massimo Zanelli – Moby Dick
Paola Villani – Il canto della caduta

Migliore attore o performer
Lino Musella – The night writer Giornale notturno
Michelangelo Dalisi – Aminta
Massimo Popolizio – Un nemico del popolo

Migliore attrice o performer
Licia Lanera – Cuore di cane
Milvia Marigliano – Lo psicopompo
Maria Paiato – Un nemico del popolo

Miglior attore o performer Under 35
Andrea Argentieri – Se questo è Levi
Daniele Fedeli – Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte
(solo due nomination)

Miglior attrice o performer Under 35
Elena Cotugno – Medea per strada
Marina Occhionero – Per il tuo bene
Matilde Vigna – diversi spettacoli

Miglior nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica
L’abisso – Davide Enia
In nome del padre – Mario Perrotta
Si nota all’imbrunire – Lucia Calamaro

Migliore nuovo testo straniero o scrittura drammaturgica
Les époux – David Lescot
Tebas Land – Sergio Blanco
When the rain stops falling – Andrew Bovell

Migliore spettacolo straniero presentato in Italia
– El bramido de Duesseldorf – Sergio Blanco
– Imitation of Life – Kornél Mundruczó
– The Repetition – Milo Rau

Che farò senza Euridice? Potrei indossare un visore e come Orfeo incamminarmi tra i pixel

Per dieci giorni ancora si può scendere nel regno dei morti. Lungo la stessa strada che aveva percorso Orfeo, alla ricerca di Euridice. Una nuova produzione Css, teatro stabile di innovazione, a Udine, ricostruisce l’avventura per spettatori singoli.

Il Labirinto di Orfeo ricostruito in realtà virtuale

Spettacolo su appuntamento, dicono le istruzioni.

Se frequentate i teatri , a volte capita che non si formi la piccola comunità degli spettatori – cento, duecento, mille persone – e che l’incontro invece sia un tu per tu, un rendez vous personale. Un abboccamento, dice il dizionario. Non il teatro che di solito abbiamo in mente. Ma un teatro immersivo, sensoriale, individuale.

Nel Labirinto di Orfeo, spettacolo che si iscrive in queste categorie, si entra su appuntamento, soli, a piedi nudi, senza telefonino. Si lascia fuori il mondo e per una mezz’ora si è unici, singoli, a tu per tu con mito e mistero. Orfeo, la vita, la morte,

Conoscete tutti – credo – la storia di Orfeo. Da tre millenni, è il musicista più bravo. Con le sue melodie incanta persone, animali e dei. Ha perso la sua donna, Euridice, morsa da un serpente, e scende fin sottoterra per riportarla in vita. Ce lo raccontano Platone e Ovidio, tanti lavori letterari, teatrali, soprattutto tante composizioni musicali. Di ieri e di oggi.

Conoscete anche – suppongo – il suo famoso lamento, un’aria che resta nella storia della musica. Scritta da Gluck, l’hanno cantata soprani, mezzo-soprani, contralti, tenori e – data l’epoca, il Settecento – pure castrati. Commuove e resta nei ricordi, anche a sentirla una volta sola.

Immaginate di trasformare quel canto, quelle frasi, in sensazioni. Di tradurle in un’esperienza tattile, in una bolla di suoni vaghi e evocativi odori, in parole sussurrate all’orecchio, in un percorso affrontato al buio, come quello che portò Orfeo giù, fin nell’aldilà, per strappare alla morte la sua Euridice.

Questo è Il Labirinto di Orfeo, avventura per singoli spettatori che al buio, bendati, in una penombra insicura, ripercorrono la strada che lui aveva fatto per ricongiungersi con lei. E perderla di nuovo, come vuole beffardo il mito.

Orfeo rimasterizzato

Ero entrato nel Labirinto di Orfeo tanti anni fa, venticinque. Mi avevano invitato cinque attori, molto giovani allora, che si chiamavo Alessio Boni, Luigi Lo Cascio, Pietro Faiella, Rita Maffei, Sandra Toffolatti.

