Visavì Gorizia. Sul confine invisibile, per costruire il 2025

Si conclude oggi a Gorizia e Nova Gorica – tra Italia e Slovenia – la seconda edizione di Visavì, il festival di danza contemporanea che ha dato il via ai progetti transfrontalieri destinati a culminare quando le due città, insieme, tra quattro anni, saranno Capitale Europea della Cultura 2025.

Festival di danza Visavì 2021 - Gorizia - Nova Gorica

Quattro anni sembrano molti. Ma il tempo corre veloce. E già c’è chi si rimbocca le maniche guardando verso il traguardo del 2025. Quando la città divisa di Gorizia-Nova Gorica, sarà nuovamente unita come Capitale Europea della Cultura.

Nella roadmap culturale che porterà a quella data, lo spettacolo dal vivo avrà un ruolo importante. Una prima tappa è già Visavì, festival di danza contemporanea nato lo scorso anno da un’intuizione carica di futuro di Artisti.Associati e del suo direttore Walter Mramor.

Quest’anno, da giovedì 28 ottobre e fino a oggi, un pullman ha fatto la spola tra il Teatro Verdi di Gorizia e lo Slovensko Narodno Gledališče, il teatro nazionale sloveno di Nova Gorica.

Un traghetto su gomma, che portava dall’una all’altra parte di un confine oggi quasi invisibile, quel pubblico internazionale venuto qui per anteprime, debutti, progetti di coreografia – 14 eventi in tutto – che dimostrano quanto Visavì, nato idealmente come spin-off della piattaforma di danza NID 2017 (vedi qui), stia crescendo.

E sia pronto a manifestare il suo potenziale pieno, tra quattro anni, quando saranno eventi culturali e spettacoli a rinsaldare una delle frontiere più tormentate dello scorso secolo.

Il valico di frontiera di Gorizia Casa Rossa in una cartolina del 1953

Breve riassunto di storia locale

1918. Gorizia e la sua provincia, fino a allora territorio dell’Impero austroungarico, entrano a far parte del Regno d’Italia. La Nizza dell’Impero – così la definiva nell’800 Carl von Czoernig, promotore turistico ante litteram – diventa territorio italiano di frontiera.

1947. Gli esiti della seconda guerra mondiale tracciano un confine tra Italia e Jugoslavia che incide la città come un bisturi, la separa dalla sua provincia, spezza in due perfino un piccolo cimitero, affidando metà delle anime alla sovranità di Roma e metà a quella di Belgrado. Comincia il gelo della guerra fredda.

2004. L’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea ripristina il legame tra il centro storico della città italiana e i suoi sobborghi, cresciuti intanto oltreconfine. La piazza della stazione ferroviaria Transalpina, liberata da muri e reti, finalmente attraversabile da Est a Ovest, da Ovest a Est, diventa il simbolo di una Europa permeabile per i suoi cittadini.

2025. Individuate come Capitale della Cultura tra molte agguerrite concorrenti, Gorizia e Nova Gorica, saranno di fatto una città unificata. 

Go! 2025
La piastra che ricorda il posizionamento della frontiera Italia – Jugoslavia

Antichi valichi, nuove reti

Certo, tra 2020 e 2021 ci si è messa talvolta la pandemia, a innalzare tra Stato e Stato nuovi posti di blocco, nuove reti. Ma nei giorni scorsi, quelli di Visavì, il pullman degli artisti e del pubblico transitava spedito, oltre gli antichi valichi di frontiera. Ed erano in pochi a intuire quando si era effettivamente dall’altra parte. Perché nel 2025, nel nome di questa comune cultura non ci sarà un’altra parte.

