Rimini Protokoll, in cuffia a Mittelfest. Appuntamento al cimitero

C’è tempo fino a domenica 5 settembre per partecipare a Remote Cividale del Friuli: un format che il gruppo teatrale tedesco Rimini Protokoll (uno dei suoi fondatori, in particolare, Stefan Kaegi) ha realizzato in molte città del mondo, e proposto adesso anche a Mittelfest, quassù ai confini d’Italia. Ho partecipato. Potreste farlo anche voi. Vi dico perché.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli
Tutte le immagini di questo post sono di Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

L’appuntamento è al cimitero, un po’ fuori mano. Hai deciso di partecipare a Remote Cividale del Friuli dei Rimini Protokoll, e qui sei stato convocato, alle 17.30 di un sabato pomeriggio.

Non è per un malinteso senso del macabro che ti hanno convocato proprio qui. Ma perché i cimiteri – che probabilmente frequenti poco – sono i soli luoghi dove si può avviare una riflessione non banale su ciò che separa i vivi (che ti stanno attorno) dai morti (che invece stanno là sepolti dalla terra). E riflessioni così, probabilmente, non ne fai molto spesso. 

Siete già in dieci, convocati qua, e altri via via si aggiungono. All’ora fissata, siete una trentina. Vi hanno dotati di cuffie per l’ascolto individuale e vi stanno dando delle istruzioni. Da remoto. È per questo che Remote Cividale del Friuli si chiama così.

“Lei è in attesa di Remote Cividale del Friuli. Si metta comodo. Può sedersi sui gradini, o sul marciapiede, lungo la ringhiera. Cerchi un posto all’ombra. Ma non vada lontano. Se il volume è troppo alto o troppo basso, lo sistemi nel suo ricevitore. E per cortesia, indossi la mascherina non appena si avvicina agli altri. Remote Cividale del Friuli inizierà tra pochi minuti. Riceverà un segnale. Si prenda il suo tempo. Si rilassi”. 

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

Possiamo cominciare 

Scarpe comode, ti avevano detto, e così hai fatto. Una bottiglietta d’acqua. E un abbigliamento leggero. Attento che potrebbe piovere. Bene, sei a posto. Una volta pronto , in cuffia, sentirai una voce femminile che si presenta.

“Il mio nome è Fabiana. È un piacere conoscerLa. Posso darle del tu?
Immagini un viso mentre mi ascolti? Come sono i miei occhi? Come sono le mie labbra? La mia voce ti sembra strana? Suona un po’ artificiale, vero? Le mie parole sono composte da sillabe. E queste sillabe creano la mia identità. Ecco perché a volte suono strana. Credi che io abbia una strana identità? In futuro sarà sempre più difficile distinguere tra umani e umanoidi. Distinguere tra ciò che è ancora vivo e ciò che è già morto. Ma questa distinzione sarà ancora necessaria in futuro? Proverò ad aiutarti a trascendere queste distinzioni. Ti fiderai di me?”.

Seguendo le indicazioni di Fabiana, ti muoverai dentro al cimitero, sosterai davanti alle tombe, percorrerai i viali. Fabiana ti inviterà a camminare, a stare fermo, a guardare, a pensare. Ai vivi e ai morti. Questo, il navigatore che hai in macchina non lo sa fare. Eppure, proprio come lui, Fabiana non ha un corpo. Ha solo la voce. Perciò entrambi amano molto lavorare con gli umani.

Sarà un piccolo rito, questo che fate al cimitero. Potrai riflettere sul tuo corpo, che un giorno sarà qui, sotto la terra, o in qualche altro posto simile. Potrai pensare alla sua decomposizione. Non solo della carne, ma anche del ricordo che gli altri avranno di te. Perché anche i ricordi si decompongono. Proprio come i corpi.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

A questo punto Fabiana ti inviterà a uscire dal cimitero, a prendere la via della città. Ma non quella abituale. Non sempre la via più corta è la migliore. A volte ti avvicini di più all’obiettivo se prendi una deviazione. Così comincerai a camminare insieme agli altri. Trenta camminatori. Un gruppo. Una comunità. Un’orda, secondo il lessico di Fabiana.

A dire il vero, in mezzo a quella piccola società, sarai solo. Solo con quella voce, che ti si infila nelle cuffie. Fabiana vi guiderà per strade a te sconosciute, per viottoli al margine della città, tra filari di viti, campi di ulivi, terreni falciati. E vi farà riflettere per esempio sul fatto che ciò che ti sembra natura, è invece paesaggio agricolo, artificialmente modellato. Che ogni frutto di quegli alberi diventerà oggetto di consumo. Prodotto per un mercato. Natura uguale denaro. Sempre più spesso.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

Non ha esperienza del mondo, ma lo comprende grazie a te

Mentre cammini, oppure mentre sei fermo al passaggio a livello, la voce ti svelerà la propria natura. Digitale, sintetica, un algoritmo che non ha esperienza del mondo, ma lo comprende grazie alle tue azioni. E alle tue reazioni. È un umanoide. Fabiana fa parte di quelle cose che tu chiami intelligenza artificiale.

A volte ti sembrerà ironica, spiritosa. A volte ti infastidiranno i suoi comandi. Svolta a destra. Segui il marciapiede. Adesso a sinistra. Attraversa la strada. Attento alle macchine. Cammina un po’ più veloce. 

“In che modo gli altri influenzano la tua velocità? e in che modo tu influisci sulla velocità degli altri? Puoi farli andare più veloci? Prova a sorpassare la persona che hai davanti. Dai, prova! Quelli in cima al gruppo rimarranno sempre lì? Chi sta rimanendo indietro di proposito? Proverò ad essere un buon pastore. Ma alcuni saranno sempre troppo pigri per me. Cerca almeno di non restare troppo indietro”. 