Sandra Toffolatti nel Labirinto di Orfeo, 1992

Avevo scritto, in quella occasione:
(…) Udito, tatto, olfatto, gusto sono i veri protagonisti di questo percorso dove la vista non è più padrona, sia per la scelta del buio come sfondo del racconto, sia per l’effetto, a un certo punto, di una benda sugli occhi, che alimenta un rapporto di fiducia fra il visitatore e le sue guide. A piedi scalzi, incerto sulla strada da seguire, egli deve affidarsi a un piccolo gioco di spostamenti che lo spingerà ad ascoltare il narrare lieve di fanciulle vestite di bianco, o a percepire gli aromi di essenze odorose diffusi in piccole stanze foderate di veli. Lasciarsi andare, lasciarsi guidare, è il segreto per affrontare l’avventura del Labirinto, delle sue voci narranti, delle sue sorprese. (Il Piccolo, 12 maggio 1992)

Sottoscrivo tutto. Perché, riallestito da Rita Maffei e minuziosamente ricostruito Luigina Tusini, in quel Labirinto sono entrato di nuovo qualche giorno fa. E di nuovo ho sperimentato quelle sensazioni. Grazie al lavoro di altri, altrettanto efficaci performer (li troverete citati nella locandina, più in basso)

Formidabili quei pixel

Venticinque anni sono tanti e nel mondo tante cose sono cambiate. La propensione tecnologica delle arti dello spettacolo dal vivo, ad esempio.

Così a questo Labirinto “rimasterizzato”, riconsegnato allo spettatore, oggi si affianca anche un avanzatissimo Labirinto di Orfeo VR, cioè di realtà virtuale, ridisegnato con programmi di grafica tridimensionale e visori. Sempre su appuntamento.

Qui sarete davvero soli, e oltre al telefonino avrete lasciato alle vostre spalle anche il vostro mondo. Dopo aver indossato un visore VR, ciò che vedrete sarà un pianeta immaginario, gemello di quelli che quasi un secolo fa edificava l’incisore Maurits Cornelis Escher, il più tenace illusionista del Novecento.

Maurits Cornelis Escher – Altro Mondo (1947)

Questa ulteriore avventura in solitaria sulle orme di Orfeo, questo pianeta che c’è ma non esiste, sono stati progettati e implementati da Alessandro Passoni e Saul Clemente.

Raccomanderei davvero, una volta che abbiate vissuto sensorialmente la favola di Orfeo, di affrontarla anche virtualmente. Scoprirete l’efficacia di una mitologia computerizzata. E il potere dei pixel: vostri futuri geometri di sogni e illusioni.

Il labirinto di Orfeo VR

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PROGETTO LABIRINTI 2.0

dallo spettacolo 1992 creato da Alessio Boni, Pietro Faiella, Luigi Lo Cascio, Rita Maffei, Sandra Toffolatti
messa in scena 2019 Rita Maffei
con Manuel Buttus, Ada Delogu, Natalie Norma Fella, Klaus Martini e Nicoletta Oscuro
e i partecipanti al laboratorio di teatro sensoriale: Mario Bodini, Ilaria Borghese, Sabrina Cappellaro, Elisa Cattarinussi, Emanuela Colombino, Manuela Daniel, Laura Ercoli, Marta Ecoretti, Antonietta Ermacora, Cecilia Fabris, Daniela Fattori, Massimo Franceschet, Gianna Gorza, Elisa Mansi, Arianna Marzolini, Donatella Mazzone, Samuele Mergan, Emanuela Moro, Marta Parpinel, Maria Grazia Pizzutti, Martina Puzzoli, Enrico Regattin, Arianna Romano, Susanna Tomasin, Jacopo Tornaboni, Hava Toska, Claudia Traina, Sevin Anna Trantino, Rebecca Trevisano, Federica Visentin, Enea Zancanaro
allestimento scenografico Luigina Tusini
assistente Ada Delogu
direzione creativa, sviluppo applicazione VR Alessandro Passoni
VR artist Saul Clemente
produzione Css Teatro stabile di innovazione del FVG ⁄ Virtew

fino a domenica 8 dicembre 2019 (vai al sito Css – Teatro stabile di innovazione del FVG)


Per te perderò la testa, Giuditta. A Trend, tra gli appuntamenti 2019 con la scena britannica

A Roma, nel cartellone della rassegna Trend – nuove frontiere della scena britannica – debutta il 25 e 26 novembre Judith, un distacco dal corpo dell’autore londinese Howard Barker. Testo che il regista Massimo Di Michele affida all’interpretazione di Giuseppe Sartori, Federica Rosellini, Aurora Cimino. Rilettura contemporanea e tagliente (è il caso di dirlo) del racconto biblico di Giuditta.

Ho seguito le prove, che si sono svolte tra agosto e settembre nel progetto delle Residenze artistiche Artefici (vedi il sito), attivate a Gorizia da Artisti.Associati. Nel frattempo ho studiato anch’io il copione. La scrittura di Howard Barker scava e ribalta l’immagine di Giuditta, icona femminile biblica, eroina nazionale anzi, che i pittori hanno spesso ritratto nel suo gesto più clamoroso e raccapricciante: mentre taglia la testa a Oloferne.

