La sai quella? Le barzellette scorrettissime di Ascanio Celestini

Raccontarle è un arte. Riderne, pure. Le barzellette però non sono solo barzellette, quelle che lo zio scemo racconta al pranzo di Natale. “Le barzellette – dice Ascanio Celestini – sono il lasciapassare che ti permette di parlare di tutto. Proprio tutto”.

foto di Ascanio Celestini
Ascanio Celestini. Ph. Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Non solamente carabinieri, suocere, mogli e mariti. Non solo froci, negri, zingari. Con le barzellette si può ridere anche delle disabilità. O di Auschwitz. Violento? Politicamente corretto? Le barzellette più scorrette, le più violente, le sa e le può raccontare Ascanio Celestini.

Barzellette si intitola il suo più recente spettacolo, quello che lui porta in giro, alternandolo a Radio clandestina (sull’eccidio del’44 alle Fosse Ardeatine), Fabbrica (sul lavoro industriale e gli incidenti sul lavoro), Scemo di guerra (sui reduci delle guerre), La pecora nera (sulla condizione manicomiale), Appunti per un film sulla lotta di classe (sul precariato dei call-center), Pueblo (sulla vita nelle periferie urbane), Il razzismo è una brutta storia (non ha bisogno di spiegazione): i suoi titoli più conosciuti.

Il primo e l’ultimo Ascanio Celestini

Per una congiunzione astrale, o per una abitudine del teatro, stasera a Udine (stagione di Teatro Contatto, Palamostre, ore 21) va in scena Radio clandestina. Domani a Trieste (stagione del Teatro stabile La Contrada, sala Bobbio, ore 20.30) si replica Barzellette. Il primo e l’ultimo Ascanio Celestini.

Finalmente Ascanio fa ridere, ha scritto Dagospia. In vent’anni cambiano tante cose.
“Attenti che in Barzellette mica racconto solo barzellette. Parlo di Auschwitz, della strage di Bologna… Vent’anni fa, quando ho scritto Radio clandestina per me era importante mettere insieme un racconto orale su un episodio drammatico di quando non ero ancora nato e i miei genitori erano bambini, un episodio di ferocia nazista che pesa ancora nella storia della mia città”.

Il teatro di narrazione, cui tu appartieni, ha sempre privilegiato temi drammatici, episodi tragici, incidenti colposi, disastri ambientali, morti annegati. È proprio vero che il dramma vende di più della commedia? Così almeno la raccontano i capoccioni di Netflix.
“Il catalogo delle grandi disgrazie si è un po’ esaurito. Se le sono capate tutte, come dicono a Roma. Scherzo: ho smisurata ammirazione e rispetto per narratori come Paolini, Ovadia, Baliani… Ciò che hanno costruito, è una delle cose teatralmente più importanti successe in questi decenni in Italia. E forse anche in Europa. Ma personalmente preferisco andare a vedere i comici, quelli che parlano di suocere e di supplì mangiati in spiaggia”.

Ma così arrivi dritto dritto alle Barzellette.
“In realtà questo spettacolo nuovo è ancora più militante di Radio Clandestina. Vent’anni fa raccontavo, adesso prendo posizione. Perché con la barzelletta puoi affrontare i tempi più difficili, i più pericolosi. La barzelletta è il lasciapassare che ti permette di parlare di ogni argomento, anche quelli considerati intoccabili”.

copertina Ascanio Celestini - Barzellette - Einaudi

Racconti una barzelletta “sui froci”, sei omofobo. Ne racconti dieci tutte di fila, diventa un discorso inclusivo.
“È la quantità che ne fa un gioco. Una barzelletta sola non è mai un capolavoro. Ma quando arrivano insieme, quando ne racconti cinque, e poi qualcuno ne racconta altre cinque, la performance si trasforma uno spazio di gioco. Chiaro che devi aver imparato le regole, saper giocare. Il segreto è mettersi insieme a disposizione di quell’argomento”.

Berlusconi passava per un campione di barzellette.
“Berlusconi era un pessimo narratore. Primo, perché annunciava: questa barzelletta fa ridere. È sbagliato, perché se fa ridere lo capisco solo nel momento in cui rido. Secondo: raccontava due o tre volte il finale, per spiegare. Sbagliato anche questo. Terzo: la barzelletta va messa su un piano più alto rispetto a chi la racconta. Dalla cornice della storiella il narratore deve stare fuori. Cosa che non riusciva a Berlusconi, dal quale sentivi perfino barzellette su Berlusconi”.