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

Fabiana, quando fai così, mi stai proprio antipatica. Eppure la seguirai, la asseconderai. Proprio come faranno i tuoi compagni di avventura, i trenta camminatori. Fabiana vi guiderà verso non-luoghi, i templi della periferia. Poi vi avvicinerete al centro, e anche là, altri luoghi, altre strade, altri edifici: un paesaggio urbano da esplorare assieme, da conoscere, da mettere in cima alle tue riflessioni. Per un momento. Per poi concentrarsi sulla prossima tappa.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

Da remoto

Non voglio svelarti altro. Come la maggior parte delle creazioni di Rimini Protokoll (vedi qui il loro sito), Remote Cividale del Friuli non è uno spettacolo. È un’esperienza 

Come 100% City, come in Home visit Europe, anche le diverse declinazioni geografiche di Remote si collocano in un filone di creazioni teatrali, che conta sempre più esempi nel mondo. Un teatro che prescinde da personaggi, interpreti, vicende. E forse anche dagli spettatori. Perché in Remote tu sei un camminatore. Come in Home Visit Europe sei un giocatore. Come in 100% City, un soggetto percentuale in un giocoso esperimento di statistica. 

Remote è un esercizio sull’esperienza sul camminare, sul quotidiano urbano, sul vivere la città, che osservata in questo modo, assume significati diversi. O addirittura li assume per la prima volta. Perché camminiamo in un certo modo? Perché scegliamo sempre certi percorsi? Ci avevi mai pensato? Hai avuto bisogno di qualcuno che ti ci faccia pensare da remoto.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

“Per andare avanti devi costantemente lasciare delle cose indietro. Per andare avanti, devi dimenticare, e dimenticare, e dimenticare…. Io non dimentico mai. Fermati un attimo e goditi il silenzio. Adesso girati e cammina. Guarda come camminano. In modo strano vero? Come se qualcuno li stesse controllando da remoto. Non ne hanno idea. Ti senti preso in giro essendo controllato da remoto da una strana voce? O invece ti piace, se qualcuno ti dice cosa fare, e non devi prendere decisioni?”. 

Alla fine, dopo 100 minuti di Remote Cividale del Friuli scoprirai di essere un po’ cambiato – come sono cambiato io – almeno nel modo di vedere certe cose, magari piccole, ma è il modo di pensarle che conta. E questo, per il teatro, benché da remoto, è un bel traguardo.

Rimini Protokoll - Remote Cividale del Friuli

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Per approfondire un po’, vedi qui sotto l’intervista a Stefan Kaegi realizzata da Renzo Francabandera per Remote Milano.

Oppure vedi qui, attraverso gli occhi di questo blog, un altro spettacolo di Rimini Protokoll.

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REMOTE CIVIDALE DEL FRIULI
di Rimini Protokoll (Stefan Kaegi / Jörg Karrenbauer)
Idea, testo e regia Stefan Kaegi
Ricerca, testo e regia di Cividale del Friuli Jörg Karrenbauer
Sound design Nikolas Neecke
Sound design di Cividale del Friuli Peter Breitenbach, Karolin Killig
Drammaturgia Aljoscha Begrich
Direzione di produzione Monica Ferrari

“Remote X” è una produzione di Rimini Apparat
In coproduzione con HAU Hebbel am Ufer Berlin, Maria Matos Teatro Municipal e Goethe-Institute Portugal, Festival Theaterformen Hannover/Braunschweig, Festival d’Avignon, Zürcher Theater Spektakel, Kaserne Basel
Con il sostegno di Capital Cultural Fund Berlin, Swiss Arts Council Pro Helvetia e Fachausschuss Tanz und Theater Kanton Basel-Stadt.
Una coproduzione Rimini Protokoll / House on Fire con il sostegno del Programma Culturale dell’Unione Europea

Tutte le foto © Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

Lino Guanciale. Europeana. Un secolo nel frullatore

Questa mattina, 28 agosto, nel cartellone di Mittelfest a Cividale del Friuli, Lino Guanciale e io parliamo di serialità televisiva e di teatro, di sex symbol, di This is us e di La porta rossa, di attori versatili e spettatori addormentati. E soprattutto di Europeana.

Lino Guanciale

Prendete la storia europea del XX secolo. Mettetela nel frullatore. Pigiate l’interruttore per pochi istanti. Ne verrà fuori Europeana, il libro che lo scrittore praghese Patrik Ourednik ha pubblicato nel 2001, appena terminato il secolo. 

E sono brandelli di vite, scampoli di notizie, frammenti di giornale, tragedie capitali, vicende minuscole. Tutti assieme. Da buttare giù, in una lunga sorsata.

Appena frullati, ve li versa nel bicchiere Lino Guanciale. Che non è soltanto l’attore italiano che vanta il più alto tasso di serialità televisiva. Ma è uno che spesso, anzi molto spesso, distilla teatro. Lui, sul palcoscenico, davanti al suo pubblico. A volte, con un musicista.

Europeana è anche il titolo dello spettacolo che Guanciale presenterà questa sera, sabato 28 agosto, a Cividale del Friuli, nel cartellone di Mittelfest, la manifestazione che da trent’anni raccoglie gli stimoli di teatro, danza, musica dai Paesi del Centro-Europa. Non solo quelli, naturalmente.

