STORIE – Il giradischi cominciò a girare, Kazuo Ohno danzò per noi

Ci volevano gambe buone per raggiungere la casetta in cima in cima a una delle colline di Yokohama. Davanti al cancello ci attendeva, Yoshito, il figlio del Maestro. Cerimonioso, come sono sempre i giapponesi, ci invitò ad entrare. Kazuo Ohno ci aspettava.

Kazuo Ohno in Water Lilies
(ph: Keiko Ikeuchi)

La storia che ho pubblicato lo scorso dicembre – nella quale racconto un incontro con Harold Pinter – ha avuto un inaspettato numero di lettori. Molti mi hanno scritto. Avrei dovuto saperlo che raccontare storie personali – quelle che sono capitate proprio a te – crea un interesse che notizie di altro tipo non riescono a suscitare.

Così mi sono ripromesso di pubblicarne altri, di questi episodi: una piccola antologia di incontri con uomini (e donne) straordinari. Dite che si è capito che quel vecchio libro di Gurdjieff, quando l’ho letto, mi è piaciuto molto? (… e sono poi rimasto incantato dal film che, alla fine degli anni ’70, ne aveva tratto Peter Brook).

Perciò, se vi va, seguitemi.

Giro del mondo. Ultima tappa Giappone

Yokohama, estate 1996. La settimana in Giappone faceva parte di un viaggio studiato e preparato con cura. Approfittavamo, Gianfranco Capitta e io, di quelle incredibili offerte che le compagnie aeree, in tempi di vacche grasse, mettevano nei loro menù di viaggio.

Giro del mondo completo, in una sola direzione, con due vettori e sei scali, a prezzi se non stracciati, certo abbordabili.

Poi c’era una borsa di studio della Japan Foundation, che ci avrebbe sostenuto in un momento in cui lo yen valeva tanto, ma tanto. L’istituto di cultura nipponico aveva programmato per noi, nella sosta a Tokyo e in quella a Kyoto, incontri ravvicinati con il meglio del teatro giapponese, esponenti della tradizione, ma anche dell’innovazione.

Atterrammo a Tokyo, un po’ sconcertati. La precedente tappa, le isole Fiji, ci aveva fatto toccare con mano la forbice etnica che separava, su tutti i piani del vivere quotidiano, la comunità etnica figiana e quella degli immigrati indiani. Una società divisa.

L’opposto del profilo monolitico, compatto della società giapponese, che ci accolse allora – erano gli anni ’90 – con tutte le meraviglie dispiegate di un decennio che avrebbe cambiato tecnologicamente il mondo.

Superfluo parlare del viaggio sulle linee dello Shinkansen: il treno-proiettile viaggiava quando l’alta velocità in Italia stava ancora ne sogni di futuristici imprenditori. Inutile soffermarsi sulla visita all’innovativo quartier generale dell’Asahi Shimbun, il più accreditato quotidiano giapponese, accolti dallo staff, con una pletora biglietti da visita e inchini che a noi, poco abituati, procurarono alla fine solo dolori di schiena.

Il momento più emozionate di quella settimana ci attendeva sulla collina di Yokohama.

Kazuo Ohno
(ph. Chris Magee)

Riuscirò a dimenticare quella mano?

La mano di Kazuo Ohno, novant’anni proprio in quell’anno, che con un gesto incerto, lento, appoggia la puntina sul vecchio giradischi. Le note di Rachmaninoff si diffondono nello stanzone, l’atelier, un piccolo edificio discosto dalla casa e tutto dipinto di bianco. Il corpo antico, rugoso, curvo quasi di carta velina, si anima di piccoli movimenti impercettibili.

Poi, per noi due increduli, seduti a gambe incrociate a terra, Kazuo Ohno comincia a danzare.

Prima, mentre in casa sorseggiavamo il te preparato dalla consorte, la signora Chie, lui ci aveva spiegato la sua filosofia. Era cristiano, Ohno, ma di un cristianesimo tutto suo, panteista, orientale. Credeva in un Cristo zen, sapeva che un fiore può rinchiudere l’universo intero. Minuscolo e generoso, aveva detto sì quando la Japan Foundation gli aveva proposto di concedere un’intervista ai due italiani: era ovvio, venivano dal Paese del Papa.

Concentrata e diligente, l’interprete si sforzava di tradurre, ma le parole si ficcavano ogni volta nella strettoie della traduzione. Non era facile capire. E pure lui sentiva l’ostacolo di due lingue diverse.

Soltanto il perizoma bianco

Così, con un moto imprevedibile, scaturito da quella impotenza, ci aveva condotti verso l’atelier, si era liberato della tuta di lavoro ed era rimasto nudo, soltanto il perizoma bianco. Poi, lentamente, ritualmente, con una antica precisione, staccandoli da un piccolo attaccapanni, aveva indossato gli abiti che da decenni indossava danzando la sua creazione del cuore. Il vestito nero e il cappello con il fiore rosso di La Argentina.

