Con la coda dell’occhio. Se Spregelburd mi avesse accompagnato a Mittelfest 

Con il concerto dei La Rappresentante di Lista, affiancati dell’Orchestra Arcangelo Corelli di Ravenna, si conclude oggi, domenica 31 luglio, l’edizione di Mittelfest 2022. Titolo e tema conduttore erano gli Imprevisti.

Mittelfest 2022  - Imprevisti
(ph Focus Agency)

Uno dei più interessanti teatristi della scena internazionale – l’argentino Rafael Spregelburd – mi aveva un giorno illustrato un suo personale punto di vista sulla realtà. Ma anche sul teatro. Lui la chiamava la teoria della coda dell’occhio.

Sosteneva Spregelburd (autore, attore, regista, teatrale e televisivo) che la vista è senza dubbio alcuno il nostro senso più importante. Fin qua nulla di nuovo.

Ma per lui, interessante non era solo quella porzione di realtà che l’occhio mette a fuoco, quel 8% del campo visivo su cui si concentra la nostra attenzione. Importante, anzi importantissimo diceva, è ciò che c’è intorno. La circostante realtà, quella che noi vediamo con la coda dell’occhio.

Volendo usare un’espressione un po’ più scientifica: la visione periferica. Il contesto più ampio dentro al quale si colloca la figura su cui ci concentriamo. Un campo largo che il nostro occhio percepisce in maniera indistinta. 

Non occorre aggiungere altro. Sappiamo bene che cosa vuol dire “aver visto con la coda dell’occhio”.

Ciò che ci tocca

Non so se fosse proprio un’idea di Spregelburd, o l’avesse tratta da qualche testo scientifico (sono una sua passione, quei testi). Io, per esempio, l’avevo incontrata in una pagina di Alan Bennett (lo scrittore inglese) che la attribuiva al suo connazionale E. M. Forster (altro gigante della letteratura, quello di Camera con vista): “Solo quel che vedi con la coda dell’occhio ti tocca nel profondo“.

Che ha a che fare con Mittelfest 2022, il festival che oggi si conclude a Cividale del Friuli? Non saprei dirlo in maniera preciso. Come ciò che si vede con la coda dell’occhio, la mia non è una sensazione distinta, messa precisamente a fuoco.

Ho seguito la manifestazione in tutti i giorni precedenti, e alla fine posso dire che, oltre aver guardato con attenzione i principali spettacoli in cartellone, oltre ad averne apprezzati alcuni di più e altri di meno, a colpirmi in maniera più profonda, a toccarmi con un impatto davvero forte, è stato ciò che rispetto al progetto principale del festival (che ruota attorno a spettacoli di musica, di teatro e di danza) pareva all’inizio più laterale, accessorio. Periferico appunto. 

Il privilegio del singolo

Si trattava dii appuntamenti che sarebbe difficile inserire nelle consuete classificazioni dello spettacolo dal vivo.

Mittelfest 2022  - Imprevisti -  Déjà Walk
(ph Luca A. d’Agostino Focus Agency)

Poteva essere un passeggiata urbana per singolo passeggiatore, guidato in cuffia (Déjà Walk, era un sovrapporsi di voci di cittadini che mi raccontavano la storia della città mentre la attraversavo). Potevano essere le Consultazioni poetiche (che prevedevano un momento di scambio individuale tra alcune performer e i loro “pazienti”, ai quali veniva alla fine consegnata una “prescrizione” artistica, poesia o canzone).

Potevano anche essere le onde e le perturbazioni sonore di Ops! (che in lingue diverse mi hanno accompagnato, sbucando dagli altoparlanti distribuiti in alcuni angoli del centro storico). Esperienze che si pongono tutte di lato, rispetto a teatro, danza, musica. Fuori fuoco. Creazioni che privilegiano il rapporto con il singolo. 