Per avere le idee più chiare ho scritto un po’ di cose. Possono servire a entrare più facilmente in questa affilata storia. Le trascrivo qui sotto.

Giuditta di Howard Barker - regia Massimo Di Michele

Per te perderò la testa

A differenza di Salomè, che fece perdere la testa a Giovanni Battista, Giuditta non ha una grande visibilità teatrale. In compenso, in campo figurativo, sbaraglia la capricciosa danzatrice. Una spada taglia meglio di sette veli. E luccica di più.

Nel Libro detto appunto di Giuditta, la Bibbia riferisce di come Judith, ebrea morigerata, vedova e ricca, accompagnata dalla serva, si fosse introdotta nel campo dei nemici assiri, che assediavano la sua città, Betulia. L’intenzione era sedurre e ubriacare il generale Oloferne, per poi ucciderlo, salvando così il suo popolo dalla strage del giorno dopo. Missione portata a termine in modo meticoloso e con coraggio.

Trasferiscono Giuditta su tela o affresco, nientemeno che Botticelli, Mantegna, Giorgione, Tiziano, Michelangelo, Correggio e chissà quanti altri. Anche Cranach il vecchio e Gustav Klimt, naturalmente.

Iperrealisti prima dell’iperrealismo, Caravaggio e Artemisia Gentileschi ne fermano il momento saliente. La spada impugnata da Giuditta trapassa il collo barbuto di Oloferne. Un fiotto di sangue caldo sprizza dalla carotide e inonda il cuscino e il lenzuolo. Sembra di sentirne l’odore. Subito dopo, spiccata dal busto e ancora calda, la testa verrà riposta in un cesto. Israele è salvo.

Giuditta di Howard Barker - regia Massimo Di Michele

Un gesto patriottico

Quando riprende in mano la situazione, nel 1992, dopo aver scritto un primo abbozzo intitolato Le conseguenze impreviste di un gesto patriottico, il drammaturgo inglese Howard Barker tralascia tutto ciò che hanno fatto a teatro i suoi predecessori, compreso il tedesco Hebbel, cui si deve l’indagine più approfondita sul caso.

Freud e Lacan non sono passati invano e l’eroina del popolo, la salvatrice, Giuditta, mostra in Barker un comportamento complesso, stratificato, controverso. In lei si sommano pulsioni contrastanti e perverse. Non tradisce le tavole di Mosè, ma infrange i più primitivi e contemporanei tabù. Anche più estremi.

Non solo. È passato pure tanto teatro – postmoderno e dintorni – e i personaggi non si ritrovano più nella linearità della storia. Ci lasciano anzi credere di conoscere già la propria storia.

Giuditta di Howard Barker - regia Massimo Di Michele

Oloferne sa cosa accadrà a Oloferne. E non desidera altro: morire. La ruvidezza barbara è messa da parte e cresce invece in lui l’ansia esistenzialista. Secondo la storia, Giuditta lo dovrebbe ubriacare per portare a termine il suo piano. Peccato che l’Oloferne di Barker sia astemio. E Giuditta, più che nemica di quel nemico, ne sia sensualmente, mortalmente attratta.

Per tenerli sulla retta via, quella del racconto biblico, Barker assegna alla serva un rilievo che in nessun dipinto si era mai visto. Anzi, per il drammaturgo, è lei il propellente della vicenda omicida. La serva è la rappresentante e la volontà del popolo, la sua portavoce politica. Un’ideologa,dice Barker. 

Ognuno perfettamente sa cosa aspettarsi dall’altro. E dissimulare è sempre difficile. Raccontava Lacan l’incontro di due mercanti ebrei nello scompartimento di un treno: “Perché mi menti? Sì, perché mi menti dicendo che vai a Cracovia, affinché io pensi che vai a Lemberg, mentre vai veramente a Cracovia?”.

È complessa la psiche ebraica. E ha ragione l’Oloferne assiro e contemporaneo di Barker: c’è da perderci la testa.

Giuditta di Howard Barker - regia Massimo Di Michele

La locandina

locandina Judith di Howard Barker - regia Massimo Di Michele


Le immagini – dall’anteprima del 7/9/1019 al Teatro Verdi di Gorizia – sono di Giovanni Chiarot.