Patrick Ourednik - Europeana

L’intervista

Lino, com’è che a un attore viene in mente in portare in scena un libro che non sceglie se far cominciare il ventesimo secolo con la scoperta collettiva dell’inconscio (“L’interpretazione dei sogni” di Freud, 1898) o con l’inizio della produzione industriale di carta igienica (1901, in Svizzera).

“Ho letto e riletto più volte il libro di Ourednik, ci ho lavorato sopra parecchio, è un’opera che mi ha fatto scoprire l’altra faccia dell’Europa, il doppiofondo della storia, così come ci è stata raccontata. Per me, quand’ero ragazzino, l’Europa dell’Est erano certi potenti atleti, sempre vittoriosi alle Olimpiadi. Oggi, da adulto, la vedo diversamente, e il libro Ourednick, uno che ha vissuto la Primavera di Praga, me lo conferma. Perché riesce a demistificare tutti i luoghi comuni, filo-occidentali o filo-sovietici, con i quali da una o dall’altra parte della Cortina di Ferro, siamo cresciuti”.

Sarà un reading con musiche, quello di stasera a Mittelfest.

“Una formula mista. Una formula che amo moltissimo. Alcune pagine le leggerò, per mettere in evidenza la raffinata letterarietà del libro: un corpo a corpo con la carta, anche perché provo un vero piacere nel lavorare con i fogli in scena. Altre pagine le gestirò a memoria, impegnato in un altro corpo a corpo, quello con la musica”.

A teatro, Lino Guanciale lavora spesso con i musicisti, i compositori, gli ingegneri del suono. Meglio se dal vivo. In questo caso il fisarmonicista Marko Hatlak, uno che suona il suo strumento come fossero sessanta strumenti diversi.

“L’esperienza mi ha insegnato che la musica dal vivo è uno dei mezzi più potenti per mettersi in relazione con il pubblico. Certo non la devi trattare come un tappeto sonoro. Devi farne un impulso per arrivare più a fondo possibile nelle parole che porti sulla scena. Grazie alla musica, anche gli attori, oltre che il pubblico, possono sprofondare nelle parole. Per me è una specie di invasamento”.

Lino Guanciale set camerino
Guanciale sul set

I fan, le fan

Ma – tanto per capire – il pubblico viene per vedere Guanciale, o per sentire ciò che Guanciale dice?

“Magari viene per me. Ma poi si appassiona a ciò che interpreto o leggo”. 

Nei fan e nelle fan, quelle che seguono il loro beniamino ovunque, c’è anche un surplus di innamoramento.

“Credo sia un di problema tutti quegli attori e attrici a cui è capitato di avere un largo seguito. Il lavoro nel cinema e in televisione accelera il rapporto di fidelizzazione, che magari ricade poi sul teatro, se uno lo fa. Ed è una specie di doping. Ma io non considero la popolarità come un fine. Per me è un mezzo per portare più gente a teatro, per farlo diventare più popolare. Non nel senso di commerciale, ma nel senso nobile che a questa parola dava Jean Vilar, l’artista francese che aveva ideato il Festival di Avignone”. 

Una tra le etichette più comuni che i media appiccicano a Lino Guanciale è quella di sex symbol.

“Mammamia, mi ha fatto sempre paura essere identificato come sex symbol. A volte mi ha anche divertito, perché so che questa ‘qualifica’ non mi riguarda da un punto di vista personale: riguarda solo l’immagine dei personaggi che ho interpretato. E al cinema e in tv il lavoro d’interpretazione passa sempre attraverso manipolazioni e rimodulazioni, a cominciare dal montaggio. Nel prodotto finito, quello sullo schermo, non ci sono più io. Su un palcoscenico invece ci sono sempre e soltanto io, assieme a chi mi lavora accanto. Per questo il teatro è la vera casa degli attori”.

Lino Guanciale

This is us

Molti lettori vogliono invece sapere cosa riserverà loro la prossima serie televisiva.

“Se vogliamo parlare di “This is us”, posso dire che le riprese sono terminate e che siamo in fase di post produzione. Immagino che la potranno vedere con l’anno nuovo”.

Cinque stagioni, 88 episodi e passa, come nell’originale statunitense?

“Dodici episodi distribuiti in sei serate, uno dei format abituali della serialità televisiva del nostro Paese. Spero tanto che il pubblico apprezzi il bel lavoro di traduzione che lo sceneggiatore Sandro Petraglia e la sua équipe hanno fatto trasferendo quello che orami viene considerato un classico, nella realtà italiana, dagli anni ’70 in poi”.

Chiedo all’esperto: ma questa abbuffata di serie, questo restare per ore e ore incollati sugli schermi, sciroppando episodio dopo episodio, è un fenomeno temporaneo, un effetto delle restrizioni dell’epidemia, o è destinato a proseguire?

“Durerà, perché sprofondarsi in un’altra realtà è una cosa di cui le persone hanno bisogno”.

Inevitabile a questo punto parlare di “La porta rossa“, terza stagione.

“Cominceremo a girare a Trieste, il 30 agosto. Mi sa che in questa ultima stagione resterò orfano di Ursus. È stato un altro dei miei corpo a corpo, quello. Arrampicarmi sulla gru più iconica del porto di Trieste era un cosa che mi entusiasmava moltissimo”.

Guanciale arrampicato sulla gru Ursus in una scena della serie televisiva “La porta rossa”

[l’intervista a Lino Guanciale è stata pubblicata nell’edizione di sabato 28 agosto 2021 sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste].

Nicoletta Orsomando. La televisione italiana era lei.

“La televisione era lei” dice oggi e senza possibilità di smentita la sua collega più giovane, Maria Giovanna Elmi, ottant’anni compiuti.

