L’inchiostro di Papaioannou. L’acqua, la luce, i riflessi del nero.

L’uomo ci dà le spalle. Nera la camicia, neri i pantaloni. Neri sono anche fondale e pavimento. Il buio di un inchiostro in cui si legge netta la figura umana. Illuminata in controluce da un graffito di gocce d’acqua, vive, impalpabili, nebulose.

(ph Julian Mommert, come tutte le immagini che seguono) 

Ink è il titolo della più recente creazione di Dimitri Papaioannou, un regalo d’arte fatto in esclusiva italiana a TorinoDanza e a I Teatri di Reggio Emilia.

Significa inchiostro. Doveva essere solo uno studio, rielaborato qui in Italia, in vista di una più ampia composizione che debutterà nel dicembre prossimo a Atene.

È diventato invece un lavoro d’intensità. Cattura con le visioni che offre. Si rivela aperto, perfino confuso, per le suggestioni che insinua nello spettatore. Non perfetto, grazieaddio. Ma in quello stadio germinale che potrebbe precipitare nel fallimento o nel capolavoro.

Difficile, quando si parla di Dimitris Papaioannou, è definirlo. Chi lo chiama regista, chi coreografo, chi designer e performer. Per alcuni è un maestro – così se la sbrigano senza problemi. Basta vedere una soltanto delle sue creazioni per rendersi conto che questo 56enne, greco di Atene, fisico asciutto, tratti mediterranei, preciso e imperturbabile, è ossessionato dalla materia e dai materiali. Uno che dei corpi forza le membra e le articolazioni. Con impegno, lucidità, ostinazione. Architetto perfezionista di immagini in bilico sempre tra natura e cultura.

Sorgenti primordiali

Per Ink ha preferito tubi d’irrigazione, corde bagnate, creature che salgono dai fondali marini, campi di spighe, bocce trasparenti. L’energia del getto d’acqua con cui si innaffiano i campi e il potere vitale che attribuiamo ai liquidi, sorgenti primordiali. Il fruscio di vecchi dischi e alcune cellule musicali, rubate a Vivaldi. Forse il ricordo di qualche Mantegna, o di Caravaggio.  Magari niente di tutto ciò. Solo acqua. Solo il corpo. Soltanto i materiali.

Dopo titoli entrati con prepotenza sulla scena mondiale – Primal Matter, Still Life, The Great Tamer. Dopo performance colossali negli stadi – l’inaugurazione delle Olimpiadi di Atene nel 2004, quella dei Giochi europei di Baku del 2015. Dopo eventi da galleria d’arte, come Sisyphus visto lo scorso anno proprio qui a Reggio Emilia (questo il link). Ink è la prova ulteriore della sapienza con cui Papaioannou compone il quadro, la visione dello spettatore. Meglio ancora, per lo spettatore E per i suoi sensi.

C’è acqua dappertutto in Ink. Scaturisce, gorgoglia, inonda, sale in alto, ricade, riflette la luce. Riempie la boccia trasparente e inzuppa i corpi e i vestiti. Accanto a Papaioannou, uniforme all black, c’è il giovane partner di scena, Šuka Horn, 23 anni, quasi sempre nudo, roseo e pallido come può esserlo un tedesco al sole.

Grandi fogli di plastica, traslucidi, sottili, servono a ammorbidire e imprigionare la nudità. Pareti di nylon vibrano umide come membrane. Una sfera moltiplica la luce. I due uomini, sempre in lotta tra loro, raccontano a forza di movimenti una storia che è quasi inutile decifrare.

Ink 2020- Papaioannou - ph. J. Mommert

La bestia del desiderio

Sono un padre e un figlio? Può essere. Due amanti? Ci può stare. L’impulso animale in lotta con il controllo della ragione? C’è chi ha visto anche questo. Ecco Ercole avvinghiato a Anteo, come in tanta iconografia. Ecco Calibano che sfida Prospero, come sussurrava Shakespeare. C’è mutua attrazione tra il sapiente che regge le corde e governa i tubi, e il selvaggio giovane animale che si fa strada nella selva color oro, pronto ad azzannare. “La bestia del desiderio”, butta là Papaioannou interrogato, così tanto per dire.

