In-Box è un termometro. Misura la temperatura del giovane teatro italiano. Quello vivace. Indipendente. Quello che non sta là a calcolare con gli algoritmi. Un teatro semplicemente libero. Che molti chiamano emergente. Che io chiamerei rinnovamento. O rigenerazione.

Se poi In-Box è dal vivo – come succede da qualche anno a Siena, complici Straligut Teatro e Fondazione Toscana Spettacolo – tanto di guadagnato.
Passati attraverso le selezioni di In-Box dal vivo, in questi anni visto emergere a Siena e poi affermarsi Caroline Baglioni e Silvia Gribaudi, Oyes e Controcanto, Paolo Paolocà e Fabiana Iacozzilli. Sono passati tutti sul palcoscenico del teatro dei Rozzi, o quello dei Rinnovati, o al teatro del Costone, e sono i nomi che formano oggi l’area più agile e movimentata del teatro italiano, i nomi che lasceranno un segno negli anni Venti.
Per questo In-Box è un luogo di articolazione, un osservatorio unico. Un contest speciale.

Come funziona
Selezionate da una giuria di una settantina di operatori teatrali, che programmano festival, sale teatrali, circuiti, manifestazioni in tutta Italia, alcune centinaia di candidature (quest’anno erano 564) si assottigliano fino a ridursi a una manciata di finalisti. A cui si aggiungono i finalisti di In_Box Verde (la sezione riservata al pubblico infantile e adolescente).
A selezionarli è gente esperta. Io di loro mi fido. Colleghi che si conoscono e soprattutto conoscono le proprie platee. Ne intuiscono i gusti e le inclinazioni. Sanno quale titolo potrà piacere alle a un certo tipo di pubblico e quale no. Riuniti in una assemblea finale, acquistano le repliche di ciascun spettacolo e le programmano nella stagione prossima. Tra i finalisti vince il più acquistato. Vince per modo di dire dire, il punto è che lavorerà. Di questi tempi, meno male.
L’edizione di quest’anno
Sei erano i finalisti di questa In-Box dal vivo 2021. Buona annata direi.
Tra questi sei, le differenze si sono notate. Con una divisione netta tra creazioni che consapevolmente si appoggiano al passato prossimo del teatro nazionale (uso di lingue regionali, drammaturgie di ispirazione civile, linearità della narrazione) e quelle che guardano invece a un prossimo futuro, a una scena che accolga nuove architetture di racconto, manipolazione di contenuti, tecnologie audiovideo, e pure l’interazione con il pubblico.
Di questo secondo indirizzo fa certo parte il più ardito tra i titoli finalisti, Arturo, in cui Niccolò Matcovich e Laura Nardinocchi, in modalità fortemente emozionale, raccontano il rapporto che ciascuno di loro due (o meglio, ciascuno di noi) ha stabilito o stabilirà con il padre, inevitabilmente destinato a morire, e a lasciare sedimentati dentro i ricordi.

Creazione ardita, ho detto prima, forse troppo per le platee più tradizionali, Arturo è stato facilmente sopravanzato da Apocalisse tascabile di Niccolò Fettarappa Sandri e Lorenzo Guerrieri. Con le lusinghe più facili di un cabaret esistenziale, i due riescono a trattare il trash consumistico e le derive linguistiche della generazione Erasmus, infilzandone gli snodi. Ciò che avevano fatto 15 anni fa quelli di Babilonia Teatro. Il registro però è aggiornato con sapienza e lo premiano i compratori, assicurandogli un cospicuo numero di repliche.

Questi, per me, erano i più interessanti. Seguono, gli altri. Tra il napoletano verace di Il colloquio (tre donne in attesa davanti al portone del carcere di Poggioreale) e il finto-contadino di La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza (poetico ragazzo sovrappeso sogna una carriera di danzatore), in territorio neutro si è posta la scrittura esperta di Blue Thunder. Il testo è dell’irlandese Padraic Walsh, ben condotto, quindi, ma come al solito inquadrato dentro i conflitti di una famiglia disfunzionale. L’efficace prova attorale era di Marco Cavalcoli, Mauro Lamanna, (anche regista) e della nuova star delle serie tv Gianmarco Saurino.
Un po’ meno mi ha convito La Foresta del duo I Pesci – Ortika, che sembra inseguire un sogno generazionale, sul filo dello sballo ma finisce – è una valutazione mia molto personale – solo col girarci attorno.

Ma avessi un teatro a disposizione, li programmerei quasi tutti, perché ciascuno, dentro la propria fabbrica creativa, sembra cogliere una necessità, il filo di un interesse del pubblico, o piuttosto dei pubblici. Che per fortuna sono tanti e rappresentano la varietà di gusti e di culture del teatro italiano meno ingessato e istituzionale. Quello che piace a me.
Peccato solo che un teatro a disposizione io non ce l’abbia. Ancora. 😉