A teatro ci sono professionisti che non si vedono. Si vedono però i risultati del loro lavoro. I professionisti della comunicazione, per esempio.
A chi fatica negli uffici stampa, agli invisibili social media manager, ai grafici web che ogni giorno bisticciano con la press area, è dedicato questo mio reportage sulla professione, apparso sul numero 3 / 2019 della rivista Hystrio, all’interno del dossier sull’operatore teatrale.

C’era una volta Lucherini. E c’erano le lucherinate, che altro non erano se non gran belle trovate per mettere un po’ di pepe sui giornali. Colpi di genio che oggi prenderebbero il nome di strategie di comunicazione.
L’ufficio stampa all’italiana nasce proprio con Enrico Lucherini, il press-agent che nel nostro Paese ha inventato un mestiere, facendo anche la fortuna di parecchie star.
Anni Cinquanta, il giovane Lucherini si diploma all’Accademia a Roma: non gli sarebbe dispiaciuto fare l’attore. Lo dissuade però Sofia Loren: “Tu devi promuovere i film, mica interpretarli”. Alle dive non si può dire di no. Così, su due piedi, lui si trasforma in addetto stampa e mette frutto ogni malizia comunicativa.
Il press-agent e le lucherinate
Ci sono lucherinate che restano ancora nella storia dello spettacolo italiano. La parrucca di Sandra Milo che prende fuoco e Roberto Rossellini che gliela strappa, salvandole la vita. Il flirt tra Florinda Bolkan e Richard Burton, con Liz Taylor che sviene. I finti pompieri che salvano Mariangela Melato da un finto incendio. “Non ho mai capito se i direttori dei giornali lo sapevano che erano tutte balle, oppure se le bevevano davvero” commenterà, anni dopo, l’attrice. Ma gli articoloni uscivano.
La lucherinata più bella, secondo me, è quella che ha tra i protagonisti Luca Ronconi. Paparazzato dal principe dei fotoreporter romani, Tazio Secchiaroli, il giovane Ronconi offre come San Martino un lembo della propria giacca affinché la danzatrice turca Aiché Nanà, assoldata da Lucherini e Fellini, non si prenda un raffreddore con lo spogliarello improvvisato durante una festa in un locale del centro della capitale. Scandalo e polizia. L’orgia dell’aristocrazia romana titolano ‘a lenzuolo’ i giornali. Ma il gioco è fatto. Siamo nel 1958: si apre la Dolce vita italiana. Anche per gli uffici stampa.

I fondatori americani
Certo, lo stile era decisamente provinciale. Molto lontano da quello che i maestri delle pubbliche relazioni avevano insegnato e messo in pratica negli Stati Uniti, mezzo secolo prima.
Edward Bernays, uno tra i più influenti uomini d’America, nipote di Freud, inventore della persuasione occulta e della propaganda (quella di Goebbels) era stato, negli anni Dieci, il press agent americano dei Ballets Russes e di Enrico Caruso. E il suo metodo, l’aveva poi applicato alla politica e all’industria. Era perfino riuscito a convincere le donne a fumare.
Un altro fondatore della professione, Ivy Lee, nel 1906 aveva inventato e dettato le regole del comunicato stampa: concisione, chiarezza, condivisione.
L’ufficio stampa all’italiana, che dal cinema sarebbe presto passato anche allo spettacolo dal vivo, applicava tecniche un po’ più domestiche, per quanto efficaci, e continuerà ad applicarle per molto tempo: quelle del gossip o l’elemosina del pezzo. Resta proverbiale il ritornello di un’influente addetta stampa italiana che ad ogni festa, pubblica o privata, abbordava chiunque fosse in grado di tenere una penna in mano, cronista di nera o scrittore di successo, avanzando la sua richiesta: “Amoreee, me lo fai un pezzettino?“

Tipicamente femminile
Non c’era infatti bisogno di aver studiato public relations o marketing. Né di praticantato presso i giornali. Era un mestiere tipicamente femminile, quello dell’ufficio stampa all’italiana nel settore dello spettacolo. Disinvoltura nella conversazione, folta rubrica di contatti, sapiente uso del telefono, intensa vita sociale e una rete allargata di conoscenze facilitavano enormemente chi si dedicava a questo settore, sempre più importante via via che dalla carta stampata la comunicazione si allargava a radio e televisione.
Il professionismo, quello vero, abitava intanto le istituzioni maggiori e i festival più importanti. E si distingueva lo stile aziendale di Dolores Radaelli al Piccolo di Milano, di Mario Natale e Gianna Volpi al Festival di Spoleto, di Adriano Donaggio alla Biennale di Venezia, solo per fare i nomi più rilevanti. Ognuno con un proprio metodo, il proprio indirizzario tenuto stretto, e rapporti personalizzati con le figure chiave (i critici, il capiservizio di cultura e spettacoli, in certi casi perfino i direttori delle testate). Mentre c’era chi inaugurava già i primi fenomeni di esternalizzazione, e si formano e crescevano le agenzie specializzate di comunicazione per lo spettacolo. Service, si diceva allora. Nel frattempo il profilo professionale si consolidava facendo dell’addetto stampa, prima che dell’artista, l’interlocutore privilegiato del giornalista. Il suo facilitatore, il suo tramite, la sua fonte.