Kazuo Ohno in Admiring La Argentina

Restavano scoperte solo le mani, i tortuosi tendini del collo, la superficie prosciugata del viso. Avrebbe danzato per noi due. Era il messaggio che ci consegnava. La sua parola-corpo.

Bisogna ritornare molti indietro per capire che cosa rappresentassero quel vestito, quel fiore, quel cappello. Bisogna rivedere le foto del 1930, quando il giovane Kazuo, allora ufficiale dell’esercito, insegnante di educazione fisica, venne accompagnato a Tokyo per assistere all’esibizione di una celebre danzatrice spagnola, Antonia Mercé, che si faceva chiamare La Argentina. Quella serata, quella visione gli cambiarono la vita. Una finestra si aprì per lui su un diverso universo, Kazuo scoprì un altro linguaggio.

manifesto 1977

In Europa con La Argentina

Non è stato Kazuo Ohno a inventare il giapponese Butho, la danza delle tenebre, ma certo ne è stato l’immagine più nota, quella che ha girato il mondo. L’Europa cominciò a conoscerlo solo negli anni ’80, quando arrivò al Festival di Nancy con la sua creazione Admiring La Argentina, appunto. Alla sfuocata attenzione della critica, quello spettacolo parve allora un capolavoro decadente, dalle figurazioni kitsch, oltre Mishima.

Ma sbagliava chi si ostinava a rintracciare in Ohno il segno del travestitismo, la tradizione dell’onnagata.

La Argentina Sho (Admiring La Argentina) a San Paulo, Brasile (1997)

Ho danzato nel liquido amniotico di chi mi ha generato, con gioia e con dolore. La mia nascita ha coinciso con l’inizio della morte di mia madre” dirà dopo aver elaborato spettacoli sempre più lontani dalla matrice estetica del Butho, e diventati manifesto di una filosofia personale, ibrida, mistica, come My Mother, come Water Lilies, entrambi visti negli anni ’90 anche in Italia.

Kazuo Ohno

Dei fiori, del ventre materno, Kazuo Ohno volle parlarci in quell’estate del 1996, per tutto un pomeriggio. Ma attraverso la danza. E noi lo comprendemmo, nel mistero doloroso dei suoi 90 anni, mentre assieme alla moglie Chie e al figlio Yoshito continuava a offrici cibo e piccoli disegni. Nel giugno del 2010, Kazuo Ohno è scomparso. Stava per compiere 104 anni. Yoshito lo ha seguito nel gennaio del 2020.

In queste immagini, Kazuo Ohno a quasi 90 anni, si muove sulle note di un Notturno di Chopin.

Ecco il link al sito ufficiale.

[una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata sul trimestrale HYSTRIO 3/2010]

Klaus Michael Grüber: quel salto con l’asta nello stadio nazista

Per chi, come me, soffre per la disgrazia dei teatri chiusi, è un colpo di fortuna che si aprano invece i loro archivi.

Altre volte ho consigliato di tener d’occhio il sito della Schaubühne di Berlino, dai cui forzieri audiovisivi, saltano spesso fuori spettacoli che rimpiango di non aver visto.

Magari ero troppo giovane. Magari non avevo i soldi per arrivare fin là e per il biglietto. E comunque le lingue rappresentavano un problema. Il tedesco lo praticavo: però affrontare Hölderlin in lingua originale non era nelle mie possibilità, allora. Forse nemmeno adesso.

Winterreise im Olympiastadion
Winterreise im Olympiastadion (ph. Ruth Walz)

Per tante ragioni dunque Winterreise diretto da Klaus Michael Grüber, nel 1977, nell’immensità dell’Olympiastadion di Berlino non l’ho visto. 

Ma da come me lo raccontava Franco Quadri – che in abiti da esploratore teatrale, negli anni Settanta, percorreva l’Europa in lungo e in largo – quello spettacolo era una pietra miliare del teatro della seconda metà del ‘900.

Un po’ come l’Orlando Furioso di Luca Ronconi. Come 1789 di Ariane Mnouchkine. Come La trilogia del rivedersi di Peter Stein. O la Lulu di Patrice Chéreau.

Klaus Michael Grüber (1941-2008)
Klaus Michael Grüber (1941-2008)

Nello stadio voluto da Hitler

Winterreise im Olympiastadion è un’originale riscrittura che Grüber (il regista tedesco compiva allora 36 anni) aveva creato a partire da Hyperion, romanzo epistolare di Johann Christian Hölderlin. Ma dalla dalla Grecia classica dell’originale, la vicenda veniva spostata nello scenario nazista e trionfalistico dello stadio di Berlino. Quello del 1936, di Jesse Owens, e di Leni Riefenstahl.