“Un punto di riferimento per tutti gli italiani” aveva dichiarato Sergio Mattarella, ottant’anni anche lui, facendole gli auguri per il compleanno. 

Nicoletta Orsomando televisione

Nicoletta Orsomando, scomparsa oggi, a 92 anni, era davvero la televisione italiana del ‘900 e il punto di riferimento per la generazione dei boomers, nati e cresciuti in parallelo con l’apparecchio televisivo.

Garbata, gentile, sorridente

Sono gli aggettivi che più si ricorrono nell’antologia di obituaries (forma elegante per dire necrologio) che ha invaso oggi le reti e i giornali. Un’icona che ricordiamo tutti, noi boomers e non solo.

L’acconciatura sempre uguale attraverso i decenni. La voce sicura e la dizione esatta anche con i nomi più esotici. Il piglio discreto con cui entrava, sera dopo sera, nelle cucine degli italiani per annunciare, all’ora di cena, i programmi. Più precisa del Radiocorriere. Più in diretta di tutti. Sempre sul pezzo.

Nicoletta Orsomando negli anni '50

Non era stata la prima, ma certo fu la più iconica di tutte le annunciatrici: le signorine buonasera, che nell’Italia del boom prima, e dello sboom dopo, sapevano vagamente cullare il blando immaginario erotico della borghesia italiana.

La Farinon viso d’angelo, la Gambineri nuvola bionda, la femme fatale Cannuli (Noschese, ci campò per anni), la Cercato acqua sapone, la fata Elmi, il pepe di Peppi Franzlin. Uomini nemmeno uno, ci mancherebbe.

Ma lei, la Orsomando, no. L’eros faceva a pugni con suo il sorriso inclusivo, con il suo filo di perle, con gli abiti che per le spettatrici erano la quintessenza del classico. Magari soltanto nel mezzobusto dell’inquadratura.

Poi venne la neo-televisione (la paternità del termine è di Umberto Eco). E tutto il vecchio mondo televisivo, educato e pedagogico, scomparve. Scomparvero anche signorine buonasera, Tanto in Rai, tanto nelle reti commerciali. Marina Morgan fu l’ultima, o quasi.

Le annunciatrici vennero dismesse, si affermarono le conduttrici. Disinvolte. Determinate. A volte impiccione. Usavano il telefono come un’arma. Chi l’ha visto? Pronto, Raffaella?

L’annunciatrice che ne aveva fatte tante

Se avete la pazienza di scorrere la Wiki di Nicoletta Orsomando, troverete pane per la vostra curiosità. E se avete più di cinque decenni alle spalle, scorrerà con lei, davanti ai vostri occhi, la storia stessa della televisione italiana.

Dall’Amico degli animali, Angelo Lombardi, al Disco per l’estate di Vittorio Salvetti. Dal Festival di Sanremo, un passo dietro al proverbiale Nunzio Filogamo, a La giornata parlamentare con il severo Jader Jacobelli.

Anche un po’ di cinema, in prima persona. In Totò, lascia o raddoppia? di Camillo Mastrocinque (1956) interpretava se stessa. Esattamente come avrebbe fatto in Parenti serpenti di Mario Monicelli, quasi quarant’anni dopo.

Orsomando e quella Rai bacchettona, castigatissima

“Ricordo che inaugurando un nuovo centro di produzione – rievocava Orsomando alcuni anni fa – indossai un abito da sera con un castigatissimo décolleté. La Rai a quei tempi aveva un direttore intelligente e colto, ma era una specie di prete laico. Un funzionario zelante si precipitò a prendere una rosa per coprire quel poco che c’era da coprire e evitare lo scandalo”.

Di quella Rai bacchettona e ultrademocristiana, lei era stata comunque il volto. Anche se, nella testa le si muovevano le idee che avrebbero di lì a poco cambiato non solo la televisione, ma l’intero Paese. Come dimostra questa intervista del 1979, dove Nicoletta Orsomando dice cose che andrebbero sottoscritte, ancora oggi. 

Anche per questo, non solo scusiamo, ma siamo tutti con lei, quando le tocca combattere, oltre che i direttori cattolici, pure i colpi di tosse.

Una tovaglia a quadri e il fantasma di una notte di mezza estate. A Sorci

Castelli che ospitano fantasmi ce ne sono tanti. Ma che ai fantasmi si aggiungano anche gli artisti non capita tanto spesso. A pochi chilometri da Anghiari, città toscana famosa per la battaglia, quella forse dipinta da Leonardo, sorge il Castello di Sorci. Non pago del fantasma d’ordinanza, l’antico maniero si è scelto da tempo una diversa destinazione d’uso: cenacolo di cultura. Lo si scopre grazie a Tovaglia a quadri, cena teatrale che da 25 edizioni porta la città della battaglia leonardesca all’attenzione delle cronache estive.

Tovaglia a quadri 2021 - Castello di Sorci (Anghiari)
(ph Giovanni Santi)

Grazie all’intraprendenza della famiglia Barelli, al suo ottimo ristorante e a cene frequentate dal bel mondo, da quasi mezzo secolo il Castello di Sorci si è trasformato in cenacolo e punto d’incontro. Tra queste mura ha soggiornato e lavorato gente come Alberto Burri (che ha pure disegnato il logo), Roberto Benigni e Massimo Troisi (che hanno ideato e scritto qui “Non ci resta che piangere”), Giuseppe Bertolucci (che vi ha collaborato), Pupi Avati. Vi sono tornati spesso noti intellettuali e attrici acchiappafolle, come la fedele Monica Bellucci

Uno spettacolo in quattro portate

Un bel po’ di queste storie ce le hanno raccontate, tra una portata e l’altra, gli attori di Tovaglia a quadri. Forte di una formula nata 25 anni fa (l’ho descritta in un post del 2018), la cena con spettacolo in quattro portate, ideata da Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, continua ad attrarre il pubblico. Tanto i residenti tanto i turisti che ogni agosto si muovono tra le valli toscane (qui siamo in provincia di Arezzo). 