Pesci a teatro. Sardine protagoniste anche in “Rumori fuori scena”

Sono ormai parecchi giorni che le sardine crescono e passano di bocca in bocca. Sardine a Modena. Sardine in Puglia e in Sicilia. Ma chi conserva un po’ di memoria storica, sa che le sardine sono tra noi già da parecchio tempo. Almeno dal 1983, quando anche in Italia andò in scena Rumori fuori scena, irrefrenabile testo teatrale dell’inglese Michael Fryan. Nel quale le sardine sono protagoniste. O quasi.

Entrano ed escono dalla cucina, si spalmano sui divani, sguazzano sul pavimento. “Sardine di qua, sardine di là. Sardine, sardine!” sbotta la signora Clackett, governante della casa di campagna in cui è ambientato Rumori fuori scena.

Nei formidabili anni Ottanta, quando per la prima volta i socialisti (per meglio dire, Craxi) arrivò al governo, in Italia le sardine fecero esplodere di risate le platee dei teatri. Le aveva portate in scena la compagnia Attori&Tecnici. Da allora, ininterrottamente, tutti i pubblici se lo sono godute ridendo. E se le sono fatte amiche. Trentasei anni di repliche, buona parte dei quali al Teatro Vittoria, a Roma. La sala più amata del rione Testaccio, quello cantato da Pasolini.

“Sardine, sardine!”. Viviana Toniolo, capitana di Attori&Tecnici, e ancora inossidabile con la vestaglia e il turbante colorato della signora Clakett, continua a portare avanti e indietro i suoi piatti di pesce e attende che il televisore trasmetta in diretta la corsa dei cavalli a Ascot con la Royal Family. Anche se non c’è più con loro Attilio Corsini, che di quello spettacolo era il regista.

Viviana Toniolo
Viviana Toniolo è la signora Clackett in “Rumori fuori scena” di Attori&Tecnici, regia Attilio Corsini

Nel tempo in cui le sardine crescono e passano di bocca in bocca, nuove sardine entusiasmano gli spettatori. Stavolta a metterle in piatto è Milvia Marigliano, sempre con l’abituccio della signora Clackett, in un’altra, nuova produzione di Rumori fuori scena.

È quella del Teatro Stabile di Torino, che ha per regista stavolta, Valerio Binasco, anche lui in scena, com’è giusto, nella parte che il copione assegna al regista.

Milvia Marigliano è la signora Clackett in Rumori fuori scena, nuova versione, regia di Valerio Binasco

Si ride anche qui di gusto, perché l’allestimento è ben fatto e gli attori sono bravi e puntuali (è proprio il caso di dirlo, visto il meccanismo). Cioè sanno far andare avanti la commedia con il ritmo giusto.

Se a 36 anni dal debutto, qualcuno non avesse ancora visto Rumori fuori scena, deve farlo subito. Se invece ci siete già stati, vi farà bene rivederlo. Le sardine tornano, sono sempre saporite, mettono allegria e speranza.

Rumori fuori scena, produzione 2019 del Teatro Stabile di Torino

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RUMORI FUORI SCENA
di Michael Frayn
traduzione Filippo Ottoni
regia Valerio Binasco
con (in ordine alfabetico):
Francesca Agostini, Valerio Binasco, Fabrizio Contri, Andrea Di Casa, Giordana
Faggiano, Elena Gigliotti, Milvia Marigliano, Nicola Pannelli, Ivan Zerbinati
scene Margherita Palli
costumi Sandra Cardini
luci Pasquale Mari
Produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale


Vanni De Luca, il mentalista. Un personaggio in cerca della propria memoria

Valzer per un mentalista è lo spettacolo in cui Vanni De Luca, famoso per l’abilità nel ricordare, si incammina sulle vie del teatro, insieme a due angeli custodi, Freud e Basaglia. Produzione Stabile FVG.

Vanni De Luca ©Simone De Luca
© Simone Di Luca

Il mentalista si concentra. Noi stiamo in silenzio. Lui è bendato. La scacchiera – che solo noi vediamo – è là dietro. Bianca e nera. Il mentalista pronuncia un numero. Casella 37. Il cavallo galoppa con il suo moto tipico, laterale, sbieco. Poi un altro numero e il cavallo si sposta di nuovo. Casella 22, casella 16… sessantatrè mosse del cavallo. Casella 31, 46, 29… In pochi minuti la scacchiera viene percorsa da cima a fondo, mossa dopo mossa, tutte le 64 caselle. Senza mai guardare. È tutto un lavoro di cervello.

Da spettatore, mi immagino l’orchestrazione di quel cervello. Ogni volta che la memoria si mette in moto è un ballo di sinapsi, un accendersi di neuroni. Fiumi chimici e elettrici che si scatenano, inneschi a cascata di neurotrasmettitori. La memoria è luna-park meraviglioso, retto da regole non tutte conosciute.