In Ink c’è tutto (o quasi tutto) quel che ciascuno ci vuol vedere. Per me è anche il ricordo di un vecchio pescatore che continua a sbattere un polpo sul molo. Lo avevo visto fare nel porto di Amalfi. Lo si vede ancora fare su tutte le coste di questo mare, come assicura il breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic.

Lo rivedo adesso, quel pescatore, nell’ultima immagine di Ink, riflesso nell’acquitrino in cui si è trasformato il palcoscenico.

Perché così funziona l’arte. Deve sempre restituire il riflesso, per durare.

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Ps: Appena ho in mano le date, acquisto un biglietto per Atene, dove la nuova composizione di Papaioannou debutterà a dicembre. Per chi non ha fretta, c’è Napoli Teatro Festival, che lo programma a febbraio. C’è anche chi vorrebbe resistere alla tentazione, e allora, qui sotto un breve trailer. Tanto per dargli l’idea.

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INK
ideazione Dimitris Papaioannou
con Šuka Horn + Dimitris Papaioannou
scene e costumi Dimitris Papaioannou
disegno luci Stephanos Droussiotis + Dimitris Papaiaonnou
sound design David Blouin
musica Antonio Vivaldi, Donald Novis, Isham Jones, Sofia Vempo, Leo Rapitis
produttore creativo – esecutivo – assistente di direzione Tina Papanikolaou
foto e video di scena Julian Mommert
oggetti di scena Nectarios Dionysatos
scultura realizzata da Joanna Bobrzynska-Gomes

coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Fondazione I Teatri / Festival Aperto – Reggio Emilia
produttore esecutivo 2WORKS
Dimitris Papaioannou è sostenuto da MEGARON THE ATHENS CONCERT HALL

D’Annunzio karaoke e un playboy da strapazzo. Biennale 2020

Ciuffo identico a John Travolta in Grease (1978). Parole di Una lacrima sul viso a Sanremo (1964). Canta Gabriele D’Annunzio. La città morta (1896), modalità karaoke.

La città morta - regia Leonardo Lidi - Biennale 2020
La città morta – regia Leonardo Lidi – ph. Andrea Avezzù

Non ho visto tutti gli spettacoli programmati a Venezia, per la 48esima edizione del festival della Biennale Teatro. Ma una buona parte sì. L’impressione di fondo è che il tema lanciato dal direttore Antonio Latella – la censura, l’autocensura – sia rimasto un tema. E che ciascuno degli artisti invitati abbia intrapreso la propria avventura. L’avventura che avrebbe intrapreso comunque. A prescindere dal tema. 

Geltrude Stein, che la sapeva lunga, sosteneva che una rosa è una rosa è un rosa. Ugualmente, un tema è un tema è un tema. E si può svolgere a piacere, rischiando, come succedeva a scuola, di finirne fuori. Il fuori tema resta, a mio modo di vedere, la cosa più interessante di questa Biennale Teatro 2020. Forse di tutte le Biennali.

Censura e autocensura

Certo, un giovane come Leonardo Manzan, ci si è messo d’impegno. Su censura e autocensura ha ricamato parecchio. Ha proposto agli spettatori un muro bianco e lo ha animato per una buona ora e mezza. Con giochini paradossali di senso battuti sulla tastiera. Con fori, pertugi, buchetti da cui sono spuntati mani e altri oggetti (anche un pene, a dire il vero). Con dialoghi immaginari tra Giordano Bruno, Pasolini, il marchese De Sade. Perfino con un karaoke snobbato un po’ dagli spettatori (per la cronaca, Felicità di Al Bano e Romina). 

Glory Wall - di Leonardo Manzan e Rocco Placidi - Biennale 2020
Glory Wall – di Leonardo Manzan e Rocco Placidi

Che sono trovate divertenti, pure ben congegnate, discretamente colte e giovanilmente pop. Ma ben lontane dal fare di questo Glory Wall, uno spettacolo memorabile e circuitabile. Anche se la Giuria internazionale ha giustamente deciso di premiare tanta intraprendenza, con la targa di migliore spettacolo di questa Biennale. 

Per un ventottenne, che si era fatto valere lo scorso anno, con Cirano deve morire (sempre scritto a quattro mani con Rocco Placidi) non è male. “Niente da dichiarare, oltre il mio genio”, dice lui, azzardando tanto. Più cauti, noi preferiamo stare a vedere.