La mia nascita, la mia morte

A toccarmi nel profondo, davvero in profondo, è stata infine la proposta di Mats Staub, progettista svizzero, intitolata Death and Birth in my Life. Senza un intento spettacolare, in un ambiente raccolto del Museo Archeologico Nazionale di Cividale, Staub proponeva la visione e l’ascolto delle conversazioni (registrate) di coppie di persone che parlano del loro particolare, individualissimo, rapporto con la nascita e con la morte.

Due temi che letteratura, teatro, cinema hanno esplorato da sempre. Ma che con la viva esperienza di coloro che ne parlavano, lì davanti a me, seduto, come se fossi tra loro, arrivano a scatenare emozioni e commozioni fortissime. Le mie e quelle di chi era accanto a me. Perché potenti, potentissimi sono quei due momenti della vita, nascita e morte, parti, gestazioni, assenze, funerali, su cui non sempre ci capita di riflettere (perché di entrambi, in modo diverso, abbiamo timore e paura).

Mittelfest 2022  - Imprevisti - Death and Birth in my Life - Mats Staub
(ph Focus Agency)

Inizialmente, Death and Birth in my Life, mi era sembrato un appuntamento laterale del festival, un’esperienza accessoria, rispetto ai titoli a cui tenevo maggiormente. Stava nella mia coda dell’occhio. È stato invece l’evento che più mi ha investito, di questo Mittelfest 2022.

E mi è tornata in mente proprio quella frase di Bennett. O di Forster. “Solo quel che vedi con la coda dell’occhio ti tocca nel profondo“. Sono sicuro che anche Spregelburd, teorico della percezione periferica, sarebbe d’accordo con me e con loro.

[qui la locandina completa di Death and Birth in my Life (Mats Staub) a Mittelfest 2022]

[qui la locandina completa di Déjà Walk (aquasumARTE Visual and Perfotming Art) a Mittelfest 2022]

Il caso Handke: la luce, le ombre, la stupidità

The Handke Project è uno degli spettacoli in programma nelle giornate iniziali di Mittelfest (sabato 23 luglio ore 20.45). Il festival di Cividale del Friuli, giunto alla 31esima edizione, si è inaugurato oggi. Temi privilegiati della manifestazione (in programma fino al 31 luglio) sono teatro, musica, danza, figura, circo contemporanei, con artisti, compagnie e produzioni provenienti in particolare dal Centro-Europa e aree balcaniche.

The Handke Project - Jeton Neziraj - Mittelfest 2022

The Handke Project: il titolo potrebbe far pensare a un omaggio allo scrittore austriaco che nel quest’anno compirà 80 anni. I suoi romanzi, le sue poesie, il suo teatro, i suoi saggi. La sua letteratura, insomma.

Non è così. The Handke Project è un pamphlet teatrale – diretto, provocatorio, senza sconti – che di Peter Handke mette in luce il lato più discutibile e più negativo. Il negazionismo. Appunto.

Che cosa nega Handke? Che cosa sostiene?

Vi capitasse di digitare nome e cognome dello scrittore su Google, scoprireste che, nelle ricerche, la parola “negazionismo” è una molto spesso associata ad Handke. Che cosa nega Handke e che cosa sostiene?

Lo spiega, in maniera ruvidamente provocatoria proprio questo spettacolo, scritto dal drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj, interpretato da un cast internazionale e coprodotto da una cordata altrettanto internazionale di teatri, tra cui gli italiani Teatro della Pergola e Mittelfest.

The Handke Project ha debuttato a Pristina (Kosovo) nel mese di giugno, poi è stato replicato a Skopje (Macedonia) e a Belgrado (Serbia). Ora tocca a Mittelfest.

I fatti, per chi conosce la storia recente dei Balcani, sono abbastanza noti. Appena l’Accademia di Svezia ha comunicato nel 2019 di aver scelto proprio Handke come assegnatario del Premio per la Letteratura, da larga parte del mondo, soprattutto dai Balcani, si sono levate numerose voci di dissenso, se non durissime contestazioni.