“Per tutto Il tempo – scriveva allora Franco Quadri – si vedranno accanto ai personaggi in scena, attori e spettatori della rappresentazione, autentici atleti esercitarsi al lancio del peso, al salto con l’asta, al tiro in porta, fino a coinvolgere in queste attività, per loro quotidiane, lo stesso Iperione che tra le peregrinazioni nei luoghi deputati delle tribune, veste metaforicamente il ruolo di decathleta olimpico, ritmando con l’ansimare della sua corsa a ostacoli il suo lamento di romantico viaggiatore”.

Insomma: un avvenimento, in quegli quegli anni. Poi ci siamo abituati: teatro negli stadi o in altri luoghi inconsueti: cave di sabbia, mattatoi, siti industriali, cittadine terremotate, spiagge e cime montane… E anche teatro e sport, come se fossero cugini. E un po’ lo sono.

Fosse quel che fosse, doveva essere strabiliante in quegli anni di piombo (Winterreise è anche uno spettacolo sul terrorismo e venne visto nel dicembre 1977) un allestimento per 800 spettatori per replica, là nell‘Olympiastadion che Hitler aveva fatto progettare per 110.000.

Volete anche voi dare un’occhiata? 

Quel monumento di un teatro di quasi cinquant’anni fa, tutto sommato è ancora contemporaneo. E si può facilmente rivedere adesso.

Winterreise im Olympiastadion
Winterreise im Olympiastadion (ph. Ruth Walz)

Basta che seguiate questo link, che vi porta nel posto giusto: il cartellone online della Schaubühne berlinese. Però affrettatevi: Winterreise si può vedere fino alle ore 18.00 di mercoledì 27 gennaio.

In quel momento, il teatro di Lehniner Platz rinnoverà il cartellone online e allora potrete assaggiare qualcosa di davvero contemporaneo: una creazione della coreografa e regista argentina (e in realtà cosmopolita) Constanza Macras. Il titolo è Megalopolis.

Inutile dire che ve lo raccomando.

Se poi volete leggere qualcosa di più sulla Schaubühne, c’è anche questo post.

Nella solitudine delle strade del coprifuoco. Il rider Kepler-452

Si chiama Nicola. Fa l’attore. E anche l’autore, il regista, il tecnico. O meglio: faceva tutte queste cose. Fino a un anno fa.

Un anno fa ha cominciato a capire che queste cose non erano essenziali. Proprio un anno fa: quando la sequenza inesorabile ha messo in fila il distanziamento, le mascherine, la sanificazione, i termoscanner. E poi, via via, le sale cinematografiche e teatrali sbarrate, i viaggi e gli spostamenti proibiti, il coprifuoco serale e notturno. Del lavoro di Nicola – il teatro – non è rimasto quasi niente. La sua professione si è spenta, così come si spegne, consumandosi, una candela.

Nicola però non si è spento. Nicola è nato negli anni Ottanta. A quella generazione hanno insegnato il valore della trasformazione e la virtù dell’adattamento. Gli hanno spiegato che la flessibilità rende liberi. Che è importante contare sulle proprie gambe. Così Nicola ha cambiato lavoro. Vive ora, letteralmente, della forza delle proprie gambe.

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ph. Davide Spina

Nicola ora corre in bicicletta: è un corriere (tradotto, si dice rider). Vuol dire che fa le consegne a domicilio (tradotto, equivale a delivery). Ciò che fanno oggi migliaia di persone a cui hanno spento il lavoro di prima. Recapita i pacchi, le buste, gli scatoloni. Porta a casa i cibi precucinati da mangiare per cena. È uno dei ragazzi della pizza o di Foodora. Uno degli angeli caduti di Amazon o di Zalando. La generazione dei lavoretti (tradotto: gig economy generation).

Ma Nicola, lo spirito del teatro non l’ha perso, e il suo nuovo e il suo vecchio mestiere si fondono in un’esperienza strana, corsara. Nicola si infila negli interstizi del grande modello della pandemia. Il suo lavoro, adesso, è un ibrido del nostro tempo che con i suoi compagni di avventura (Paola Aiello, Enrico Baraldi, Michela Buscema, Riccardo Tabilio, e lui, Nicola Borghesi, formano la compagnia Kepler-452) ha voluto chiamare Consegne, performance in tempo di Covid.

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ph. Davide Spina

Ti racconto che cosa succede

Hai ordinato qualcosa online e quel qualcosa tra poco ti verrà consegnato. Nicola il corriere si mette in contatto con te, sul telefonino. Infila la bici e parte dal magazzino. Ci vorrà una mezz’ora buona per la consegna. Nicola deve attraversare la città e la città adesso è buia, fredda, piovosa. La vedi scorrere nel tuo display, mentre Nicola pedala con la webcam in fronte. Senti l’affanno del suo respiro e il rumore delle poche auto in circolazione. Tra poco scatterà il coprifuoco e nessuno ha voglia di sfidare leggi e ordinanze. Può farlo solo Nicola, perché il suo nuovo lavoro – dicono quelle disposizioni – è essenziale. Consegnare.