Un tema è un tema è un tema

Il fuori tema di due fra i nomi più interessanti della scena italiana oggi – Liv Ferracchiati e Leonardo Lidi – è la faccenda che più mi ha colpito. Entrambi si sono occupati di rivitalizzare testi di oltre un secolo fa. Nel caso di Ferracchiati la Commedia senza titolo, conosciuta anche come Platonov, di Anton Cechov (1881). Nel caso di Lidi, La città morta (1896) di Gabriele D’Annunzio, tragedia poco rappresentata, e anche poco rappresentabile, oggi. 

Io non so cosa spinga due trentenni a prendere in mano testi che sono stati scritti cent’anni prima che loro nascessero, e che non sono nemmeno i prodotti migliori di quegli autori. Avrebbero un sacco di altre cose di cui occuparsi, oggi, Liv e Leonardo. E a dire il vero, se ne sono occupati. 

Ma a parte la necessità di circuitare gli spettacoli (entrambi prodotti dal Teatro Stabile dell’Umbria, per il quale Cechov e D’Annunzio suonano come una sicurezza), suppongo che il loro sia l’impeto di una sfida, un coraggioso orgoglio che li spinge a tentare imprese difficili, su testi laterali. Tutti e due hanno personalità forti e idee chiare. Per dirla con parole più difficili: piace a loro rigenerare i testi. In veste di registi quanto di autori – sarebbe bello qui usare il termine ri-autori – smontano il testo e gli assicurano una struttura nuova. Ma ne mantengono la superficie, e in parte, la riconoscibilità. Potremmo chiamarla retro-drammaturgia, se fossimo in vena di definizioni.

La città morta - Leonardo Lidi - biennale 2020
La città morta – regia Leonardo Lidi – ph. Andrea Avezzù

In La città morta, Leonardo Lidi si sbarazza di almeno due personaggi (sui quattro originali), aggiunge al cast lo stesso autore, Gabriele il Vate, e lo fa cantare come Bobby Solo. Invece che nell’antica Micene, dov’era ambientato l’originale, qui siamo sulla tribunetta di un campus universitario americano, con tanto di Gigi il bibitaro. Incontriamo inoltre il Travolta di Grease e l’Harrison Ford dell’Arca perduta. La modalità prevalente è la parodia.

Infatti il pubblico ride. Non per il meccanismo parodico però: per le strizzatine d’occhio. Sono pur bravi Christian La Rosa, Mario Pirrello e Giuliana Vigoga. Ma La città morta non è I Promessi sposi. E loro non sono il trio Solenghi-Marchesini-Lopez. Intelligente com’è, Lidi non li spinge a tanto. In compenso Insieme a te non ci sto più di quei due geni di Pallavicini e Conte, che è un bel finale per una tragedia, resta per un bel po’ nelle orecchie. Si muore un po’ per poter vivere.

Platonov - Liv Ferracchiati - Biennale 2020
Platonov – regia di Liv Ferracchiati – ph. Luca Del Pia

Si muore per poter vivere anche in Platonov. Punture d’ironia sembrano attraversare il testo riscritto da capo da Liv Ferracchiati. A tratti è proprio sarcasmo nei confronti di quel playboy da strapazzo che è il protagonista. Ferracchiati ci si immedesima un po’. Anzi tanto. Ma l’understatement che è la sua arma migliore, consiglia di farlo interpretare a un altro (Riccardo Goretti, a cui l’aria piaciona sta proprio bene) mentre per sé Ferracchiati riserva il ruolo di Lettore (“che prende troppo su serio quello che legge”).

Lettore che entra a gamba tesa nello spettacolo, interloquendo con i personaggi. Intanto, con la forbice, Ferracchiati ha già tagliato due terzi del cast, salvando solo le femmine innamorate di quel Don Giovanni ubriacone che sta nel titolo. Francesca Fatichenti, Alice Spisa, Petra Valentini e Matilde Vigna potrebbero essere le donne di un girotondo schitzleriano, invece sono quattro figurini, spassosi come sarebbe piaciuto a Cechov. E la pistolettata finale capita un po’ per caso. 