Dalla tradizionale location del Poggiolino, la terrazza sulle mura di Anghiari, Tovaglia a quadri si è trasferita però quest’anno a Sorci. Spinta dai protocolli antipandemici, ma anche dalla possibilità di trarre ispirazione dalla storia del luogo, dal suo fantasma, dai suoi artisti.

Seguendo il filo delle storie a Sorci

È nata così Filocrazìa, uno spettacolo che – suggerisce il titolo – perde e ritrova il filo di tanti eventi che dal Quattrocento (con l’assassinio di Baldaccio, il fantasma del posto), alla seconda guerra mondiale (quando il castello ospitò gli sfollati e un soldato alleato venne paracadutato qui sopra), fino all’oggi se non al domani (in autunno in questi Comuni si andrà al voto per le amministrative), tengono la matassa della storia locale e dell’immaginario collettivo.

Tovaglia a quadri 2021 - Castello di Sorci (Anghiari)
(ph Giovanni Santi)

Di cui gli attori di Tovaglia a quadri sono i più esatti rappresentanti. Sono loro a imbastire, con la colorita parlata di qua e con il canto, le vicende. Episodi che si rincorrono da finestra in finestra, attorno a un pozzo abitato da mostri, tra i lunghi tavoloni e dietro ai portoni dell’edificio.

Dai quali usciranno a tempo debito e istruiti da una locandiera (che in Toscana viene chiamata fattoressa ed è interpretata da Monica Bauco), schiere di giovani “valletti” pronti a servire in piatto, sulle tovaglie a quadri bianchi e rosa, le quattro portate canoniche: crostini neri e rossi, brìngoli al sugo finto, stracotto di vitello al Chianti (con l’alternativa vegetariana del tortino di verdura) e cantucci da inzuppare nel vinsanto. Tutto buono. Tutto territorio.

Acchiappare il filo

Così si lascia il posto a notte inoltrata, soddisfatti del cibo e dei racconti, mentre le stelle cominciano a cadere. Filocrazìa, io l’ho sperimenta infatti il 10 di agosto, data fatidica. Ma gli ospiti illustri non mancano: due giorni fa, incuriosito e affamato, è arrivato qui perfino Ralph Fiennes. C’è ancora un po’ di tempo, fino a giovedì 19, per acchiappare quel filo e scoprire dove porta.

Tovaglia a quadri 2021 - Castello di Sorci (Anghiari)
(ph Giovanni Santi)

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Filocrazìa
una storia di Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini gli con appunti musicali di Mario Guiducci e la gente del Castello:
Monica Bauco, Federica Botta, Stefania Bolletti, Paola Scolari, Sonia Cherici, Maris Zanchi, Fabrizio Mariotti, Sergio Fiorini, Mario Guiducci, Cristian Materazzi, Rossano Ghignoni, Pierluigi Domini, Andrea Finzi, Gabriele Meoni, Gino Quieti, Miranda Neri

al Castello di Sorci, dal 10 al 19 di agosto
(prenotazioni e biglietti on line sul sito della manifestazione)

Dove è veramente nato Giorgio Strehler? Un interrogativo senza documenti

Sarebbero stati cento, oggi 14 agosto, i compleanni di Giorgio Strehler. Si concentra così attorno a questa data una rete di pubblicazioni, iniziative, articoli, libri, trasmissioni, proposte, che riflettono sul ruolo che Strehler artista, intellettuale e regista, ha avuto nella storia del ‘900 italiano e europeo. 

Trieste, la città in cui era nato, nel 1921, ha un posto particolare in questa antologia di rievocazioni. Qui, nel cimitero di Sant’Anna, nella tomba di famiglia, sono oggi collocate le sue ceneri.

Sul quotidiano di Trieste, Il Piccolo, è apparso oggi questo mio articolo, che indaga attorno a uno dei piccoli punti di domanda che – nonostante la mole di notizie e di studi sulla sua vita e sui suoi spettacoli – restano fortunatamente tali.

Giorgio Strehler - 1926
Nel 1926 Giorgio Strehler ha cinque anni

Una casa confusa tra gli alberi, a Bàrcola

“La vedi? Proprio davanti al campanile. È la casa dove è nato Giorgio”. Vagamente, con le dita lunghe e ossute, il critico teatrale del quotidiano di Trieste, Giorgio Polacco, indicava dal finestrino del treno un edificio, confuso tra gli alberi, non molto distante dal giardino di Bàrcola. Lo faceva con chiunque, ogni volta che il convoglio, partito dalla Stazione Centrale, arrivava a costeggiare il rione riviera della città.

In quella casa confusa tra gli alberi, cent’anni fa, il 14 agosto del 1921, doveva essere venuto al mondo Giorgio Strehler.

Triestini entrambi, i due Giorgio erano accomunati dal dialetto, dal teatro, da una prolungata collaborazione. E naturalmente erano amici. Figli della diaspora che per tutto il Novecento ha spinto all’emigrazione molte della teste migliori di questa città. Con Milano e Roma tra gli approdi preferiti.

Giorgio il regista – quello di cui oggi si parla e con il quale si celebra un impossibile compleanno – aveva lasciato Trieste quando aveva sette anni, nel dicembre del 1928, destinazione Milano: la sua seconda città, la sua seconda pelle. 