I sindaci di Gorizia e Nova Gorica protestano
Il sindaco di Gorizia e quello di Nova Gorica, manifestano la loro contrarietà alla rete che durante il lockdown impediva l’attraversamento di Piazza della Transalpina – Trg Evrope

E anche perché gli artisti – coreografi e danzatori, in questo caso – sono naturalmente borderless. Una creazione come quella del coreografo Roberto Castello – che a Visavì ha presentato in anteprima Inferno – sarà tra pochi giorni a Roma nel calendario del festival RomaEuropa, e immediatamente dopo al Centre Dramatique de Montpellier in Francia, per proseguire poi nelle città dei tanti co-produttori: dalla Loira a Genova alla Toscana al Piemonte.

Inferno – coreografia Roberto Castello (ph. Giovanni Chiarot)

Ma che razza d’Inferno?

Non quello di Dante, certamente. Che per noia, dopo l’abbuffata 2021, Roberto Castello mette in un angolo, preferendogli semmai un’idea di Commedia. Questa sì con inizio lugubre e finale gioioso. Anzi brillante, spiritoso, come può essere una comedy oggi, tra proiezioni di spassosa grafica 3d e party tra amici, dove si balla, si scherza, si fanno le ore piccole.

Tutti un po’ bevuti, tutti un po’ eccitati. Carichi di quella energia che il pulse musicale creato Marco Zanotti e Andrea Taravelli con il Fender Rhodes (tranquilli, è un piano elettrico) di Paolo Pee Wee, trasmette instancabile a chi si muove in palcoscenico, e anche a chi sta seduto in platea, scalpitando.

Visavì 2021- Inferno- Roberto Castello
Inferno – coreografia Roberto Castello (ph. Giovanni Chiarot)

È chiaro che il vecchio concetto di coreografia, così come quello di bello stile, qui si perdono. Ma è lo spirito dei tempi che sempre più si sposta sul post-coreografico e lascia spazio a dinamiche nuove di movimento, meno estetizzanti, più vive, più pulsanti.

Mi è piaciuto molto, insomma, il lavoro di Roberto Castello, il quale, negli anni ’80, certo più giovane dell’attuale sessantina, è stato tra i padri fondatori della nuova danza italiana, con Sosta Palmizi. Mi ha messo in sintonia con il palcoscenico.

Ipnotico

Così come mi ha ipnotizzato la ricerca che un gruppo giovane oggi, il collettivo M.I. N.E., ha preparato per il varo della compagnia e intitolato appunto Esercizi per un manifesto poetico. Ostinata e sequenziale, frutto di una serie di Residenze e rigorosa come un allenamento sulle possibilità del corpo, l’architettura degli Esercizi poggia su un’azione sola, spavalda, saltellante, che si ripete all’infinto per strizzare l’occhio alla danza di durata. Fenomeno che, ancora una volta, rappresenta il superamento del coreografare del ‘900, tante volte concentrato sullo sviluppo di una drammaturgia dei gesti.

Qui sono invece le dieci gambe del collettivo a lavorare di sincrono, sullo stesso pattern, variandolo. Come nella musica minimalista. O come sui campi di calcio.

Visavì 2021 -Esercizi per un manifesto poetico - Collettivo M.I.N.E.
Esercizi per un manifesto poetico – Collettivo M.I.N.E. (ph. Giovanni Chiarot)

Danzare l’arte

A prefigurare il futuro, che sarà fatto di ibridazioni, c’è anche l’interesse e la cura che da parecchi anni Marta Bevilacqua, con la sua compagnia di danza Arearea, rivolge all’arte.

L’arte figurativa di quadri e statue, che abituate alla quiete di un museo si trovano improvvisamente accanto una, due, tre danzatrici. Le quali, con quel ritratto, quel paesaggio, quel busto, avviano un dialogo e lo assorbono nel movimento.

Visavì Meets Art - Anna Savanelli
Visavì Meets Art – Anna Savanelli (ph. Giovanni Chiarot)

Oggetto dell’attenzione della coreografa questa volta era Palazzo Attemps-Petzenstein, pinacoteca goriziana ricca di suggestioni per Bevilacqua, che assieme a Valentina Saggin e Anna Savanelli, ha fatto da guida danzante a visitatori- spettatori. 