Platonov - Liv Ferracchiati - Biennale 2020
Platonov – regia di Liv Ferracchiati – ph. Luca Del Pia

Lidi e Ferracchiati

Li ammiro entrambi per questo coraggio. Ma ho l’impressione che lo strumento con cui destrutturano il testo – la parodia nel caso di Lidi, l’ironia nel caso di Ferracchiati – non sempre porti al miglior risultato. 

Inevitabilmente i testi, scelti da loro con cura e con impegno rigenerati, si sviliscono, diventano tracce, perdono valore. E nel caso in cui non siano universalmente noti (come questi titoli) non si comprende tutto il lavoro costato al ri-autore regista. Forse non si capisce nemmeno quel che succede in scena. Il fascino è il fascino della superficie. A me, tutti e due, paiono capaci invece di ben altro.

Però li stimo (vedi qui un post su Ferracchiati, vedi qui per Lidi, oppure qui) e mi fa anche piacere vederli avventurarsi fuori tema. 

P.S. Qualcuno mi dovrà spiegare come mai questi trentenni, questa generazione, dovendo citare, cita preferibilmente il pop musicale che è appartenuto alla mia, di generazione. Bobby Solo, Salvatore Adamo, Caterina Caselli. Romina e Albano… In altri spettacoli di questa Biennale risuonavano di continuo Mina, Battiato, Patty Pravo, la Carrà… Bisognerà capire.

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GLORY WALL
di Leonardo Manzan, Rocco Placidi, Paola Giannini
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello / Elledieffe

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LA CITTÀ MORTA
da Gabriele D’Annunzio
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Christian La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna scene Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Dario Felli
produzione Teatro Stabile dell’Umbria e La Corte Ospitale

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LA TRAGEDIA È FINITA, PLATONOV
dal Platonov di Anton Čechov
riscrittura di Liv Ferracchiati
con Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna
regia Liv Ferracchiati
dramaturg di scena Greta Cappelletti
scene Lucia Menegazzo e Emiliano Austeri
costumi Francesca Pieroni
produzione Teatro Stabile dell’Umbria

Venezia a media luz. Il Klub Taiga alla Biennale 2020.

Venezia è sempre bellissima. E carissima. Ma a settembre ancora di più. E poi c’è il virus, che seleziona turisti e spettatori. Non sono pochi: sono giusti. Così Venezia ritorna vivibile. Soprattutto la sera, con le sue ombre, le penombre, le oscurità.

E l’Arsenale, dove La Biennale Teatro presenta la maggior parte degli spettacoli, è un luogo fantastico, a media luz.

Chincaglierie

Vi parlo adesso dello spettacolo che ho visto ieri sera. Anch’esso a media luz.

Entrando nel Teatro delle Tese: divani, abat-jour verdi, luci soffuse, candelieri, tavolini, sopra uno di questi un piccolo mappamodo, tappeti, vassoi, stracci, scialli, ciaffi, sgabelli intagliati, bottiglie di vodka. Ma soprattutto nebbia, che non ci si vede quasi nulla. Detto così sembra tutto un po’ antico, l’antiquariato cheap di cui Venezia è regina, art-decò, chincaglieria.

Klub Taiga - Industria Indipendente 1

E invece, via via che la nebbia si dirada, e non sparirà mai del tutto, via via che il suono si fa musica dal vivo, via via che le luci diventano lame, e puntano dritto in faccia allo spettatore, ecco che lui, lei, gli spettatori, con gli occhi strizzati da bagliori e ombre, hanno la percezione di trovarsi su di un orlo, sul limite. Precisamente non saprei dire quale limite. Di sicuro è il limite al di qua del quale ci sono i testi ben scritti, le storie, i messaggi, i personaggi, la regia. Al di qua del quale ci sono anche il concerto, la performance, l’evento.

Niente di tutto questo in Taiga Klub, che è solo atmosferico. E credo che così mi piace.

Klub Taiga - Industria Indipendente 2

Atmosferico

“Nel KLUB TAIGA non esistono temperature tropicali, fa sempre freddo. Chi abita questo luogo oscilla tra la ricerca di saperi nascosti, sedute spiritiche e pratiche di conservazione. Le creature che abitano il KLUB TAIGA tendono a essere multiformi, cambiano spesso aspetto e sono fluide nel tentativo di sopravvivere alle rovine. KLUB TAIGA è un dispositivo in divenire, un luogo nascosto e scuro, all’interno del quale vive e cresce un organismo pluripensante e agente, un unicocorpo fatto di più corpi”.