Alla stazione di Trieste

Alla stazione chissà, mano nella mano, mamma Albertina e il piccolo Strehler avevano preso posto sul treno. Pochi minuti dopo la partenza, passando proprio in quel punto, il bambino aveva salutato, forse, l’edificio in cui gli era stato detto di essere nato.

Perché la casa in cui aveva passato l’infanzia non era certo quella. Albertina Lovrich, violinista, e Bruno Strehler, imprenditore nel settore della carta, erano convolati a nozze nel gennaio del 1920, e abitavano in un palazzo del centro di Trieste, in via San Lazzaro 4. Dalle finestre del loro appartamento si vedeva il Corso. “Una casa piena di donne e di musica: madre, nonna, cameriere e governanti… mi addormentavo sentendo in una stanza vicina mia madre che suonava il violino“.

Un’infanzia da idillio, nelle parole del regista. In realtà, il destino non era stato generoso con quella famiglia. A 28 anni – quando il piccolo Strehler ne aveva soli tre – Bruno Strehler era morto di tifo. Fulminato dalla malattia, durante un breve soggiorno con Albertina a Vienna. “Lei fece il viaggio di ritorno in treno, da sola, tutta vestita di nero, tenendo sulle ginocchia una cassetta con le ceneri del marito“.

Pochi anni più tardi, nel 1928 – quando Giorgio stava per compierne sette – era scomparso anche Olimpio Lovrich, padre e nonno, originario di Zara, impresario teatrale, uno che era riuscito a dare la svolta ai cartelloni musicali del Teatro municipale Verdi, e a lanciare il Cinema Teatro Fenice. 

Destinazione Milano

Per madre e figlio, ormai orfani, non c’era ragione di rimanere a Trieste. Tanto più in quegli anni, con un cognome di origine slava, Lovrich. Così avevano preso il treno. Lei con il suo violino e le promesse di una carriera da concertista (si farà chiamare Albertina Ferrari, suonerà con il Trio di Milano). Il piccolo Giorgio con la curiosità di conoscere una nuova città, che lo avrebbe trasformato, reso adulto, e che lui, viceversa, trasformerà culturalmente. La Milano del Piccolo Teatro di Milano.  Ma tutto questo accadrà dopo la guerra. 

Giorgio Strehler

Torniamo invece a quella casa tra gli alberi. Perché mai, cent’anni fa, il neonato Strehler vede la luce a pochi passi dal mare, a Barcola, e non nell’elegante e borghese edificio di via San Lazzaro?

È un bel quesito. Ci abbiamo riflettuto, qualche tempo, fa, nel 2007, quando per conto del Comune di Trieste e sotto l’egida del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, io, Franca Tissi, archivista, e Stefano Bianchi, conservatore, preparavamo la mostra che assieme a una pubblicazione e altri eventi, avrebbe celebrato il decennale della morte del regista, avvenuta nella notte di Natale del 1997.

I documenti

In tante interviste e dichiarazioni Strehler aveva sempre sostenuto di essere nato a Bàrcola. Ma non c’è alcun documento a comprovarlo. L’atto battesimale, nella chiesa di Sant’Antonio, conferma anzi che i genitori risiedevano in via San Lazzaro.

Però, tra le carte del Fondo Giorgio Strehler, ospitato nel Museo Schmidl e frutto della donazione congiunta di Andrea Jonasson e Mara Bugni, ci sono due fotografie. Mostrano un decoroso edificio, con gli alberi e le ombre di una giornata d’inverno. Sul retro, scritto a mano, “Villa Maria, Barcola”.

Villa Maria - civico 76 di Barcola Riviera  - Trieste
Villa Maria, Barcola

Se interrogati a dovere, la toponomastica e i documenti catastali rispondono. Si trattava del civico 76 di Barcola Riviera, di proprietà di Natalia Jasbitz, la mamma di Bruno, la nonna paterna, di origine slovena. 

Sarà vero che Giorgio Strehler era nato proprio là, nei pressi del mare? Sarà stata Albertina ad aver deciso di partorire in casa della suocera? Sarà stato più comodo, per la puerpera, il basso edificio di Barcola e non i piani alti di via San Lazzaro?

Oppure era proprio Strehler, nella propria ricostruzione biografica, a “voler” essere nato a Bàrcola? Con i riflessi delle onde e la luce del sole al tramonto. Proprio come in alcuni dei suoi spettacoli.

Sotto il segno del Leone

Né il nostro libro, pubblicato in occasione della mostra (Strehler privato. Carattere affetti passioni, Comune di Trieste 2007) né il recente studio biografico di Cristina Battocletti (Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste, La Nave di Teseo, 2021), avanzano una risposta. 

Con maggior determinazione, lo farà invece il Comune di Trieste che tra qualche settimana, apporrà una targa commemorativa su quell’edificio – al 76 di Barcola Riviera – che oggi corrisponde a un numero civico di via Moncolano. Iniziative, convegni, mostre, eventi, verranno dopo.

Del resto, lo sapeva bene Strehler stesso: non devi aspettarti molto per il tuo compleanno, se sei nato il 14 agosto. Il tuo segno è il Leone, ma la gente, quel giorno, vive il pieno dell’estate, è in vacanza, pensa a altro.

Anche le celebrazioni del centenario prenderanno perciò il via più in là. Probabilmente quando farà meno caldo.