A volte vedi Nicola in faccia. Ha girato la cam e si rivolge a te, vuole capire dove abiti e qual è la strada più veloce. Di consegne deve farne parecchie, oggi. Nicola ha preso a parlare anche di sé, di ciò che per lui era essenziale. Di ciò che è essenziale adesso.

Magari lo domanda pure a te: curioso di sapere se tu pure sei infelice o triste, resiliente o resistente. Se speri anche tu che tornino i giorni della normalità. I giorni felici, avrebbe detto Beckett. Oppure non ci speri più. O non ci hai proprio mai sperato.

Nella solitudine delle strade del coprifuoco Nicola il corriere pedala e ogni tanto perde l’orientamento. Vorresti dirgli: no, stai sbagliando, alla seconda devi svoltare a destra. Ma lui è per strada e tu sei solo a casa, e il filo intangibile del contatto è la sola cosa che in questo momento vive. Esistete solo tu e lui.

Vorresti anche dirgli: sali su, bevi un caffè, ci mangiamo un panino. Ma sai che non è possibile. La salute prima di tutto. E poi, giusto il tempo della transazione. Scambio economico senza scambio umano.

Nicola è lucido e ti fa capire che prima di tutto viene l’homo oeconomicus. Soltanto al secondo posto c’è l’homo sapiens. Chissà quante posizioni più sotto si colloca l’homo ludens. È il principio di ciò che è essenziale, e di ciò che non lo è.

Tu hai pagato, lui consegnerà il dovuto.

Quando andava tutto bene

Ogni tanto anche Nicola sgarra alle regole della consegna. Diventa un po’ sentimentale. Te le ricordi, dice, le canzoni di quando andava tutto bene? Qual era la tua canzone? Tu gliela dici, lui smanetta su Deezer o Spotify e te la trova subito. Succede perfino che la cantate assieme.

Te li ricordi i giorni del primo lockdown, ti dice poi, l’epica della fase uno, l’orgoglio nazionale? Niente di tutto questo adesso, #nientesaràcomeprima. E intanto con il passaporto notturno della sua divisa da rider, è già arrivato sotto casa tua.

La webcam adesso inquadra il tuo portone, il tuo nome sulla pulsantiera. Ed è un emozione fortissima, aspettare che il dito del guanto di Nicola prema il bottone e il tuo campanello squilli. Una frazione di secondo, ma una attesa infinita.

Scenda al pianoterra, per favore“. Tu infili le scarpe, la giacca e (madonninasanta l’avevo dimenticata) la mascherina, e ti precipiti giù per le scale. Nicola è lì davanti che attende. Immobile come un alieno. Il casco in testa e la cuffia blu luminosa, la bici a terra, lo zaino termico con la tua consegna ancora chiuso. Nessuno dei due dice una parola. Ti porge prima una cuffia, sanificata: sentirai descritte le azioni che di là a qualche decimo di secondo, insieme, vi ritroverete a compiere. Come una profezia.

Nella pioggia, nel freddo, nell’umido dei calzini, è un momento irreale. Una consegna monumentale. Al rallentatore, come se la Storia, dall’alto, vi vedesse e vi giudicasse, superstiti umani nell’era del coprifuoco, congelati nella transazione. Immobili, come la copertina di un vecchio disco dei Pink Floyd. Lui tende il suo braccio, tu tendi il tuo. Il passaggio di mano, la transazione.

Hai avuto ciò che ti spetta e ora Nicola riprende la sua bici e si dilegua nel buio. Lo attende un’altra consegna. O, per dirla come Nicola diceva nel mondo di prima, un’altra replica.

Istruzioni per l’uso.

Consegne – scrivono questi di Kepler-452 – “è un azione corsara, uno progetto nato a Bologna, lo scorso ottobre, dallo sconforto di una nuova chiusura dei teatri, pensato per la notte più desolata mai conosciuta da molti anni: quella del coprifuoco”.

In questo periodo Consegne è attivo in Friuli Venezia Giulia, sostenuto da Css – Teatro stabile di innovazione e inserito nel cartellone Blossom – Teatro Contatto.

A Udine il 21, 22, 23, 24 gennaio e il 12, 13, 14 febbraio. A Cervignano il 9, 10, 11 febbraio 2021. Consegne si replica 4 volte al giorno (alle ore 18.00, 19.00, 20.00, 21.00), fa riferimento a un indirizzo di consegna e a uno o più spettatori che condividano quel recapito e abbiano a disposizione un computer connesso alla rete. La consegna avviene in sicurezza, secondo le norme contemplate dai protocolli e dai Dpcm.

Per informazioni 0432.506925 e sito Css – Teatro Stabile d’innovazione del FVG -Udine

A proposito di Kepler-452 e di Nicola Borghesi trovate altri post su QuanteScene!