Klub Taiga. Cosi lo raccontano loro, i creatori. Un po’ siberiano effettivamente. La produzione è del Teatro di Roma – teatro nazionale. Ma dentro al gruppo di lavoro di Industria Indipendente ci sta gente assai poco istituzionale.

Klub Taiga - Industria Indipendente 3

“Con i nomi Bunny Dakota e Stigma Rose creiamo ambienti a quattro mani, in cui la pratica del tatuaggio e della trasmissione di saperi si mescola alla musica live e ai DJ set, dando vita a universi immaginari aperti e da abitare insieme”.

Anche se in testa si è infilata un burqa, o uno scialle – non so, non vedo bene – riconosco l’andatura tipica di Federica Santoro e i suoi modi di dire inconfondibili. Nei movimenti sinuosi serpenteschi di una dea Kalì, in primo piano, mi pare di capire che c’è Annamaria Ajmone. E là nell’oscurità interiore (Dear darkness è il sottotitolo) dev’esserci Luca Brinchi che sposta i cursori e si occupa di live electronics. A media luz, naturalmente.

Klub Taiga - Industria Indipendente 5

Immersivo

Ora la luce taglia la nebbia e crea altri piani d’orizzonte. Emerge da questo mare obliquo, un fantasma in controluce, poi graffiti colorati, fucilate di lampi, abat-jor intermittenti. La figura nera si immerge, scompare, e poi riemerge.

Tra i suoni che si accumulano senza interruzione, Shazam mi restituisce Ritual dei Bunlots e Breachbreze di Nic Toms, ma a prevalere è un basso profondo, loundness che mette in agitazione lo stomaco. La materia sonora può essere poesia concreta. Federica Santoro parla parla parla, come immagino facesse Majakovskij cent’anni fa.

“Ossa di spirochete
Mandibola impavida
Riconosce le macchie in fondo allo stagno
Corre veloce morde forte
La parola dentro la pietra
Non c’è formula,
Nessun numero pericolante
Ma un certo tipo di melodia”.

Se non fosse una brutta parola, oggi, direi, avanguardia. Tra il pubblico, infatti, qualche signora abbandona la gradinata, sgaiattolando via silenziosa. Determinata, Santoro impone “10 secondi di silenzio”. Ed così.

Venezia Arsenale

Subito dopo tutto riprende ed è un imbuto di nuvole roteanti che ci inghiotte. Da un ceppo, o chissà, un tronco d’albero, sulla sinistra, sgorga qualcosa come sangue. E si muovono invasate le quattro donne: seduta spiritica, o conciliabolo mediorientale. “Pausa Pausa Pausa“.

L’anta di uno mobiletto sbatte da sola, meccanicamente. La casa è quella delle finestre che ridono. Salta fuori un tamburo. Tribale. Ma anche una batteria. Parossistico il beat. Le donne poi fanno circolo. Come a Beirut distrutta. Fine.

Klub Taiga - Industria Indipendente 5

Insomma, lo avete – capito: lo show immersivo di Klub Taiga mi è piaciuto. Parecchio. Delle altre cose che ho visto in questi giorni, vi parlo nei prossimi post. Stay tuned.

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KLUB TAIGA
(Dear Darkness)

di Industria Indipendente
con Annamaria Ajmone, Erika Z. Galli, Steve Pepe, Martina Ruggeri, Federica Santoro, Yva&The Toy George e con Luca Brinchi
immagini / visioni / segni Dario Carratta, Timo Performativo, Floating Beauty costumi TEIN clothing
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale con il sostegno di Angelo Mai

Con Jan Fabre risorge Cassandra, profetessa a cui nessuno crede

Cassandra è bionda. Cassandra ha una voce profonda da uomo. Cassandra parla in tedesco e dice cose che potrebbero uscire dalla bocca della svedese Greta Thunberg.

Regista, ma soprattutto maestro multidisciplinare del vedere contemporaneo, Jan Fabre intende così il mito della profetessa che non veniva creduta.

Aggiungi che Fabre sostiene di discendere da uno dei più importanti naturalisti dell’Ottocento, l’entomologo belga Jean-Henry Fabre, e c’ha la fissa con gli animali. Ecco perché la sua Cassandra manifesta una spiccata, inquietante, passione per le tartarughe.