Valzer Mentalista DI Luca
© Simone Di Luca

Come nell’Ottocento

Vanni De Luca è noto per la sua memoria. Ci ha costruito sopra una carriera, come facevano gli illusionisti dell’Ottocento: fenomeni da baraccone che stupivano un pubblico allora ignaro di cinema e di televisione. Fenomeni come l’uomo-scimmia, il mangiatore di spade, la donna segata in due. 

Scrive invece alla rovescia, Vanni De Luca, ripete serie infinite di numeri casuali, scioglie enigmi matematici. Delle 101.698 parole della Divina Commedia conosce ogni singola posizione. Risolve il cubo di Rubik in un battibaleno. Tutto nello stesso istante, sia ben chiaro. Fenomeno anche lui. 

Ma non gli basta: la mente non è una macchina calcolatrice. Almeno, non è solo questo. La mente è memoria. E quindi passato, identità, personalità, persona.

Dalle esibizioni che lo hanno reso famoso (come famosi sono stati i mentalisti Harry Kahne e Derren Brown) e dal suo spettacolo di magia mnemonica (Prodigi, visto due anni fa al Teatro Bobbio), Vanni De Luca è approdato alla storia, al racconto, al pieno di un personaggio, che potrebbe essere lui, ma non è lui. Al gioco ambiguo che si chiama teatro.

Lungo il nuovo percorso teatrale lo hanno accompagnato il RossettiStabile del Friuli Venezia Giulia con questa nuova produzione, Davide Calabrese e Fabio Vignarelli, autori, Marco Lorenzi, regista della compagnia Il mulino di Amleto e dello spettacolo che, del mnemonista infallibile, fa invece un uomo con tante capacità e altrettanti deficit.

Anche nel Novecento

Valzer per un mentalista (in scena fino a domenica 1 dicembre nella sala Bartoli, a Trieste, dove tornerà nel gennaio 2020) racconta la storia di un individuo che ha perso la memoria e, al tempo stesso, la storia di una scienza che nella memoria ha trovato uno dei suoi principali strumenti: la psicoanalisi.

Valzer per un mentalista - Vanni De Luca
Romina Colbasso, Vanni De Luca © Simone Di Luca

1919: un uomo è ricoverato nella stanza del Nuovo Frenocomio di Trieste inaugurato dieci anni prima. Frenocomio, cioè manicomio. Privo di memoria, quell’uomo è anche privo anche di sé, e lo sarebbe pure delle relazioni con gli altri, se non condividesse le proprie giornate, soprattutto le notti, con un compagno di stanza. Ingombrante e violento, autoritario e malevolo. Oggi si chiama paranoia, ma nella storia dell’uomo che smarrì il proprio passato è un diavolo perverso, che ne fa il suo schiavo e lo tiene legato alla catena della disperazione. Frequenta quella stanza anche una giovane praticante di medicina. Incondizionatamente, la dottoressa ama gli studi e le ipotesi del dottor Freud, li mette in pratica e vuole diffonderli. Si è presa a cuore il caso dello smemorato e il suo obbiettivo è guarirlo. (Io ti salverò, intitolava Hitchcock).

Da spettatore, dalla mia poltrona, mi angosciano le notti insonni e la disperazione di quell’uomo prigioniero dei demoni della sua stanza. Che è abitata da creature ibride, dall’aspetto animale e umano, come nei deliri lucidi della pittura surrealista, o nei racconti di Kafka. Mi tornano pure in mente i grandi racconti di amnesia. Dallo smemorato di Collegno a Mulholland Drive di David Lynch. Da Se mi lasci ti cancello al diario di una identità redenta che è l’emozionante Un modo perduto e ritrovato del neuropsicologo russo Aleksandr Lurija. Per i fanatici del teatro, pure a Sandro Lombardi, Roberto Herlitzka, Sonia Bergamasco, Sergio Bini, Ermanna Montanari, nel film Il mnemonista di Paolo Rosa.

Valzer per un mentalista - Vanni De Luca
Andrea Germani, Vanni De Luca © Simone Di Luca

Ma si affacciano alla mia memoria – abbastanza salda, almeno finora – anche le pene dell’uomo che, al contrario, ricordava tutto, ma proprio tutto: i rami e i grappoli di una pergola, la disposizione esatta delle nuvole nel cielo in un preciso giorno della sua vita. E qui dovete prendere in mano Finzioni di Jorge Luis Borges, poi ritrovare il racconto intitolato Funes, o della memoria. E convincervi che anche dimenticare, non ritrovare più cose e ricordi, perdere i pezzi, è necessario. Perché pulisce e libera il cestino della carta straccia della mente. 