Formidabile quell’anno. Nasceva la cultura teatrale italiana online

Che anno quell’anno! Doveva cascare il mondo, ricordate? Il temibile Millennium Bug non sapeva cosa farsene degli anni dopo il 1999 e avrebbe mandato all’aria tutti i computer. E altrettanti disastri doveva provocare la rivelazione del Terzo segreto di Fàtima: “città e villaggi sepolti, rasi al suolo, inghiottiti, montagne di gente indifesa…”.

Per fortuna, Bill Gates ci mise una pezza con Windows Me (Millennium Edition). E per miracolo, il terzo segreto restò un segreto.

Niente da segnalare allora in quel fatidico anno 2000?

A due decenni di distanza, io ricordo che con un gruppo di amici mettemmo mano alla prima rivista italiana online di informazioni e recensioni teatrali. Si chiamava Tuttoteatro.com. E altrettanto, in quegli stessi mesi, fece Oliviero Ponte di Pino tagliando il nastro della prima webzine di cultura teatrale. Che si chiamò, e ancora si chiama, ateatro.it.

ateatro logo

Inutile fare le gare a chi arrivò prima. Di storie sulla preistoria della cultura teatrale online, Oliviero ed io ne siamo raccontate molte. Divertendoci pure un sacco a imitare lo squittìo di quei rudimentali modem telefonici con i quali ci si collegava allora, a 56kbit al secondo. Proprio nel magico anno 2000, Tin.it cominciò a installare le primissime linee ADSL.

Ricorda Oliviero: “In quell’anno  i domini .it registrati erano più o meno 100.000. I teatri, i festival, le facoltà universitarie in grado di utilizzare un sito internet erano rari. In quella preistoria del web, ateatro.it era un sito di pagine statiche, caricate con una connessione telefonica a 56 Kbit al secondo, senza immagini (per non parlare dei filmati)“.

Da allora, tanto ateatro.it tanto Tuttoteatro.com, di strada ne hanno fatto parecchia, arricchendo il loro orizzonte: ad esempio di Premi (il Premio Cappelletti, come ha fatto Tuttoteatro) e di Buone Pratiche (come ha fatto ateatro).

Happy birthday, mr ateatro

Giovedì scorso, il 14 gennaio, ateatro.it doveva stappare la magnum del suo 20esimo compleanno. Un giorno prima dei 20 anni di Wikipedia, volendo essere pignoli. Ma il bello della diretta ha suggerito di posticiparlo di qualche giorno, e mandarlo in mondovisione (si diceva così, all’epoca, no?) grazie ai potenti mezzi di cui disponiamo oggi.

I festeggiamenti sono dunque in programma, in diretta streaming, domenica 17 gennaio, alle 11.00 dal Caffè di Bolzano29, “il duetto culturale della domenica mattina” che si può raggiungere sulle pagine Facebook di Bolzano29, appunto, e di ateatro.

ateatro 20anni a bolzano29

Oliviero Ponte di Pino e Giulia Alonzo, che condurranno la trasmissione, potrebbero già anticipare i nomi degli ospiti in collegamento e di quelli che posteranno auguri e saluti. Ma si sa: non c’è nulla che eguagli la sorpresa.

Se fin da adesso però, ne volete sapere di più, il link è questo.

Il postino suona sempre due volte. Ma non a casa mia

Sarà che l’impianto elettrico è un po’ malandato. O malandate sono le mie orecchie. Ma lo squillo del postino a volte non lo sento.

Così è capitato che il mio vicino – persona gentile, che il postino conosce da sempre – l’altro giorno mi mette in mano tutti i pacchi arrivati per me in queste due settimane di feste. Ma depositati da lui.

Non è più tempo di panettoni e bottiglie di bollicine. Lo sapete anche voi che nessuno spedisce più certi festosi scatoloni natalizi. Arriva soltanto ciò che avete ordinato su Amazon. E a casa mia, anche tanti libri.

Alcuni abbastanza superflui. Altri molto belli e interessanti. Di questi vorrei parlare oggi.

Giuliano Scabia - Canto del monaco Silvano

Non li ho letti tutti, naturalmente

I giornalisti che scrivono sulle Pagine di Cultura hanno un vantaggio. Arrivano loro in visione parecchi volumi. E l’implicito invito a recensirli. Dovessi leggerli tutti da cima a fondo, ci vorrebbero mesi in isolamento. Su di alcuni però, soprattutto quelli che trattano temi teatrali, mi piace soffermarmi. E avviare lente operazioni di lettura.

Ve ne voglio segnalare alcuni, tra questi libri. Quelli che più di altri hanno fatto scattare l’allarme della mia attenzione. Chissà che non suscitino pure la vostra.

Per esempio: lo sapevate che i nostri titani musicali – Rossini, Verdi, Puccini – non sono poi tanto amati? Certo, la gente vuole loro un gran bene. Ma chi si occupa professionalmente di musica storce spesso il naso davanti alle arie più celebri e popolari di Puccini. Per non parlare dei greatest hits di Verdi… evitati anche dalle generazioni giovani, che percepiscono il melodramma come linguaggio d’élite, oltreché anziano.