Jan Fabre - Resurrexit Cassandra 1

Resurrexit Cassandra è il titolo che fa resuscitare l’inascoltata sacerdotessa nel cartellone internazionale di Napoli Teatro Festival. Il testo è del direttore del Festival, Ruggero Cappuccio. La regia dello spettacolo, pensato per la manifestazione e presentato al Teatro Bellini, è di Fabre. Le parole, profetiche, catastrofiste, confliggono un po’ con le immagini, perfettissime e suadenti. Ma questo è nei patti, essendo Fabre uno dei maître visionari e urticanti del teatro contemporaneo, quelli che viaggiano sempre al limite del rischio, se non della strafottenza.

Passino le molte chiacchiere che si fecero (oramai è passato del tempo) sul suo utilizzo degli animali in scena, e anche su certi atteggiamenti sessisti. Resta il fatto che a Fabre piace torturare un po’ anche lo spettatore, sottoponendolo a delle perfide corvée che mica tutti apprezzano.

Jan Fabre - Resurrexit Cassandra 2

Modelli

Mi chiedo se vale la pena ricordare la serata di molto tempo fa, in cui protagonista in scena era uno spaventoso ragno nero e peloso, accanto a Els Deceukelier in abito bianco da sposa (Elle était et elle est, même ). O quella in cui la disinvolta performer Lisbeth Gruwez, tutta invischiata d’olio, giocava a far scomparire un’oliva nei posti più impensabili (Quando l’ uomo principale è una donna). Il modello però è ancora una volta lo stesso.

Per fortuna in Resurrexit Cassandra le tartarughe non sono vive. E lei – pur ricoperta dai peggiori insulti, come vuole il mito – si limita a rotolarsi per una buona mezz’ora sul palcoscenico di terriccio, scuro, eterno, materia di madreterra. Di cui fa piacere percepire l’odore.

Jan Fabre - Resurrexit Cassandra 3

A convincere meno è l’architettura d’insieme. Cassandra sta in piedi, immobile, in proscenio, di fronte al pubblico. Inascoltata, aveva predetto la caduta e la strage a Troia, e adesso inascoltata sempre perora la causa di quell’allarme ambientalista a cui La nostra casa è in fiamme di Greta Thunberg ci ha educati.

Istanze onorevoli, certo. Onorevolissime. Ma purtroppo risapute e certo non inascoltate. Almeno dalla maggior parte popolazione mondiale che già sopporta i guai dell’innalzamento delle acque marine, della desertificazione dei terreni, del dissesto idrogeologico.

Invece, dovrebbero stare a sentire questa Cassandra 2020 gli inquinatori con il salvacondotto istituzionale, le fameliche multinazionali abituate al ricatto lavoro-salute, i potenti e i potentati del mondo. Ma è tutta gente che frequenta poco i teatri, lo sapete bene.

Devo riconoscere che alcuni miei colleghi, di osservanza cattolica, in tali lunghe querele, che a me sono sembrate abbastanza ovvie, hanno invece rilevato ispirazioni francescane (come se fossero lo stampo al negativo delle laudi di San Francesco) e reminiscenze di encicliche papali. Bravi. Io invece ne sono rimasto deluso.

Deluso…

… e annoiato pure. Perché questa Cassandra, le sue profezie le dice in sequenza. Per farlo, si cambia ogni volta d’abito, con spogliarelli, movenze e musiche da danza del ventre. Così dopo il vestito verde e quello nero, capisco che mi toccherà attendere anche quello blu, quello rosso, quello bianco. Una buona oretta prima che lo spettacolo prenda un’altra piega.

Jan Fabre - Resurrexit Cassandra 4

Piega che si risolve in un’altra mezz’ora durante la quale cinque schermi in contemporanea mi rimandano l’immagine di lei che si dimena e ulula, neanche fosse una baccante, su quella stessa terra, mosaico di cinque elementi: nebbia, vento, fuoco, vapore, pioggia.

Se poi brandisce e eleva al cielo le oramai famose tartarughe (che nei filmati sono vere e vive), sarà perché Fabre ha promosso a “pietre oracolari” queste creature sopravvissute “a tutti gli incendi del mondo”. E sul cui guscio i profeti leggerebbero il futuro. Ma forse, in tempi frenetici, le tartarughe sono soltanto un elogio della lentezza.