E poi, il digitale
Tutto cambierà, come se quel mondo fosse investito da un tromba d’aria, con l’avvento del digitale. Prima il computer, la videoscrittura, e la necessità, per gente abituata alla macchina per scrivere, di affrontare un primo gradino tecnologico.
Poi la posta elettronica, che manda in cantina i comodi fax e le vecchie fotocopiatrici imponendo incomprensibili regole di netiquette (il galateo della Rete, c’è ancora oggi qualcuno che lo ignora).
Infine la supremazia della Rete, che ribalta l’organigramma ‘militaresco’ e la gerarchia a piramide della carta stampata. Il mondo della comunicazione si orizzontalizza. La laurea e i tirocini in Scienze della Comunicazione diventano indispensabili.
Con il passaggio della comunicazione al web, un mondo di regole e di abitudini da ufficio stampa si sgretola e perde le proprie sicurezze. Perché a cambiare, prima di tutto, è il giornalismo culturale. Non solo nuove testate, nuove firme, nuove scritture: anche una sostanziale perdita di autorevolezza della critica (o secondo alcuni una sua trasformazione) e una diversa agenda di notiziabilità. Più interviste e meno recensioni, più anticipazioni e meno analisi a posteriori, tante immagini, a cascata, ora che alla macchina fotografica si alternano potenti smartphone dedicati.
Infine, il colpo decisivo all’ufficio stampa: la pervasività degli strumenti social che spostano l’attenzione sulla figura del social media manager e impongono una trasformazione linguistica. Va in pensione l’Ufficio Stampa e sul biglietto da visita si trova scritto Media and Communication Department. La cartellina tipo Bristol finisce nella spazzatura, sostituita dai press-kit digitali.

Sacrosanti principi
In una metamorfosi così rapida, com’è stata quella del 2.0, non si perdono però i sacrosanti principi che stanno alla base di una efficace comunicazione d’azienda: il saper tagliare la notizia sulle caratteristiche di ciascun media e, perché no, di ciascuna testata o giornalista (la sartoria, il tailoring), la costruzione di un’immagine aziendale integrata, in cui scrittura (soprattutto i comunicati, che restano uno strumento imprescindibile) e immagine (soprattutto i filmati, nel loro ruolo di veicoli emozionali) consolidano lo storytelling aziendale. E soprattutto non cambiano comportamenti etici quali la trasparenza, la credibilità, l’affidabilità nel rapporto professionale.
A cambiare invece è una deontologia che nel passato separava in maniera netta il ruolo del giornalista e quello del comunicatore. Faccenda che oggi, con la diversa articolazione del lavoro intellettuale, sempre più versatile, flessibile, liquido, precario, volatile (lascio a chi legge la scelta del termine preferito) integra in una nebulosa spesso ambigua tutti i professionisti della comunicazione. Un forma di consociativismo di settore in cui riesce a volte difficile distinguere tra informazione e promozione, giornalismo e pubblicità.
Sono le stesse arti dello spettacolo dal vivo, del resto, a mettere in crisi alcune delle più solide certezze sulle quali, per secoli, quelle arti si sono fondate: la distinzione tra la professionalità attiva del performer e la percezione passiva spettatore. I contemporanei modelli partecipativi di teatro, danza, musica, e la dissoluzione – in certi casi – del diaframma tra palco e platea stanno a dimostrare che i modelli relazionali cambiano, e cambia pertanto la pratica delle professioni.
Così non stupisce non sentire più, all’inizio dello spettacolo, la solita registrazione più o meno simpatica che invita a spegnere i telefonini. Anzi, ecco farsi avanti sul palco qualcuno che in modi accattivanti strilla: “fotografate, filmate, fate pure… e mi raccomando postate subito sui vostri canali social: ci aspettiamo una marea di like, di retweet, di condivisioni“.
La morte dell’ufficio stampa sembra lì ad un passo. Ma di altro non si tratta che di una finta morte annunciata. Un’altra lucherinata, insomma.
[pubblicato nel numero 3 /2019 della rivista Hystrio, nel dossier L’operatore teatrale, a cura di Laura Bevione e Albarosa Camaldo]