Maestri di televisione come Walter Chiari, Carlo Dapporto, Gino Bramieri erano invece campioni veri.
“Bravissimi, soprattutto a riuscire a portare le barzellette dentro quella televisione là. Walter Chiari si prendeva i propri spazi, lavorava con la camera fissa, ma li metteva davvero in scena, quei racconti. E si metteva a loro disposizione. Performance che potevano durare anche quindici minuti”.

Non saranno troppi per una storiella sola?
“Dipende da te, dalla cornice in cui le racconti. Se stai in pizzeria, e gli altri ti stanno a sentire e annuiscono, puoi tirare avanti anche un’ora. Io, una barzelletta di un’ora, però non l’ho mai sentita”.

Nello spettacolo ne racconti una quarantina. Nel libro (pubblicato da Einaudi, 18 euro) sono molte di più: trecento pagine. Qual è la più bella?
“Probabilmente quella che nel libro non c’è, perché me l’ha raccontata Moni Ovadia, quando con Stefano Bartezzaghi stavamo insieme in piazza Maggiore a Bologna. Il 27 gennaio 1945 finalmente l’Armata Rossa butta giù i cancelli di Auschwitz. E ci sono questi due ebrei che ridono, ridono, ridono smisuratamente, in modo inarrestabile. Tutti chiedono: ma di che ridete? E quelli continuano a ridere. Perfino Dio si affaccia dall’alto dei cieli e chiede: ma di che c… ridete? “Dio, tu non puoi capire” rispondono. “Tu non c’eri”.

[pubblicato in versione parziale sul quotidiano Il Piccolo di Trieste, 30 gennaio 2020]

Lucia Calamaro: “I fatti contano poco, per me conta ciò che succede dentro”

Nostalgia di Dio – sottotitolo Dove la mèta è l’inizio – è lo spettacolo, scritto e diretto da Lucia Calamaro, che va in scena stasera al Teatro Palamostre di Udine, nella stagione di Teatro Contatto.
Non è un’autrice qualsiasi, Lucia Calamaro. Bisogna stare a sentirla un po’, per entrare in sintonia con i suoi testi.

“Il problema è che Lucia Calamaro è un genio”. È una citazione, le dico.

Così ha scritto Christian Raimo a proposito di questa donna, che sta lasciando uno dei segni più interessanti fra quanti, italiani e italiane, scrivono per il teatro.

Lo aveva pensato, lo scrittore Raimo, quando Calamaro era assai meno nota. Era passato poco più di un anno da quando uno spettacolo scritto e diretto da lei, L’origine del mondo (2012, lo stesso titolo del quadro di Edouard Courbet esposto a Parigi), aveva cominciato a segnalarla all’attenzione di chi in scena cerca ciò che verrà, non ciò che è già avvenuto.

“Il problema è che Lucia Calamaro è un genio” scriveva appunto Raimo. Anche perché è una persona complessa, e mica tutti lo sono. Un passato complesso: tre città a farle da casa, Roma, Montevideo, Parigi. Una formazione complessa: il mimo Jacques Lecoq, il sociologo Jean Duvignaud, il clown Philippe Gaullier. inoltre, una personalità audace e capace di pescare nella propria vita interiore gli elementi per fare un teatro per nulla esteriore.

Anche se, in apparenza, sembra mancare nei suoi lavori quella profondità che molti richiedono al teatro. La profondità di un’affermazione chiara, di una presa di posizione, di una lingua attiva, efficace, pratica, ben piazzata dentro trame solide e riconoscibili.

Fluidi, vaghi, stramati

Il teatro e la lingua di Lucia Calamaro sono invece fluidi, i personaggi vaghi, le trame stramate.

Penso che la lingua di Calamaro sia tra le poche in grado oggi di restituire la densità del discorso contemporaneo: la sua frantumatezza, il suo endemico guasto, la sua contradditorietà, la sua strutturale involuzione, il suo diventare monologo, pulsione corporea prima che relazione“. Aveva aggiunto lo scrittore Raimo, partecipe anche lui dello stesso mood linguistico.