Visavì Meets Art - Marta Bevilacqua
Visavì Meets Art – Marta Bevilacqua (ph. Giovanni Chiarot)

Visavì, quattrordici eventi, dicevo

Impossibile ripercorrerli tutti. Anche perché l’atteso Soul Chain dell’israeliana Sharon Eyal è stato bloccato su qualche frontiera dai tamponi positivi Covid. Anche perché i formati brevi (ne sono stati presentati alcuni, tra cui un chiaroscurale Tripofobia di Pablo Girolami e Giacomo Todeschi), devono per definizione crescere ancora. O semplicemente perché altri interessanti titoli mica sono riuscito ad acchiapparli.

Ma mi capiterà facilmente di incrociarli, visto che nel sistema dello spettacolo dal vivo in Italia il peso specifico della danza cresce esponenzialmente. E nelle programmazioni di festival, stagioni, rassegne, cartelloni sempre più spesso… entra in ballo.


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INFERNO
coreografia, regia, progetto video Roberto Castello
danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino, Riccardo De Simone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri, Ilenia Romano
musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli
fender rhodes Paolo Pee Wee Durante
luci Leonardo Badalassi
costumi Desirée Costanzo
una coproduzione ALDES, CCN de Nantes nel quadro di ‘accueil-studio’, sostenuto da Ministère de la Culture / DRAC des pays de la Loire, Romaeuropa Festival, Théâtre des 13 vents CDN, Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE

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ESERCIZI PER UN MANIFESTO POETICO
con Francesco Saverio Cavaliere, Fabio Novembrini, Siro Guglielmi, Roberta Racis, Silvia Sisto
musica Samuele Cestola 
una produzione Fondazione Fabbrica Europa per le Arti Contemporanee
Progetto selezionato per ARTEFICI 2019 Residenze Creative FVG/Artisti Associati Gorizia; vincitore di DNAppunti Coreografici 2019 sostenuto da Centro Nazionale di produzione Firenze – Compagnia Virgilio Sieni, Operaestate Festival/CSC Centro per la scena contemporanea del Comune di Bassano del Grappa, L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale Centro di Residenza Emilia Romagna, Fondazione Romaeuropa, Gender Bender Festival di Bologna e Triennale Milano Teatro; selezionato per NID platform 2021

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VISAVI’ MEETS ART
con Marta Bevilacqua, Valentina Saggin, Anna Savanelli
produzione Compagnia Arearea 
con il sostegno di MiC, Regione FVG
in collaborazione con ERPAC FVG

Brancaleone dà di testa. Ed è un’attrice

“Age, Scarpelli e Monicelli hanno inventato un’immaginazione” dice Roberto Latini, che per il Teatro Metastasio di Prato ha lavorato sulla sceneggiatura di L’armata Brancaleone.

L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini - Teatro Metastasio di Prato
L’armata Brancaleone, regia di Roberto Latini (ph. Guido Mencari)

Anche il cinema ha i suoi classici, così come la letteratura. Per quanto i film siano molto più giovani, relativamente parlando. Uscito nelle sale nel 1966, L’armata Brancaleone – regia di Mario Monicelli, sceneggiatura dello stesso regista assieme a Age e Scarpelli – è un classico del cinema italiano.

È anche un film pop. Monicelli seppe pensarlo quando in Italia la parola pop non esisteva ancora. E seppe inventare per Vittorio Gassman un personaggio, mezzo samurai mezzo capitano di ventura, che ne fa ancora, 50 anni dopo, una delle icone durature del cinema italiano. Assieme al famoso jingle Branca branca branca, leon leon leon… Con botto finale.