The Handke Project - Mittelfest 2022
Arben Bajraktara in The Handke Project

Questo scrittore – si sono chiesti in molti – che ha pubblicamente dichiarato la propria stima a Slobodan Milosevic, che ha pronunciato un apologetico elogio al suo funerale, che pone dubbi sulle migliaia di morti del genocidio di Srebrenica, e in un famoso “racconto per l’inverno” chiede “giustizia per la Serbia”, può questo scrittore essere insignito del Premio Nobel?

Fiancheggiare l’orrore?

La comunità mondiale degli scrittori si è schierata subito. Uno per tutti, Salam Rushdie: “Handke è uno che ha fiancheggiato l’orrore“. “Rifiutiamo l’idea che un autore che ha ripetutamente messo in dubbio la realtà di crimini di guerra ben documentati meriti di poter essere celebrato per il suo ingegno letterario” ha poi scritto Jennifer Egan, presidentessa del Pen Club America, da sempre paladino della libertà d’espressione.

Peter Handke - Nobel 2022
Peter Handke il giorno della consegna del Nobel 2019

Handke ha fatto spallucce: “Io parlo solo da scrittore. Le mie non sono posizioni politiche, non sono un giornalista”. Caso chiuso, per lui. E anche per tutti gli handkisti che sostengono l’impermeabilità dell’arte e della letteratura a questioni di etica, di politica, e probabilmente anche di buon senso.

Il caso Handke pone dunque quesiti importanti: negazionismo vs libertà d’espressione, arte vs diritti umani. 

Allo spettacolo scritto da Neziraj ha dato una mano, in qualità di dramaturg, anche Biljana Srblianovic, la scrittrice e giornalista di Belgrado che, con i suoi diari di guerra, era stata osservatrice e corrispondente per Repubblica dalla capitale serba durante i mesi più duri della crisi balcanica, evocata poi in teatro in una molto rappresentata Trilogia.

“Giustizia per le stupidaggini”

Anche grazie a lei The Handke Project evita le pesantezze e la severità del dibattito estetico e morale, e in un’atmosfera pop, con un montaggio svelto e continui colpi di testa e di coda provoca attori e pubblico, chiede loro di prendere posizione. Il sottotitolo, sagacemente, insinua “giustizia per le stupidaggini di Peter“.

The Handke Project - Mittelfest 2022

“E’ un tipo di teatro abbastanza distante da quello che si vede qui in Italia – mi racconta Klaus Martini, attore italo-albanese, formato alla Accademia Nico Pepe di Udine e parte nel team che ha realizzato The Handke Project.

“Il riferimento è piuttosto alle scritture teatrali diffuse in Europa, in Germania, a Berlino – continua l’interprete di diversi personaggi dello spettacolo – nelle quali si interviene a gamba tesa su temi e questioni contemporanee. A quel tipo di drammaturgia guardano oggi i giovani artisti del Kosovo, pesantemente segnato alla fine degli anni ’90 dall’aggressione e dalla pulizia etnica del governo serbo nei confronti della maggioranza di lingua albanese”

“Qualche giorno fa – continua Martini – abbiamo presentato questo spettacolo a Belgrado, capitale serba dove Handke viene considerato un eroe nazionale e l’autonomia del Kosovo resta tuttora un problema. E abbiamo sentito sulla nostra pelle la freddezza, se non l’ostilità, del pubblico e della critica. Evidentemente, vent’anni non sono bastati a sciogliere i nodi che hanno causato la più importante crisi bellica della fine del ‘900″.

[Pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste, venerdì 22 luglio 2022]

Il programma completo di Mittelfest 2022 sul sito del Festival.

Nel 1994, sempre a Mittelfest, Giorgio Pressburger aveva allestito, in piazza, L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro di Peter Handke.