Parigi o cara… ma grazie no

Lo immaginavo, ma ne scopro l’estensione dopo essermi gettato nella lettura di Italiani contro l’opera, bel volume di Francesco Bracci, uno che la sa lunga. E che oltre a essere specialista di opera italiana ottocentesca, si è occupato, per dirne una, di usi politici della musica.

“Troppo rozza e provinciale per molti musicisti, scrittori e intellettuali – scrive Bracci – o troppo impegnativa per una parte crescente di pubblico, l’opera smette nella seconda metà del ‘900 di essere il genere artistico italiano per eccellenza”. In circa 300 pagine, il volume si impegna a rintracciare, dalla fine della seconda guerra a oggi, la storia dell’ostilità a volte sotterranea, a volte esplicita, di parte del nostro Paese verso questa “ingombrante eredità”.

È insomma uno studio sulla ricezione del melodramma, non sugli autori o sulle opere. Di questo tipo di ricerche, ampliate anche verso il teatro (e per dirla con un termine che non è più in voga, il teatro di prosa) ci sarebbe oggi un gran bisogno. Si eviterebbero certi clamorosi fallimenti nella programmazione dei cartelloni, negli enti lirici e nei teatri nazionali.

La Traviata - atto primo - partitura
Alfredo canta Libiamo, libiamo, uno dei greatest hits verdiani. Lo dovrebbe fare con grazia, leggerissimo…

Un sismografo per la Storia

Quattrocentocinquanta pagine e un peso di poco sotto il chilo sono invece le misure del volume che, appena uscito dal suo bustone, ha virato in positivo la mia giornata.

Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia. Ricchissimo, illustratissimo, è il catalogo della mostra ospitata nel Padiglione centrale dei Giardini, a Venezia, fino a due mesi fa. Un minuzioso lavoro di selezione nell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (il mitico ASAC) mette davanti agli occhi di chi aveva già visto la mostra, e di chi adesso sfoglia il volume, l’incessante rapporto di stimolo e reazione tra La Biennale veneziana e la Storia con la esse maiuscola. Dal 1895, cioè da 125 anni, le due interloquiscono attraverso reciproci riflessi. La Biennale continua naturalmente a perseguire il suo mandato di esplorazione delle tendenze innovative nelle arti contemporanee, ma in questo ruolo, risulta essere stata anche il “sismografo dei sussulti della storia, dei suoi cambiamenti, dei drammi e delle crisi sociali”.

Tra questi segnali sismografici mi ci sono ritrovato pure io. In una fotografia, del 1975, quando davanti alla basilica di San Marco, Julian Beck e il Living Theatre, portarono in piazza i Sei atti pubblici di L’eredità di Caino e noi stavamo là, impressionati (da un angolino sulla destra sbuca pure un giovane Cacciari). O l’anno dopo, alla Fenice, con Robert Wilson e Philip Glass, per Einstein on the beach. Spettacolo che per molti di noi, neanche ventenni allora, rappresentò La Svolta.

Le muse inquiete -La Biennale di Venezia

Nelle teche della nostra recente esperienza

Di un teatro recente, molto recente, parla invece il libro scritto da Marco Baliani e Velia Papa. 

L’attore nella casa di cristallo trasmette a chi lo legge tutto lo spaesamento provato da coloro che hanno assistito a quell’allestimento di “teatro ai tempi della Grande Pandemia”, realizzato alla fine della primavera scorsa da Baliani, nella piazza davanti al Teatro delle Muse ad Ancona. La produzione di Marche Teatro è stata “una performance volutamente priva di ordine, dove il senso non si trova, ma si smarrisce – scrivono Baliani e Papa – esattamente quello che è capitato alle nostre vite durante il lockdown e che sta ancora durando nell’incertezza del futuro prossimo. Lo stesso senso di smarrimento che gli spettatori hanno provato di fronte all’assurdità di due corpi rinchiusi in due teche di vetro incomunicabili”.

L'attore nella casa di cristallo - Marche Teatro

Ripercorre all’opposto una storia che dura da cinquant’anni Napule ’70. Chille de la balanza. Con belle fotografie, spartiti, interviste, approfondimenti, materiali inediti, Matteo Brighenti (che ha curato il volume) e Claudio Ascoli (che nel 1973 a Napoli ha fondato il gruppo), raccontano un cammino che dalla capitale campana arriva fino a Firenze, agli ambienti dell’ex manicomio di San Savi (qui Ascoli, con Sissi Abbondanza e il gruppo dei Chille lavorano adesso) per ritornare infine alle origini, Napoli, dove il loro spettacolo (quello che dà il titolo al libro) è stato presentato nel cartellone di Teatro Festival Italia.