L’Armata Brancaleone (1966)

L’armata Brancaleone è pop, cioè popolare, per la sua lingua sbracata (una irresistibile parlata centro-italiana, burina, ciociara e aulica con un surplus maccheronico). È popolare per il tempo e il luogo in cui è ambientato (quello delle Crociate, ma lungo la dorsale appenninica della nostra penisola). È popolare perché in un medioevo immaginario riprende i temi e i modi della commedia all’italiana, quella appena appena scollata, appena appena sboccata, di cui Monicelli fu maestro. Anche se Catherine Spaak, allora poco più ventenne, ricorda bene le pesantezze verbali subite sul set da quella ciurma di maschi imbruttiti a zonzo per il Viterbese.

Questo e molto altro si è detto di quel film.

Una scena disegnata dalle luci

Una sfida alta, per Roberto Latini, dare lo stesso titolo a un’operazione teatrale, riprenderne la sceneggiatura, e affidarla a sette attori, oltre a lui, su una scena astratta, quasi tutta disegnata dalla luci di Max Mugnai (e dai pochi inserti di Luca Baldini).

Elena Bucci in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Elena Bucci è Brancaleone da Norcia (ph. Guido Mencari)

È facile, per qualsiasi spettatore, ma altrettanto inutile per chi ne scrive, cadere nel tranello di un confronto – del resto impossibile – tra la pellicola di Monicelli e il teatro di Latini. 

Le due operazioni corrono su strade diverse, e soprattuto parlano a pubblici diversi. Un’Italia in pieno boom, pronta per nuovi stili di vita e un inaspettato benessere, un pubblico interclassista per il film di Monicelli, nazionalpopolare.

Spettatori selezionati invece, nel caso di Latini, capaci di intuire tutti i perché delle scelte che fanno di questo Brancaleone una variazione su tema, un esercizio di stile fedele alla sceneggiatura, ma di pura invenzione mentale, nei modi in cui il regista ha abituato il suo pubblico, lavorando ad esempio sui Sei personaggi di Pirandello (e molto bene in quel caso) o su Il teatro comico di Goldoni.

Elena Bucci in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Elena Bucci (ph. Guido Mencari)

Brancaleone da Norcia è un’attrice

Non è insomma l’Armata che spettatori e abbonati di un teatro pubblico come il Metastasio di Prato (che apre la stagione con questa nuova produzione) possono aspettarsi dopo aver visto in locandina quel titolo. Non è un nuovo rutilante Gassman che calca la scena con i suoi compagni sgangherati e cialtroni, ma la cerebrale rilettura che ne fa Latini, consegnando il personaggio a Elena Bucci. In modi astratti, l’attrice cita Gassman, ne riprende la zazzerona nera, la magniloquenza gestuale, il fare da Rodomonte, ma con il proprio corpo e la propria storia attorale. 

Elena Bucci in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Elena Bucci (ph. Guido Mencari)

Qualcosa di simile aveva fatto Latini, citando con il proprio corpo, l’Arlecchino archetipico di Marcello Moretti e Strehler, nel Servitore di due padroni, firmato anni fa da Latella. Che infatti scontava lo stesso problema. Sorvolare l’aspettativa del pubblico di tre teatri (i nazionali Veneto e Emilia Romagna, assieme allo steso Metastasio), che si attendeva un arlecchino comico e brillante. Come andare a sentire Glenn Gould nelle Variazioni Goldberg, aspettandosi il Bach di Quark e della quarta corda.

Claudia Marsicano in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Claudia Marsicano in L’armata Brancaleone (ph. Guido Mencari)
Francesco Pennacchia in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Francesco Pennacchia in L’armata Brancaleone (ph. Guido Mencari)
Ciro Masella in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Ciro Masella in L’armata Brancaleone (ph. Guido Mencari)

Maneggiare i classici

Maneggiare i classici, è sempre rischioso, se non lo si vuole fare in maniera banale, piatta, convenzionale. Ed è anche un doppio salto mortale, poi, se dal cinema o dalla letteratura si passa al teatro.