Alla ricerca dell’io perduto

In Valzer di un mentalista, Nemo, il protagonista senza identità, percorrerà una tormentosa strada di ricostruzione dell’io.  Si scontrerà con i propri demoni, nei corpo a corpo con Andrea Germani, sulfureo alter-ego, cinico, manesco, con le sembianze di un Mangiafuoco irridente, un Elton John ritagliato da favole di paura.

Valzer per un mentalista - Vanni De Luca
© Simone Di Luca

Si affiderà anche alle tutele che la volenterosa medichessa, occhiali e cartella clinica, Romina Colbasso, gli garantirà per non sottoporlo ai trattamenti sanitari che l’umanità di Franco Basaglia, ma solo alla fine degli anni ’60, riuscì a allontanare da quel luogo di tortura, prima che di cura. 

Valzer per un mentalista ha un finale aperto, da non raccontare. Anche perché nel mastermind del nostro cervello, nulla è definitivo, nulla è dato per certo. La memoria è un animale dinamico. A pari merito con la memoria, c’è anche l’oblio, che è un altro grande dono della natura umana.

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Valzer per un mentalista
di Davide Calabrese e Fabio Vagnarelli
regia di Marco Lorenzi
aiuto regia Yuri D’Agostino
con Vanni De Luca, Andrea Germani e Romina Colbasso
visual concept e luci di Eleonora Diana
musiche di Giorgio Tedesco
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

Woyzeck secondo Claudio Morganti. La tragedia ritorna, e si veste da farsa

Il caso W. è un nuovo lavoro teatrale in cui Rita Frogia e Claudio Morganti immaginano lo svolgersi del processo che nel 1824 condannò a morte J.C. Woyzeck. Una produzione congiunta di Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa, Armunia-Castiglioncello, Esecutivi per lo spettacolo.

piazza principale di Lipsia - incisione

Una folla enorme e curiosa occupava la piazza principale di Lipsia, in quel giorno d’estate, il 27 agosto del 1824. Doveva essere decapitato un uomo. Non ne parlava solo la città: la condanna dell’omicida Johann Christian Woyzeck era diventato un caso nazionale e aveva tenuto sospesa l’opinione pubblica per tutti i tre anni del lungo processo. Sarebbe stata l’ultima condanna capitale eseguita a Lipsia. E il primo dibattimento in cui la difesa tentava la carta dell’incapacità di intendere e di volere, la perizia psichiatrica, la variante della follia.

Da più vent’anni Claudio Morganti si occupa di Woyzeck. Già prima della fine del secolo scorso, seguendo le tracce lasciate dal dramma di Georg Büchner (scritto 12 anni dopo il processo), Morganti aveva riposto sull’omicida Woyzeck la propria attenzione.

Claudio Morganti in Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo) - Woyzeck
Claudio Morganti in Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo)

Un manoscritto presago, abissale

L’avevano fatto d’altra parte in molti, riconoscendo in quel manoscritto presago, abissale, lasciato senza finale – perché una febbre tifoidea avrebbe ucciso Büchner prima ancora dei 24 anni – qualcosa che parlava a loro, uomini e artisti del Novecento. Uno squarcio espressionista, una tragedia proletaria, un manifesto antimilitarista, un’apertura ai cortocircuiti della mente. O al buio che è in tutti noi.

La storia del soldato semplice Woyzeck – che per gelosia e instabilità mentale uccide a coltellate Maria, la donna che gli ha dato un figlio, ma che amoreggia con un sottufficiale – aveva affascinato Max Reinhardt (il regista che per primo nel 1913 l’aveva portato in scena) e poi il compositore Alban Berg (per un’opera memorabile, del 1922, che per un’errore di trascrizione diventa Wozzek).

In tempi a noi più vicini, Giancarlo Cobelli, Werner Herzog, Robert Wilson, Tom Waits, William Kentridge, Árpád Schilling… Ciascuno di loro propenso a confrontarsi con quell’incompiutezza, e aggiungere un frammento nuovo, un finale diverso, una prospettiva antitetica, lungo la quale incanalare la scrittura notturna di un Büchner febbricitante.