Brighenti e Ascoli - Napule '70 - Pacini Editore

“È l’epopea di un certo tipo di teatro italiano – spiega Massimo Marino nella prefazione – una scena che rifiuta di mettersi su un palcoscenico a re-citare un testo e che configura la sua azione come viaggio, come uno di quei cammini che si facevano un tempo, quando non esisteva Internet. (…) È la storia di un mettersi per strada con uno zaino, possibilmente leggero, e con molte curiosità e tanti desideri. (…) È il movimento di una generazione inquieta che ha trasformato l’impegno in teatro in romanzo teatrale, sulla strada”.

La fine del mondo, secondo Giuliano Scabia

L’ultimo titolo di cui parlo sta sulla copertina di un volumino che non ho ancora letto. Ma che ugualmente, preventivamente, mi è caro. Ogni anno, nei primi giorni di gennaio, apro con grande aspettativa la busta, con il mio indirizzo, scritto a mano da una calligrafia che mi è familiare. Quella di Giuliano Scabia. C’è dentro sempre un libretto piccolo piccolo, ma affettuosamente curato, tirato in un numero ristretto di copie (quest’anno la mia è la numero 89 su 300). In prima pagina campeggia una personalissima dedica.

Il titolo che allo scoccare del 2021 Scabia ha inviato agli amici è Canto del monaco Silvano, un altro dei suoi poemetti vaganti, illustrato stavolta da Riccardo Fattori. “Era una persona luminosa, Silvano Maggiani, profonda, positiva, costruttore di futuro. Non lo aiutava il corpo, troppo pesante, ma era capace di volare” ricorda Scabia nel disegnare biograficamente ciò nel Canto segue le vie di una poesia animale, messa nel becco alle oche (sui viaggi e sulle geografie di Scabia, vedi anche qui)

Giuliano Scabia - Canto del monaco Silvano 2

Fa freddo e bora quassù a Nordest, meglio non avventurarsi fuori. Il Canto del monaco Silvano lo leggerò con calma, questo pomeriggio, al caldo. Tra il quaquaraquà delle bestie che gli fanno corona.

Ps. Dimenticavo quasi di dire che qualche settimana fa mi è arrivato un altro libro firmato Scabia, tipograficamente impeccabile e intitolato Commedia Olimpica, ovvero la fine del mondo (con dinosauri). È l’esito editoriale dei laboratori svolti al Teatro Olimpico di Vicenza nel 2019, promossi da Roberto Cuppone (che dirige il Laboratorio Olimpico ed è anche il curatore del volume) e preceduti da altri incontri, a Castiglioncello, a Valdagno. Come Giuliano ama fare.

Anche Dio fa la cacca è il titolo che Paolo Puppa ha voluto dare alla sua post-fazione. E dicono che porta fortuna.

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REFERENZE BIBLIOGRAFICHE

Francesco Bracci
Italiani contro l’opera. La ricezione negativa dell’opera italiana in Italia dal dopoguerra a oggi
Saggi Marsilio, 2020, 318 pp, 28 euro

Le muse inquiete. La Biennale di Venezia di fronte alla storia
La Biennale di Venezia, 2020, 450 pp, 28 euro

Marco Baliani, Velia Papa
L’attore nella casa di cristallo. Teatro ai tempi della Grande Pandemia
Titivillus, 2020, 104 pp, 18 euro

Matteo Brighenti, Claudio Ascoli
Napule ’70. Chille de la Balanza
Pacini Editore, 2020, 144 pp, 16 euro.

Giuliano Scabia
Commedia Olimpica, ovvero la fine del mondo (con dinosauri)
Laboratorio Olimpico / Atti, 2020, 200 pp, 16 euro

Così è Pirandello. E speriamo che d’ora in avanti non sia più così

Siete ancora in tempo. Se vi va di vedere del buon teatro, almeno.

Siete in tempo perché fino al 6 gennaio, il giorno dell’Epifania, sul sito del Teatro Stabile di Torino (e su Yoube) , si può ancora vedere la ripresa video integrale dell’edizione 2018/19 di Così è (se vi pare). Una tra le più riuscite, a mio avviso. (Qui il link al TST e a YouTube).

Così è (se vi pare) - Teatro Stabile Torino. Regia Filippo Dini
Così è (se vi pare) – Ph. Laila Pozzo

Chi legge, magari distrattamente, questo blog sa che non condivido tutta la stima che gli italiani mostrano nei confronti di Luigi Pirandello, premio Nobel per la Letteratura 1934. Pirandello, che è appunto l’autore di quel dramma. Una stima che si basa su approcci molto scolastici allo scrittore e letture convenzionali dei suoi lavori. Sia di narrativa sia di teatro.

L’ho scritto altre volte (qui qualche riflessione a proposito dei Sei Personaggi). Quello che trovo inadeguato è l’averlo elevato, in Italia, a portavoce teatrale di una condizione esistenziale borghese, anzi piccolo-borghese, senza poi mai storicizzarne i problemi e capirne, dal punto di vista socio-psicologico, le radici. Almeno a scuola. Complicato?