Così erano i primi lavori di Calamaro, dialoghi nascosti nei monologhi, o viceversa, come Tumore (2008). Così anche i lavori successivi: Diario del tempo (2014), La vita ferma (2016), il più recente, Si nota all’imbrunire (2019), di cui protagonista insolito, per lei abituata a lavorare con la propria generazione, è Silvio Orlando.

Lucia Calamaro -Si nota all'imbrunire
Si nota all’imbrunire (2019). ph Matteo Spada

Due chiacchiere

Che effetto fa, Lucia Calamaro, sentirsi dare del genio?
La prima cosa che uno fa è arrossire, e poi ripetersi oddio oddio oddio, spero che non l’abbia letto nessuno. Per fortuna sono passati già cinque anni. In quella frase non mi ci vedo, non mi ci installo. Certo, meglio così, piuttosto che dicano sei scarsa, e che faresti meglio a fare un lavoro da impiegata.

Dicono drammaturga invece, autrice di teatro
Parola a cui sono abbastanza indifferente. Perché non sono solo quella cosa lì. Sono regista, a volte mi preoccupo delle scene, spesso cerco i costumi, dirigo sempre gli attori. Dalla pre-produzione al prodotto finale. Capocomico. Capocomica.
È vero che da fuori mi definiscono drammaturga. Forse è la cosa che spicca di più. Ma è solo un parte. E la parte al posto del tutto non mi basta. Capocomica, forse, altrimenti, mi sarei annoiata. Forse il problema sta in come uno vede se stesso, e come lo vedono gli altri.

Hanno scritto che i tuoi dialoghi costringono gli attori a recitare “alla quotidiana”.
Ho fissa in testa, stampata a fuoco, una frase che Roberto Herlitzka aveva ricevuto dal suo maestro Orazio Costa. “Beato l’attore che io vedo pensare”.
La sensazione che vorrei dare è che l’attore sia proprio pensando, nel momento in cui le cose le dice. Così come stiamo parlando, noi, adesso: io ti pento pensare, tu mi senti pensare, non abbiamo un copione scritto. L’immediatezza.

Lucia Calamaro - Diario del tempo
Diario del tempo (2014)

Non è che così si distrugge l’idea del personaggio?
Guarda, alle prove succede tantissimo che io sto seduta a guardarli, gli attori. A volte capita che dico fermi, scrivo qualcosa, perché improvvisamente ho capito qualcosa in più, gliela scrivo proprio lì, capisci. E poi dico, provate.
Le scene, non è che ci ho pensato prima, che me le porto da casa, alcune sì, ma altre no. Altre sono epifanie da lavoro. E come saranno i personaggi, non lo so proprio. Si capiscono capendo. Si capiscono facendo. Appaiono verso la fine. Non appaiono nemmeno alla prima (la prima di uno spettacolo è un luogo violento). Appaiono magari alla decima replica, dopo che hanno incontrato un certo numero di volte il pubblico.

Un po’ spiritistico, no?
Mi sento una persona estremamente privilegiata. I personaggi sono creature a cui voglio estremamente bene. Il mio analista dice che mi sono organizzata bene. Non ho una grande famiglia d’appartenenza, e per diverse vicende personali sono abbastanza orfana. Così mi sono organizzata un’ascendenza e una discendenza nella scrittura. I miei famigliari ideali, li ho messi tutti lì, nelle mie storie, tanta roba.

Lucia Calamaro - La vita ferma
La vita ferma (2016)

Storie che si sfilacciano, trame che si stramano.
Che poi sono quelle che mi interessano di più, anche nella vita. È un’esplorazione di stati d’animo, più che una narrazione, ciò che io metto sul palco. E questi stati d’animo appartengono a qualcuno, a una storia emotiva, a vicende e avvicendamenti interiori. I fatti per me contano abbastanza poco, conta ciò che succede dentro.

Come la nostalgia che hai messo nel titolo.
L’ho presa e ho fatto mia questa parola, forse in maniera nemmeno tanto originale: è un tema antichissimo, risale ai greci, è il tema del nostos, il ritorno, da cui la parola nostalgia.
Ma la mia non è la nostalgia eroica della grande letteratura, è un ritorno a casa piccolo, intimo. Vorrei poter tornare a casa, la mia casa, la casa dell’infanzia. Ma quella casa là, quelle persone là, non ci sono più. Per questo scrivo, per questo faccio teatro.


