Giorni felici. La spensieratezza secondo Beckett

Lo so. Ottimismo non è una parola che usereste parlando di Samuel Beckett, o dei suoi lavori. Non se ne trova proprio in opere celebri come Aspettando Godot, oppure Finale di partita. Eppure, sotto la scorza di quel catastrofismo, qualche sintomo di felicità si intuisce. Fin dal titolo.

Monica Demuru in Giorni Felici di Samuel Beckett (ph. Duccio Burberi)
Monica Demuru in Giorni felici (ph. Duccio Burberi)

Parlo di Giorni felici, è chiaro. Felici come quelli della signora Winnie. La quale, pur cementificata dentro un tumulo che diventerà la sua tomba, incurante di tutto, continua a ringraziare il buon Dio per ogni “divino” giorno che Lui manda in terra. E si spazzola i denti, e rovista nella borsetta, e si pettina, e canta spensierata. “Tace il labbro, t’amo dice il violin…”: le note di un’operetta allegra di Lehár.

È per questo che Winnie è diventata famosa

Famosi sono anche Vladimiro e Estragone, quei due tipi malandati e sempre in attesa di Godot. Famoso è anche il vecchio Krapp, decrepito e sommerso dai nastri delle sue registrazioni.

Ma Winnie è di tutt’altra pasta.

Delle catastrofi, Winnie se ne infischia. Conficcata nel terreno, incapace di muoversi, se non con le braccia, poi solo con la testa, Winnie non si piange addosso, non si intristisce per quel disastro esistenziale, continua a amare il suo consorte Willie, e fino alla fine – “cinquantenne, ben conservata, grassottella e preferibilmente bionda” – si ostina a intonare la sua aria: “Tace il labbro, t’amo dice il violin. le sue note dicon tutte m’hai da amar… “.

Felice. Spensierata. Fiduciosa. Così mi è parsa Winnie nell’interpretazione che ne dà Monica Demuru, guidata dalla regia di Massimiliano Civica, in una nuova edizione di Giorni felici, che ha preso il via qualche giorno fa dal Teatro Metastasio di Prato

Roberto Abbiati e Monica Demuru in Giorni Felici di Samuel Beckett (ph. Duccio Burberi)
Roberto Abbiati e Monica Demuru (ph Duccio Burberi)

Spensierata come una cinquantenne che si sia assicurata la pensione dell’Inps e si goda la nuova situazione. Fiduciosa e ben pettinata come la signora del brodo Star. Donne che si portano dietro solo una punta di malinconia per il passato. “Il vecchio stile” lo chiama Winnie. Il brodo di carne autentico, dico io.

I beneinfomati sostengono che proprio in ciò sta il tragico di Beckett, la sua depressiva ironia, il cosmico pessimismo. Nel fatto che Winnie non si renda conto della propria apocalisse e continui come se niente fosse a salutare ogni nuovo divino giorno, a parlare a Willie, a cantare. “Né peggio né meglio… nessun cambiamento…“.

Un po’ come noi, che siamo sull’orlo del baratro – dicono i beneinformati – e non ce ne accorgiamo.

Un briciolo di felicità per Winnie

Io invece dico che è più interessante, oggi, cercare dentro quel nero cupo beckettiano un sintomo, anche se piccolo, di letizia, un briciolo di felicità che non stia solo nel titolo. 

E quando la Winnie di Monica Demuru, con la sua lente d’ingrandimento, si ostina a leggere le minuscole lettere sullo spazzolino (“vera setola… animale”) e quando alla fine ci riesce, ecco, là per esempio, quel sintomo di felicità io lo trovo. E in tanti altri momenti.

Roberto Abbiati e Monica Demuru in Giorni Felici di Samuel Beckett (ph. Duccio Burberi)

Con buona pace di tutti quelli che prevedono l’apocalisse prossima ventura, bellica, economica, climatica.

E con buona pace, anche, di tanta Beckett Industry che in sessant’anni – da quando Giorni felici venne pubblicato – ha sfornato allestimenti sopra allestimenti, saggi accademici sopra saggi accademici, siti in rete dopo siti in rete, e biografie dopo biografie (ma quella di James Knowlson, quella fareste bene a leggerla, nonostante le 876 pagine).

Anche se, in fondo in fondo, direi che, celebrando i propri giorni felici, Demuru e Civica aggiungano solo un’altra variante a un lunga serie di allestimenti che altro non sono se non una galleria di eccellenze d’attrice. Dalla Winnie aurorale di Laura Adani – parlo delle edizioni italiane, e di quelle che ho visto – via via a Giulia Lazzarini (per Strehler), Eva Robbin’s (per Andrea Adriatico), Anna Marchesini, Adriana Asti (per Robert Wilson), Nicoletta Braschi (per Andrea Renzi) … aggiungendoci pure l’aristocratica Natasha Parry. Alle cui spalle (“nude”) stava sorniona la regia del consorte Peter Brook.

Adriana Asti in Giorni felici secondo Robert Wilson (ph. Luciano Romano)
Adriana Asti in Giorni felici secondo Robert Wilson (ph. Luciano Romano)

Giorni felici per i pupazzetti

Un’ultima cosa devo ancora confessare. A me non sembra che i migliori interpreti di Beckett siano attori o attrici in carne e ossa. 

Ma piuttosto pupazzi, pupazzetti, burattini, bambole, ombre, l’universo intero del teatro di figura. Che si presta assai meglio di noi umani (sempre troppo umani) a mantenere in forma quei capolavori del ‘900. E a dare loro una speranza di vita che vada anche oltre il secolo in cui sono nati. 

Un vero sgambetto al beckettismo consueto lo avevano fatto per esempio quelli del Teatrino Giullare: Giulia dall’Ongaro e Enrico Deotti. Anni fa avevano portato in scena Finale di partita, manovrando le pedine di una scacchiera. Nel 2020, in pieno lockdown, hanno inventato una Winnie bambolina, tutta in stop motion digitale, felice, pop e inconsapevole dell’epidemia che le gravava attorno. 

Ma questo – di come Beckett possa sopravvivere al beckettismo – è un altro discorso. 

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GIORNI FELICI
di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Roberto Abbiati e Monica Demuru
scene Roberto Abbiati
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
produzione Teatro Metastasio di Prato

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