Klaus Kinski in Woyzeck

“Gli uomini sono abissi e dà le vertigini, guardarci dentro”, aveva scritto il drammaturgo tedesco. E così ripeteva Klaus Kinski nel film di Herzog (1976), con la faccia alterata, che bene restituiva la psicologia del soldatino omicida. La cui vera colpa era la condizione sociale: miseria, umiliazione, ignoranza. E tutto attorno, la roboante grancassa dello stato forte prussiano. Tragedia sub-proletaria, secondo molti.

La tragedia e la farsa

Insegnava però un pensatore influente dell’800, che la Storia si ripete due volte: la prima come tragedia e la seconda come farsa. Sarà per questo motivo che, partito dalla natura drammatica del primo Woyzeck, Morganti ne ha affrontato ora il versante farsesco e ha portato in scena, nei toni allegrotti e approssimativi di un processo in provincia, il dibattimento giudiziario attorno a un antico caso di femminicidio . Il caso W. appunto.

immagine spettacolo Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo) - Woyzeck
Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo)

Il tribunale, del resto, è un topic del teatro, da Eschilo in poi. E della commedia anche. E di quella all’italiana pure: da Totò a Alberto Sordi, da De Sica senior (che genialmente, in veste di avvocato, inventò e mandò assolta la “maggiorata fisica” Lollobrigida opponendola al “minorato psichico”) fino a De Sica junior, Christian.

Dunque, nel nuovo lavoro di Rita Frongia e Claudio Morganti, non proprio il Woyzeck, ma una fantasiosa e divertita ricostruzione del processo che vide Woyzeck alla sbarra. Con strumenti da drammaturgo Frongia ha recuperato gli atti e le perizie di allora e, mettendoci pure molto del suo, si è lasciata ispirare da altre clamorose e mediatiche assise: il caso del matricida Pierre Rivière, quello compagno di merende Pacciani, quelle del femminicida Salvatore Parolisi e del suo omologo Claudio Grigoletto. Senza dimenticare Eduardo.

Ne esce appunto una farsa (lo ammette l’avvocato della difesa, Francesco Pennacchia). “Un processo accussì” (lo sostiene l’accusa, l’avvocato Gaetano Colella). Una sfilata di testimoni a carico e a discarico, tutti oculari e tutti oculati nel far prevalere la caratterizzazione comica, la strizzatina d’occhio. In un’udienza cialtrona, da avanspettacolo, conclusa con i riflettori puntati sulle di arringhe. Chissà come le avrebbero pronunciate Leo De Berardinis o Claudio Cecchi, sogghignando e imitando Eduardo forse. O magari come Ciccio e Franco.

Allora sono tutti matti

È ovviamente caricatura il ritratto di un questo tribunale di provincia. Dove sta scritto La legge è uguale per tutti, e non lo è per nessuno. Il giudice stesso, cui dà corpo, voce e annoiata attenzione lo stesso Claudio Morganti, potrebbe essere nato da una novella di Pirandello. Ripassata tra i cinepanettoni e le vacanze di De Sica junior e Lino Banfi.

immagine spettacolo Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo) - Woyzeck
Il caso W. (ph. Ilaria Costanzo)

Seduto alle mie spalle un ragazzino ha continuato per tutta la durata dello spettacolo a chiedere informazioni alla madre a proposito dei personaggi. Chi, dove, perché? Per giungere infine a una sua conclusione, personalissima: “Ma allora sono tutti matti!”. Davvero, piccolo Woyzeck, una sintesi eccellente.

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IL CASO W.
di Rita Frongia
regia Claudio Morganti
con Isadora Angelini, Gianluca Balducci, Gaetano Colella, Massimiliano Ferrari, Rita Frongia, Claudio Morganti, Francesco Pennacchia, Luca Serrani, Gianluca Stetur, Paola Tintinelli
luce Fausto Bonvini
organizzazione Adriana Vignali
produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa, Armunia-Castiglioncello, Esecutivi per lo spettacolo

Teatro Fabbricone, Prato, novembre 2019

Qui Berlino, compagni. A voi, Italia. Passo e chiudo.

Nel giorno in cui la città festeggia i 30 anni dalla riunificazione tedesca, il regista Thomas Ostermeier porta in scena alla Schaubühne una commedia con presagi: Notte all’italiana (1930) di Ödön von Horváth

La strada sotto la mia finestra è interrotta. Lampeggianti blu. Auto e moto della polizia municipale di Berlino bloccano le intersezioni. Dopo pochi minuti, scortatissimo, passa il corteo delle limousine nere. Suppongo che si dirigano verso l’aeroporto, che è a pochi chilometri da qui. Con il loro carico prezioso. Quattro capi di stato: quello della Polonia, Andrzej Duda, quello ceco, Miloš Zeman, la slovacca Zuzana Caputová, e János Áder, l’ungherese.