NOSTALGIA DI DIO
testo e regia Lucia Calamaro
interpreti Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Francesco Spaziani, Simona Senzacqua
scene/luciluci Gianni Staropoli
scene e costumi Lucia Calamaro
assistente alla regia Diego Maiello
disegno dell’angelo Luca Privitera
produzioneTeatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con Teatro Metastasio
in collaborazione con Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin 2018_2020

Misery non deve morire. Ecco perché si è trasferita in teatro

Di Misery tutti sanno tutto. O quasi. Il libro di Stephen King (500 milioni di copie vendute, dicono), il film sceneggiato da William Goldman (si stimano 70 milioni d’incasso nei soli Stati Uniti), il premio Oscar a Kathy Bates, e tutta la mitologia cresciuta attorno al fortunato romanzo della fine degli anni ’80 ne hanno fatto un riferimento pop, presente nell’immaginario di più generazioni.

Misery - Filippo Dini, Arianna Scommegna

È la ragione – ma non la sola – che mi spinge a consigliarvi di vedere Misery anche a teatro.

Filippo Dini, che è un attore che stimo, ha avuto questa bella idea. Provare a capire se la vicenda dello scrittore sequestrato e seviziato dalla sua fan più appassionata, affinché riporti in vita il personaggio fatto morire nell’ultimo capitolo di una saga a puntate, poteva funzionare sulle scene italiane. La versione statunitense, con Bruce Willis e Laurie Metcalf protagonisti, era certo un fattore rassicurante.

Dini è anche regista: lo considero bravo, molto. L’unico, per esempio, che è riuscito a farmi ridere con Pirandello. Il che – bisogna ammetterlo – è francamente difficile. Eppure la sua messa in scena di Così è (se vi pare), lo scorso anno, aveva momenti di divertimento puro.

Riuscirà – mi sono detto – con questa nuova sfida, Misery, a regalare al pubblico anche momenti di terrore puro? Quel terrore che ti fa divorare le pagine di un libro, ma a teatro ti tormenta le mani e ti stringe lo stomaco, mentre siedi agitato sulla tua poltrona di spettatore.

Misery - Filippo Dini e Adriana Scommegna

Visto ieri sera al Comunale di Monfalcone (nel circuito teatrale del Friuli Venezia Giulia, ma la tournée continua già dalla prossima settimana nelle Marche), lo spettacolo procura al pubblico lo stesso nodo allo stomaco che libro e film erano già riusciti a suscitare.

Ma non è solo per il talento narrativo di King. O per il ricordo delle scene più pulp, con Kathy Bates che maneggia coltello, mazza, sega elettrica…

Misery - Adriana Scommegna e Filippo Dini

Qui ci sono due fra i migliori attori italiani della generazione quarantenne, Arianna Scommegna e lo stesso Dini, che con questa vicenda estremista, ma delicata e millimetrica nel meccanismo psycho che la costruisce, danno le loro prove più stimolanti per uno spettatore.

Migliori – lo posso anche dire – anche di altre interpretazioni, per le quali sono stati premiati. L’Ubu 2014 per lei, diretta da Peter Stein nel Ritorno a casa di Pinter (ma pinteresca ha saputo essere anche con la regia di Binasco). La Maschera d’oro per lui in Il discorso del re (2013).

Qui il bello è che lui, lo scrittore, obbligato al letto da fratture e tumefazioni, deve dirle tutte sdraiato e immobile le proprie battute. Come danzare su una gamba sola, e per di più rotta. E che lei, oltre all’attitudine inquietante, a quell’andatura sghemba, sa far recitare pure i capelli. Virtuosismi di scena.

Misery - Adriana Scommegna e Filippo Dini

Quindi, se qualche locandina annuncia Misery, nel teatro vicino a casa vostra, non trascuratela. Non pensate che libro e film siano sufficienti. Misery, il suo scrittore, la sua psicopatica ammiratrice, non possono morire. Hanno un impatto anzi che, dopo decenni, riesce ancora a mettervi paura.

Ne vedete in boccone qui sotto:

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MISERY
tratto dal romanzo di Stephen King
traduzione Francesco Bianchi
con
Filippo Dini, Arianna Scommegna, Carlo Orlando
musiche Arturo Annecchino
scene e costumi Laura Benzi
luci Pasquale Mari
regia Filippo Dini
assistente alla regia Carlo Orlando

produzione Fondazione Teatro Due, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Fotografie: ph. Francesco Bianchi