[pubblicato sull’edizione del 14 agosto 2021 del quotidiano IL PICCOLO]

Terreni creativi. Un teatro che cresce tra gli aromi ed è attento al clima

In faccia al mar Ligure, sulla riviera di Ponente, ci sono terreni dove si coltiva creatività. Qui nascono e mettono le prime radici le piantine di basilico, di menta, di maggiorana, quelle che acquisti nei santuari della grande distribuzione: Lidl, Esselunga, Coop Consumatori…  Ma qui si sviluppano anche le foglie di un teatro recente, vitale, che cresce, ramifica, fruttifica. Velocemente. Non te ne accorgi quasi.

Terreni Creativi - Albenga - Serre

Una brezza di odori

Francesca Sarteanesi, sola, sulla pedana, massacra di parole Sergio. Potrebbe essere suo marito, nella finzione di un monologo che aspira a essere un dialogo, ma si scontra con il mutismo dell’uomo. 

Nel frattempo, ti arriva a tratti nel naso, di soppiatto, una brezza di menta, di basilico, di chissà quali piante aromatiche, quelle che in cucina si chiamano odori. Di lato, a sinistra e a destra, a perdita d’occhio, si stende una prateria di piccoli vasi: pelargonium, citrus, pentas…

Sergio (che è anche il titolo) resta irrimediabilmente muto. Ma lei, Sarteanesi, lo incalza con il suo accento toscano forte. Come forte è il temperamento di questa donnina loquace, petulante, figurina sottile che si confonde adesso con il tramonto sui monti liguri, alle spalle di Albenga.

Francesca Sarteanesi - Sergio (ph Luca Dal Pia)
Francesca Sarteanesi – Sergio (ph Luca Dal Pia)

L’habitat dal vivo

Terreni creativi è un festival che in un decennio ha mantenuto un’identità precisa. Cosa che è capitata a pochi altri festival in Italia. Semmai, è successo il contrario: l’identità nativa si è andata disperdendo. Qui invece è specifica, territoriale. Qui ha trovato un suo habitat. Gli spettacoli vengono allestiti dentro le serre e i capannoni agricoli, dove il clima della Riviera fa maturare ortaggi, piante commestibili o decorative, fiori, primizie. 

Terreni Creativi - Albenga - Serre

È un mix di arti dal vivo – teatro, musica, danza – che incontra un comparto economico trainante del territorio – secondo solo al turismo – e con lui scambia un potenziale di crescita: il comun denominatore delle creazioni che, ogni anno ai primi di agosto, si alternano tra gli olivi e i limoni, grazie all’impianto organizzativo della compagnia di qua: Kronoteatro

Rodati da dodici edizioni, i Terreni Creativi di Albenga hanno visto germogliare e maturare in quelle serre, i gruppi della generazione Duemila, gli Omini, i Sotterraneo, i MenoVenti… e ne coltivano oggi altri più nuovi.

Oltre vetrate traslucide

In tre capitoli e in due diverse serre, la danza fluida di Daniele Ninarello e della sua compagnia Codeduomo, impagina un’idea di movimento, che via via matura, accordato alla musica, fondato sulla sintonia dei corpi, su moti individuali eppure partecipi di una stessa esperienza. Là, davanti alle vetrate traslucide, oltre cui si intuiscono i boschi dell’Appennino, si distende Pastorale, una rivoluzione di corpi celesti. Pastorale è anche il momento più bello di questa trilogia firmata Ninarello, una personale che prima recupera Kudoku del 2016 (il sax che conduce l’opera è quello Dan Kinzelman) e finisce con l’estendersi alle recenti improvvisazioni ermetiche di Nobody nobody nobody (It’s not ok to be ok).

Daniele Ninarello - Pastorale (ph  Luca Dal Pia)
Daniele Ninarello – Pastorale (ph Luca Dal Pia)

“Nasce da pratiche solitarie e meditative – dice il coreografo – pratiche mantriche sviluppate negli ultimi mesi di distanziamento”. Spiega una nota sul programma di sala, che si prevedono “scene di nudo”. Ma non è niente a cui il pubblico dei Terreni Creativi non sia abituato.

Oltre che sulle sedie, ovviamente distanziate, gli spettatori si accomodano su imballaggi di terriccio e substrati nutritivi. Così che sembra quasi di percepire, sotto il sedere, la crescita di future piante. Proprio come una scenografia specific può essere fatta soltanto di cartoni: il package che protegge i prodotti di orticultura. Cartoni come quelli che circondano Francesca Foscarini, coreografa e danzatrice, nella sua creazione Hit me!

Hit me, baby!

Foscarini è nata il 10 gennaio 1992. Trentanove compleanni fino ad oggi. Hit me! è costruita a partire da una playlist di canzoni strettamente legate a un dato biografico. “Ho scelto i pezzi al vertice delle classifiche nel giorno del mio compleanno – dice – dalla nascita a oggi”. Lei stessa ha poi chiesto alla sua dj, Chiara Bortoli, di mettere sul piatto, ad ogni replica, una ventina di queste canzoni. Scelte a caso, random, a seconda di come gira: il tempo, l’ambiente, la fatica, gli spettatori.

Così, di colpo, la musica si rovescia su Francesca e lei “senza aver previsto un disegno coreografico” ne viene investita: “canzoni che mi ritrovo addosso, maratona di una vita in cui buttarmi a capofitto in un’improvvisazione sempre diversa”. Ora sono Paul McCartney e Michael Jackson, ora è Whitney Huston. Ora Eminem, ora Adele. Una playlist imprevedibile, e una danza in rapporto con il caso. O piuttosto, con l’atmosfera del luogo.

Francesca Foscarini - Hit Me! (ph Luca Dal Pia)
Francesca Foscarini – Hit Me! (ph Luca Dal Pia)

In alcune mie riflessioni, ho provato a chiamare post-coreografiche, le creazioni come Hit me!, che oltre a performance sono prima di tutto concept. Conta il progetto, più che il risultato. Il quale invece è casuale, estemporaneo, disperso. Volatile insomma. All’opposto della precisione e del rigore di spazio e di tempo che sono valori fondanti della coreografia. Della maggior parte delle coreografie, almeno.