Per dirla in due sbrigative parole, allora, a me sembra che tutti i solenni paradossi esistenziali che vengono posti nei suoi lavori, siano in prima istanza problemi personali del signor Pirandello. 

Di problemi, in famiglia, Luigi ne aveva parecchi, a cominciare dalla moglie Antonietta Portulano che era uscita di testa, dal rapporto con la consorte, e con la figlia Lietta. 

Così è (se vi pare) - Teatro Stabile Torino. Regia Filippo Dini

La drammaturgia pirandelliana è piena di corna e di relazioni adultere. E la manfrina che molti suoi titoli ci propongono, sulle incertezze della paternità, sul possesso dei figli, sull’onore del maschio, per non parlare dell’ossessione della gelosia, erano – diciamolo come andrebbe detto – problemi suoi, dell’autore. Molto di meno problemi della comunità borghese italiana del primo ‘900, del resto già molto ammaccata dalla guerra.

Sul lettino dello psicanalista

Così è (se vi pare) e I sei personaggi, rispettivamente del 1917 e del 1921, sono poi testi sui quali insiste l’ombra temibile e morbosa dell’incesto.

Chiaro che a scuola queste cose non te le dicono. Perché non è quella l’età in cui puoi capire la complessità delle situazioni. Ma soprattutto perché la scuola c’ha parecchi tabù. Così di Pirandello resta la retorica della maschera e del volto, del relativismo, dell’umorismo come sentimento del contrario, del “io sono colei che mi si crede“. Le litanie, insomma.

All’estero – ve lo segnalo – Pirandello non ha poi tutta questa gran fortuna. A averci dato un po’ dentro, in Italia, negli ultimi decenni del ‘900, era stato il regista Massimo Castri. Il quale – per dirla di nuovo sbrigativamente – aveva disteso Luigi sul lettino dello psicoanalista, e ne portava allo scoperto le nevrosi. Tanto è vero che gli eredi Pirandello, quelli che detenevano i diritti, a cominciare dalla sua musa Marta Abba, non gliel’hanno mai perdonato.

Per dare ragione a Castri, basterebbe leggere con un po’ di attenzione la biografia di Federico V. Nardelli, Pirandello. L’uomo segreto (1932, approvata persino da Pirandello stesso). Oppure Andrea Camilleri, che ne ha scritto abbastanza.

Ecco perché Così è (se vi pare) è diventato una sorta di pietra di paragone per un regista italiano. Dimmi come lo fai, e ti dirò chi sei.

Filippo Dini è il regista ma anche il segreto protagonista di questa edizione dicembre 2018 di Così è (se vi pare). Interpreta infatti lo scettico Lamberto Laudisi, quello che tira le file del maledetto imbroglio accaduto in una cittadina di provincia dell’Italia interiore, dove d’altro non si parla che di una famiglia. I cui rapporti interpersonali fanno esplodere la curiosità, la moralità, la morbosità dei concittadini pettegoli. 

Così è (se vi pare) - Teatro Stabile Torino. Andrea Di Casa e Maria Paiato
Così è (se vi pare) – Ph. Bepi Caroli

A me pare che Dini, con il suo spettacolo, abbia d’un balzo scavalcato tutto il Pirandello scolastico e sia pure approdato a un Pirandello comico. Drammaticamente comico. Che è abbastanza insolito, vero? Scettico sì, ma sarcastico anche.

Guardate la foto iniziale di Laila Pozzo, combinata come una Ultima Cena. A vedere lo spettacolo, due anni fa, io ho riso parecchio. Con buona pace di chi, prima che una storia d’incesto, in quel testo ci vede un trattato di filosofia. Anzi, come si diceva una volta, di pirandellismo.

Non voglio convincervi di niente. Così è (se vi pare), edizione Dini, sta online fino a domani. Dateci un’occhiata e poi sappiatemi dire. Siete ancora in tempo (qui di nuovo il link).

Così è (se vi pare) 2018/19 - Filippo Dini

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COSÌ È (SE VI PARE) 
di Luigi Pirandello

con
Maria Paiato – La Signora Frola
Andrea Di Casa – Il Signor Ponza
Benedetta Parisi – La Signora Ponza/Infermiera/Spettro
Filippo Dini – Lamberto Laudisi
Nicola Pannelli – Il Consigliere Agazzi
Mariangela Granelli – La Signora Amalia
Francesca Agostini – Dina
Ilaria Falini – La Signora Sirelli
Carlo Orlando – Il Signor Sirelli
Orietta Notari – La Signora Cini
Giampiero Rappa – Il Signor Prefetto/Un cameriere di casa Agazzi
Mauro Bernardi – Il Commissario Centuri/Un altro cameriere

regia Filippo Dini
scene Laura Benzi
costumi Andrea Viotti
luci Pasquale Mari
musiche Arturo Annecchino

Produzione Teatro Stabile di Torino
Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale l’11 dicembre 2018 al Teatro Carignano di Torino