Stella Höttler che avevo visto agire straordinariamente nelle 24 ore (altra piccola tortura) di Mount Olympus (se lo volete rivedere ecco la sintesi di un’oretta ), è qui un po’ meno straordinaria. Per quanto brava. Tranne che a cantare. E non sono riuscito a capire perché debba essere proprio Ich bin von Kopf bis Fuß auf Liebe eingestellt il titolo feticcio del sua Cassandra.

Jan Fabre - Resurrexit Cassandra 5

Ma strizzare l’occhio a Marlene D. fa bene comunque. Mentre resta l’impressione – dicevo prima – di una grande maestria teatrale. Che cela, ma lascia anche trasparire, la debolezza dell’impianto. Però, a uno dei maître del teatro odierno non si può mica chiedere ogni sei mesi un capolavoro. Giusto?

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RESURREXIT CASSANDRA

ideazione e regia JAN FABRE
testo RUGGERO CAPPUCCIO
musiche originali ARTHUR LAVANDIER
performer STELLA HÖTTLER
voce maschile GUSTAV KOENIGS
drammaturgia MARK GEURDEN
light design JAN FABRE, WOUT JANSSENS
costumi JAN FABRE, KASIA MIELCZAREK
produzione TROUBLEYN/JAN FABRE (ANTWERP, BE)
in coproduzione con FONDAZIONE CAMPANIA DEI FESTIVAL – NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA (NAPOLI, IT), TANDEM SCÈNE NATIONALE (ARRAS-DOUAI, FR), TOVSTONOGOV BOLSHOI DRAMA THEATRE (SAN PIETROBURGO, RU), CHARLEROI DANSE, CENTRE CHORÉGRAPHIQUE DE WALLONIE-BRUXELLES (BE)

immagini di Wonge Bergmann 

L’arte del miscelare i classici. Gassman, Pagliai, Babilonia

Mixology è l’arte del miscelare. Miscele d’alcol per lo più. Quelle che di solito chiamiamo cocktail. Ma la mixologia non si applica solo al bere.

I maestri miscelatori amano ripetere che “ogni drink è una voce e racconta una storia”. Sarà allora vero anche l’inverso: che tutte le storie, anche quelle di teatro, nascono da mix particolari, originali, spesso inediti.

Vi parlo adesso del mix teatrale che mi sono trovato davanti l’altra sera, al Teatro romano di Verona, all’aperto, sulle pietre nude. Il debutto di un particolare, inedito Romeo e Giulietta nel cartellone shakespeariano dell’Estate Teatrale Veronese, diretta da quest’anno da Carlo Mangolini, mixologist teatrale della situazione.

Ugo Pagliai e Paola Gassman per Babilonia Teatri

Parliamo di ingredienti

Primo ingrediente, tradizionale: il sapore di base, un marchio di quelli solidi, che si portano dietro una storia leggendaria. Un po’ come il Campari. La coppia formata da Paola Gassman e Ugo Pagliai. Attori di lungo corso e nobili natali. Lei, tanto per dire, è figlia di Vittorio e Nora Ricci, e vanta ascendenze che vanno su su, fino a Renzo Ricci e Ermete Zacconi.

Il secondo ingrediente è invece contemporaneo, aromatico, contrastante. La ginger beer, per esempio. Enrico Castellani e Valeria Raimondi sono anche loro una coppia, titolari di una compagnia, Babilonia Teatri (vedi il loro sito), che ha segnato tappe importanti del teatro italiano recente . E un Leone d’argento alla Biennale Teatro 2016.

Infine, visto che siamo a Verona, visto che Shakespeare è di casa con i suoi due eterni amanti, Romeo e Giulietta come terzo ingrediente. Ma in purezza, distillato. Ne sentiremo solo i monologhi e i duetti più celebri.

Ugo Pagliai e Paola Gassman per Babilonia Teatri

Stir, do not shake

Certi cocktail è meglio non scuoterli troppo, una veloce girata e via…

Così, questo remake di Shakespeare non ripercorre per intero la romantica e tragica storia che abbiamo tante volte sentito. Azzarda invece un’operazione più semplice. O più complessa, se volete.