I presidenti sovrani

Assieme a Frank-Walter Steinmeier, il presidente della Repubblica tedesca, e a Frau Angela Merkel, i quattro capoccia del gruppo di Visegràd pochi minuti prima erano stati alla Porta di Brandeburgo, a complimentarsi reciprocamente per il trentennale della riunificazione tedesca, il 9 novembre 1989.

“Senza la voglia di libertà dei polacchi, degli ungheresi, dei cechi e degli slovacchi – ha detto Steinmeier – la rivoluzione pacifica nell’Europa dell’est e l’unità tedesca non sarebbero state possibili.”

Peccato fosse capitato il 9 novembre di 30 anni fa. Trenta, esattamente. Ora quelle stesse repubbliche rappresentano, anche per i tedeschi, la minaccia più consistente all’unità europea. Il fronte sovranista dell’Europa Centrale: il gruppo di Visegràd.

Certo, ci sarà pure Daniel Barenboim, alla stessa porta di Brandeburgo, ma un po’ più tardi, a innalzare verso il cielo le note della Nona di Beethoven che invita – come tutti sanno – alla fratellanza universale. Vale però la pena, nella giornata dei festeggiamenti, stare un po’ in guardia. E dopo aver imboccato Kurfürstendamm, i 3 chilometri e mezzo del luccicante viale dello shopping berlinese, arrivare fino alla piazza con il nome solenne, Adenauer, e dopo pochi metri, infilarsi nella sempre splendida architettura modernista della Schaubühne, uno dei teatri più importanti d’Europa.

Certe notti all’italiana

Perché stasera va in scena una commedia (chiamiamola così) di Ödön von Horváth che era andata in scena proprio a Berlino nel 1930. Fate un po’ i conti.

Il titolo è Italienische Nacht, Notte all’italiana. Non passa come il migliore fra i titoli di quel genio di von Horváth (il drammaturgo ungherese che era nato a Fiume, aveva passato la vita tra le capitali, scriveva in tedesco, e era morto a Parigi, 36 anni dopo, colpito da un ramo d’albero).  Eppure…

Eppure il genio berlinese di adesso, il regista Thomas Ostermeier, saldo al timone della sua Schaubühne, ne ha saputo fare un lavoro presago e inquietante. Proprio contemporaneo.

Ostermeier e le spranghe

Dunque, allora come ora: in una trattoria fuori città, un comitato di simpatizzanti di sinistra ha messo su una Festa dell’Unità (traduco così, liberamente, la notte all’italiana). Il trio musicale, affittato per l’occasione, suona Bella Ciao e Azzurro e si balla alla buona. Le discussioni sulla linea politica, i patetici discorsi del segretario locale, qualche bicchiere in più: insomma, si arriva alla zuffa. Fuori invece, la destra violenta e compatta, ragazzoni coi rayban, le bandiere, i tamburi, ha tutta l’intenzione di interrompere la festicciola. E suonare anch’essa qualche motivetto. Di quelli che si suonano con le spranghe. Perché in mattinata qualche balordo ha imbrattato un monumento ai sacri valori della patria.

Come dice la data – 1930 – il testo di von Horváth fotografa la Germania tre anni prima che bruci il Reichstag e Hitler ottenga i “pieni poteri“. Sì, avete capito bene.

La genialata di Ostermeier, e della splendida compagnia di attori della Schaubühne, è mettere in bocca agli uni e agli altri, al posto delle campagne antisemite di allora, le frasi fatte e l’aria fritta con cui il centrosinistra e la destra tedesca si confrontano oggi. Il dato più inquietante è la sottovalutazione di quelle spranghe e della rabbia populista. “A difenderci e a tenerci uniti – proclamano i compagni, sempre più divisi, anzi in aria di scissione – ci sono i valori della Costituzione”. Vedi un po’ tu, come è andata a finire, con la Costituzione tedesca.

Ma niente spiegoni

Senza farci lo spiegone, e ironizzando pure su questi ritratti di militanti balordi e facinorosi, il 51enne Ostermeier, nato quindi nel ’68, mette sull’avviso gli spettatori tedeschi (e anche noi, italiani, suppongo).

Meno Bella Ciao e più attenzione. Meno baruffe interne e occhi ben aperti su un futuro che non si presenta come una serena e stellata Italienische Nacht (la band ora suona perfida, Perfect day di Lou Reed) .

O forse sì: ha proprio l’aria di essere una nottata d’incubo, all’italiana.