A volte riesce, magari felicemente. Penso a come Deflorian – Tagliarini stanno trattando il felliniano Ginger e Fred, in Avremo ancora l’occasione di ballare assieme, proprio in questi giorni all’Argentina a Roma. Penso anche a come Martone ha teatralizzato le Operette morali di Leopardi.

E comunque, il motivetto tanto atteso alla fine arriva, anch’esso in forma di raffinata citazione.

Savino Paparella in L'armata Brancaleone - regia Roberto Latini
Savino Paparella in L’armata Brancaleone (ph. Guido Mencari)

È l’ultimo numero: un anziano signore (è lo stesso Latini con spiritosa bombetta in testa) attraversa a mezz’aria la scena. Dice sornione Branca branca branca, leon leon leon... e fragorosamente esplode il palloncino. 

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L’ARMATA BRANCALEONE 
adattamento teatrale di Roberto Latini
da un’opera di Mario Monicelli, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli
regia Roberto Latini

con Elena Bucci, Roberto Latini, Claudia Marsicano, Ciro Masella, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso, Marco Vergani

musica e suoni Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
costumi Chiara Lanzillotta
luci Max Mugnai
assistente alla regia Giorgia Cacciabue e Alessandro Porcu
produzione Teatro Metastasio di Prato, ERT – Teatro Nazionale
con il sostegno di Publiacqua

Marta Cuscunà Earthbound. Perché il futuro è dietro la porta

Earthbound è il titolo del nuovo spettacolo di Marta Cuscunà. Uno sguardo contemporaneo su ciò che sarà il pianeta tra duecento anni.

“Non credo che ci trasformeremo in automi” ha detto qualche giorno al Festival della Letteratura a Mantova, il filosofo Slavoj Žižek. Uno che ha parecchio sèguito e uno sguardo spesso rivolto al futuro.

Eppure, già dal titolo del suo più recente libro Hegel e il cervello postumano è chiaro che secondo lui – garantista umano a oltranza – in qualcosa d’altro ci trasformeremo. 

Earthbound - Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

In che cosa ci trasformeremo?

Magari in quelle strane creature, un po’ tricheco, un po’ pipistrello, che Marta Cuscunà immagina abitare il mondo nel 2425. Ce le presenta nel suo più recente lavoro teatrale Earthbound, lei, creatrice e performer che già nel 2018, in Il canto della caduta (vedi qui e anche qui) aveva tentato il salto nel tempo e gettato uno sguardo su una remota comunità che non sapeva che farsene della guerra. Millenni fa, naturalmente.

Cuscunà ora guarda avanti, molto avanti, e affascinata dalla fantascienza radicale di Donna Hataway, prova a immaginare, con i mezzi teatrali di adesso, quel che potrebbe essere l’orizzonte umano, post-umano, o trans-umano – lo scopriremo vivendo – di domani.

Però la fantascienza, anche la più avanzata, come questa creata da Haraway, eco-femminista statunitense, autrice del Manifesto Cyborg, non è una previsione di futuro. È invece – almeno a mio avviso – la capacità di leggere l’oggi da un punto di vista diverso da quello abituale e banale. Giornalistico, in definitiva.

Marta Cuscunà e un pupazzo - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Posizione 2425

Seguiamo dunque Cuscunà e teletrasportiamoci assieme a lei nel 2425. Che sarà un mondo fortemente inquinato e infetto (proprio come quello odierno). Che vedrà le intelligenze artificiali svolgere tutti i compiti di routine (come succede già oggi). Un mondo in cui l’homo sapiens si abituerà a convivere con altre creature che si saranno evolute grazie a salti di specie (e anche su questo oggi siamo abbastanza ben informati, e perfino vaccinati).

Il futuro insomma è dietro la porta. Anzi, è già entrato.