Dissodare la terra, spostare i confini

Mi pare una cosa bella che Hit me! trovi posto qui, nelle serre, poco dopo che Oliviero Ponte di Pino ha presentato il suo nuovo libro, Un teatro per il XXI secolo (FrancoAngeli Editore) nel quale si occupa di crescite e trasformazioni (non solo teatrali) avvenute in questi ultimi due decenni. Durante i quali molte fughe in avanti (non solo in risposta alla pandemia) hanno dissodato il terreno dello spettacolo dal vivo, ne hanno spostato i confini, divelto i recinti, incrociato le tendenze. In luoghi spesso eccentrici, come questi Terreni creativi, qui ai margini occidentali dell’Italia. 

Oliviero Ponte di Pino - Un teatro per il XXI secolo - FrancoAngeli Editore

Infatti, mentre con attenzione ascolto Alessandro Berti, continuo a chiedermi sotto quale etichetta potremmo classificare il suo progetto, White lies, bugie bianche. La trilogia che propone si apre con Black Dick. È una lezione di storia e fenomenologia del razzismo? Una Ted Conference di citazioni e dimostrazioni? Magari un concerto, nel quale Berti canta e suona la chitarra. Molto bene, peraltro. 

Uomo nero, donna bianca

Con un titolo che fa un po’ impressione (devo proprio tradurre?), però è pertinente, Black Dick analizza il ruolo della sessualità nera nella percezione del maschio bianco. E si avventura in un’escursione tra gli stereotipi del porno, in particolare quello interracial. Uomo nero sopra donna bianca in un amplesso, il più delle volte violento, in cui vittima e carnefice non sono mai quello che sembrano. Ma incarnano fantasmi e proiezioni di una storia Wasp (White Anglo Saxon Protestant) che oggi ambirebbe a essere politicamente corretta – no nigger, sì black – ma appena sotto la superficie mostra le antiche pulsioni razziali. Non solo in America, naturalmente. “Parlo dell’America, per alludere all’Italia”. 

Alessandro Berti - Black Dick (ph Luca Dal Pia)
Alessandro Berti – Black Dick (ph Luca Dal Pia)

In questo modo Berti (che in tempi assai meno sospetti aveva fondato, assieme a Michela Lucenti, il gruppo L’Impasto) impasta anche la sua trilogia di bugie bianche, e dalle parole scivola nel cinema e nella musica. In un nuovo genere transgender. Ed è bello risentire Strange Fruit di Billie Holiday, capolavoro di denuncia black, cantato da lui. 

Freddure per display

Alla stessa maniera, trovatemi voi una definizione per la creazione dei Quotidiana.com (End to end, si intitola). In pratica, è una conversazione su Whatsapp.

I due display si parlano e affastellano frasine e iconine, nel solito stile flemmatico del duo Scappin-Vannoni. Scritture d’intimità, ipocondrie, freddure piovono a raffica, mentre i messaggi vocali ci fanno sentire ogni tanto le voci di Romeo Castellucci, Luca Ronconi, Renato Palazzi.

Non si capisce perché, e a chi siano dirette, ma intanto il perimetro del teatro rappresentato viene scavalcato, e il tu per tu di Whatsapp diventa, più che messaggistica, una piattaforma espressiva, obliqua. Con quali risultati, è ancora da capire.

Tiresia, il primo dei non-binary

Spariscono però le etichette di genere. E sparisce anche il genere, se il momento più intenso nelle quattro giornate di questa edizione 2021 di Terreni Creativi, lo si tocca con la poesia-teatro di Kate/Kae Tempest, poet* e performer non-binary, incoronat* quest’anno con il Leone d’argento della Biennale di Venezia. Non a caso, in Hold on you own /Resta te stess* (2014), Tempest aveva imbastito un ritratto di Tiresia, veggente androgino della mitologia greca, maschio e femmina, giovane e vecchio. 

Gabriele Portoghese in Tiresias di Kae Tempest (ph Luca Dal Pia)
Gabriele Portoghese in Tiresias di Kae Tempest (ph Luca Dal Pia)

Ora grazie alla regia di Giorgina Pi, Tiresias svela per chi non le conoscesse le doti eccellentissime e fluide di Gabriele Portoghese, a suo agio già con la parola poetica di Pasolini (Questo è il tempo in cui attendo la grazia, diretto da Fabio Condemi). Ma qui investito dalla sostanza attuale, energetica, colloquiale della spoken word poetry di Tempest, che trova naturalmente posto in questi Terreni. Che ogni sera, dopo la cena sui lunghi banconi, chiudono con una band, e qualche chupito.

Ambienti di crescita, orti protetti, dove i linguaggi dell’oggi e lo spettacolo contemporaneo agiscono da fertilizzanti. Compost naturali che Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco e Alex Nesti – le firme di Kronoteatro dietro a questo festival – si impegnano anno dopo anno, non senza difficoltà, a spargere. Come coltivatori 3.0, che sanno che cos’è il crowfunding. Come new farmers che, oltre ai prodotti, hanno a cuore il benessere, l’ambiente, il clima della cultura e delle colture. Quello del nostro presente, in cui cultura – ripete Ponte di Pino – è fabbrica di immaginario e attivatrice di desideri.

Terreni Creativi -  Albenga - Serre
Le tavolate pronte per la cena di Terreni Creativi (ph Nicolò Puppo)