Entrare nel vissuto teatrale della prima coppia, quella matura, nella loro vita nell’arte. E farlo attraverso i formati teatrali della seconda coppia, più giovane, più post-drammatica. Formato visto, ad esempio, in un altro spettacolo di Babilonia, Pinocchio, in cui si usavano voce fuori campo e microfono come bisturi biografici. E con le domande stile intervista e con le risposte dei protagonisti veniva disegnata l’architettura dello spettacolo.

Ugo, qual è stato il momento più pericoloso della tua carriera?” domanda Castellani all’inizio, dalla platea del Teatro romano. “Questo, questo!” risponde Pagliai dal palco.

Ugo Pagliai e Paola Gassman per Babilonia Teatri

È un gioco scoperto, perché un attimo prima lui e lei si erano trovati schiacciati contro una parete e un lanciatore di coltelli, nel primo e rischioso numero della serata, li aveva sfiorati con le sue lame. Impeccabile lui. Coraggiosi, ma pure preoccupati, loro.

Shakespeare’s greatest hits

Si sarebbe potuto leggere, in quel coup de théatre d’avvio, una certa cattiveria registica. Ma il lancio dei coltelli è giustificato da un testo come Romeo e Giulietta, dove le lame luccicano e i duelli abbondano. Giustificata anche la scelta dei greatest hits dell’opera (Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo, nella traduzione eccellentissima di Salvatore Quasimodo) per raccontare la storia d’amore di Ugo e Paola. Storia nata – come si scoprirà presto – nell’aver preso entrambi parte all’Orlando Furioso di Ronconi, la grande festa di un teatro nuovo, battezzato nel 1969.

Quasi che quell’anno fosse uno spartiacque. In effetti, lo è stato. Da una parte il canone recitativo dell’Accademia nazionale d’arte drammatica del dopoguerra. Le intonazioni, le impostazioni, la dizione espressiva, le pause, i crescendo di cui Pagliai e Gassman sono i detentori. Sull’altro versante, il buttato via, l’immediato, il quotidiano, lo slogan scandito, i graffiti della scena pop rock di Babilonia, nati e cresciuti in provincia. Un teatro sempre in bilico tra il cinico e la provocazione, di cui i veronesi Castellani e Raimondi sono fra i campioni.

Nozze d’oro?

Se si contano gli anni, dal 1969 a oggi, sono più di cinquanta quelli che hanno visto Pagliai e Gassman fare coppia e ditta. Infatti mano mano che il talk show va avanti, alternato ai brani shakespeariani, si comincia a capire quanto sia l’affetto che la coppia più giovane nutre per quella matura.

Con quanta cura li accompagnano in un questo decorso d’arte che prevede in successione: cavalli da giostra, dediche di canzoni, immaginari bagliori di spade, un balcone improvvisato, giochi di prestigio, bottiglioni con il veleno fatale. Anche un matrimonio – finto, per carità: siamo a teatro – perché Paola e Ugo, non sono sposati. È un assessore vero a celebrarlo, ma per finta.

Però, “Wherever you’re going, I’m going your way” (ovunque andrai, andrò con te) canta il Sinatra di Moon River e sarà tutto un volteggiar di lucciole nel finale, mentre Verona notturna e l’Adige sullo sfondo, fanno da naturale e ovvia scenografia. Applausi.

Ugo Pagliai e Paola Gassman per Babilonia Teatri

Questo per dire quanto sia sorprendente che i Babilonia, campioni di un teatro potentemente shakerato, alle prese con un cocktail romantico di amore e morte, sospiri e sfide, ce lo servano mescolato con delicatezza. Che in inglese si dice to stir.

Raccomandava James Bond, che di cocktail se ne intendeva: “Shaken, not stirred“. Ma non sempre James Bond ha ragione.

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ROMEO E GIULIETTA
una canzone d’amore

di Babilonia Teatri
da William Shakespeare
traduzione Salvatore Quasimodo
con Paola Gassman, Ugo Pagliai, Enrico Castellani, Valeria Raimondi, Francesco Scimemi, Luca Scotton
produzione Teatro Stabile di Bolzano – Teatro Stabile del Veneto
nel cartellone 2020 di Estate Teatrale Veronese

foto di Andrea Bianco