EarthBound. Legati al pianeta, dipendenti dalle tecnologie

Pure il vocabolario usato dalle future creature sembra quello contemporaneo. Parole come connessione, abilitazione, sincronizzazione, tornano spesso, a ricordarci che ieri, come oggi e come domani, siamo stati e saremo sempre dipendenti dalla tecnologia.

Molti millenni erano la fusione e la lavorazione dei metalli. Ci si sono poi messi la polvere da sparo, il motore a vapore, quello a scoppio, quello elettrico, e infine Steve Jobs e Bill Gates, ad asciugarci il sudore della fronte e a indirizzarci verso una vita sedentaria.

Quella che le future creature di Earthbound sembrano esercitare nel loro habitat, ora spiaggiate sopra uno scoglio, ora appese per le zampe a un ramo, oppure rannicchiate come una pianta cactacea nella propria comfort zone.

Earthbound. Abitanti di un’enorme sfera che gira

Nell’impianto scenografico che Paola Villani ha preparato per Earthbound c’è una enorme sfera abitata che gira. E lascia di volta in volta intravedere questi nuovi esseri – simbiogenetici scrive Haraway – cui le leggi del sovrapopolamento hanno ostacolato la riproduzione. Oppure dà visibilità a esseri decrepiti e fisicamente impotenti (in pratica, la nostra specie, oramai prossima all’estinzione). 

Earthbound - Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Di lato, Villani ha collocato un alberello stentato, per dire che la natura naturans comunque esiste ancora. E si potrebbe in qualche modo farla rifiorire, grazie alle tecnologie green, naturalmente.

A fare la spola tra la sfera e l’alberello c’è Marta Cuscunà, che si muove veloce e disinvolta su un monoruota (se non immaginate che cos’è, vedetevi questo link) e dà voce a una futura intelligenza artificiale. Non troppo diversa però dall’Alexa contemporanea di Amazon (vedi qui un mio post su di lei), anche nelle numerose e divertenti defaillance di cui è zeppa la vita degli/delle assistenti digitali di oggi.

Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Animatronica

Dovessimo usare parole difficili, diremo che la distopìa annunciata da Donna Haraway e portata in scena da Cuscunà, con pupazzi animatronici (cioè meccanismi rigorosamente mossi a mano) è un’immagine dello stato di equilibrio delle società odierne.

La contesa tra la spinta all’innovazione avventurosa e le sicurezze riposte nella tradizione. O con più semplici parole, l’inestinguibile battaglia tra progressisti e conservatori, tra gli integrati e gli apocalittici che Umberto Eco immaginava scontrarsi nella cultura di massa. E che oggi si è trasferita, nel mondo occidentale almeno, ai consumi di massa. Letali, come si sa, per la sopravvivenza del pianeta.

Gli aggeggi aninatronici di Earthbound - ph Guido Mencari
Gli aggeggi aninatronici di Earthbound – ph Guido Mencari

Su questo Haraway e l’antropologo francese Bruno Latour (da cui Cuscunà ha ripreso il titolo Earthbound) hanno parecchie cose da dire.

Gli spettatori più attenti sapranno coglierle e ci rifletteranno sopra. Io per esempio vi ho scorto la somiglianza tra intelligenze artificiali e immortalità dello spirito. Che è un pensiero parareligioso.

Altri, meno portati a sognare il futuro, potranno seguire la favola , ma senza entusiasmarsi troppo. Perché l’avvenire non è materia per tutti i palati.

Se vi interessa tuttavia sapere qualcosa di più su Haraway e sul suo romanzo, andate qui e buona lettura.

Oppure guardatevi questo video:

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EarthBound
ovvero le storie delle Camille

liberamente ispirato a Staying with the trouble di Donna Haraway
di e con Marta Cuscunà
scena Paola Villani
assistenza regista e scenografica Marco Rogante
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Etnorama
con il sostegno di São Luiz Teatro Municipal (Lisbona)
con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, i-Portunus, A Tarumba – Teatro de Marionetas (Lisbona)