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THE HANDKE PROJECT
Or, justice for Peter’s stupidities

di Jeton Neziraj
regia Blerta Neziraj
dramaturg Biljana Srbljanovic
con Arben Bajraktaraj (FR), Adrian Morina (RKS), Ejla Bavćić (BiH). Klaus Martini (IT), Verona Koxha (RKS), Anja Drljevic (MNE)

collaboratrice artistica Alida Bremer
scenografia Marija Kalabic
composizioni Gabriele Marangoni
coreografia Gjergj Prevazi
costumi Blagoj Micevski
disegno luci Yann Perregaux
suono Leonardo Rubboli, Tempo Reale
co-produzione Qendra Multimedia, Teatro della Pergola – Firenze, Mittelfest2022
in associazione con Theater Dortmund, National Theater of Sarajevo, International Theater Festival MESS – Scene MESS
partner e sostenitori Allianz Kulturstiftung for Europe, The Sigrid Rausing Trust, Rockfeller Brothers Fund, Reconnection 2.0, European Union Kosovo, Heartefact, Ministria e Kulturës, Rinisë dhe Sportit Kosov, Ministartsvo Kulture i Sporta Kantona Sarajevo, Kontrapunkt, Teatri Oda. 

Pasolinisti di tutto il mondo unitevi. Condemi e Portoghese sono all’opera

FESTIL è il festival estivo di teatro, musica, drammaturgia che si svolge sull’alto litorale adriatico, tra Italia e Slovenia. Uno degli appuntamenti previsti quest’anno a Trieste, al Politeama Rossetti, era Questo è il tempo in cui attendo la grazia, lo spettacolo che il regista Fabio Condemi e il perfomer Gabriele Portoghese hanno dedicato alle scritture di Pier Paolo Pasolini per i suoi film.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Condemi Portoghese
Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski)

Un po’ di malavoglia, ma ci sono andato. Inesorabile, l’effetto anniversario si fa sentire. Pier Paolo Pasolini era nato del marzo del 1922, cent’anni fa, e quest’anno colonizzerà e deborderà tra le offerte di spettacolo, di cultura, di sottocultura. In prosa e in musica. Con i suoi articoli polemici e con i versi della sua poesia.

Gli anniversari – devo averlo già scritto altre volte – a teatro producono per lo più risultati superficiali e noiosi. Si fanno cose, perché si pensa che bisogna farle.

Un po’ di malavoglia, ma ci sono andato. Mi sono detto: Fabio Condemi è un regista giovane, intuitivo, originale, mi piace. Ho visto la sua Filosofia nel Boudoir, mi ha colpito. Gabriele Portoghese è un attore che stimo, ha un piglio che ti fa rimanere attaccato con gli occhi e con le orecchie alla scena. Agli Ubu, lo scorso anno lo avevo votato come miglior attore italiano per il monologo Tiresias, da Kae Tempest. 

Che lavorassero di nuovo assieme, come fanno da anni, mi pareva una bella cosa. Peccato solo che avessero scelto Pasolini, interesse già coltivato da entrambi. Peccato l’odore di anniversario, pensavo. Peccato tuffarsi nel solito santino, supponevo. Peccato pensare a lui, come sempre, veggente e vittima di un’Italia moderna, fascio-borghese, omologatrice, consumista, quando già il fascismo non c’era più e il consumismo equivaleva a un benessere diffuso.

Gabriele Portoghese in Questo è il tempo in cui attendo la grazia -
(ph Claudia Pajewski)

Invece no

Invece no. Mi sbagliavo. Questo è il tempo in cui attendo la grazia (è il titolo ed è anche un verso di Pasolini) mi è piaciuto. Molto. Si distacca da tutta la retorica su Pasolini che in questo ultimo decennio mi è capitato di osservare. 

Per Condemi e Portoghese, Pier Paolo Pasolini non è il “poeta friulano” della solita tiritera. Non è l’ “intellettuale eretico“, che mette a nudo i fascismi del Paese democristiano e denuncia la scomparsa delle lucciole. Non è, per fortuna, neanche quel redentore del teatro italiano che non è stato. È uno scrittore.

Lo dimostrano, non tanto i romanzi, figli del tempo neorealista, ma le sceneggiature. Non i film, proprio le sceneggiature, che Pasolini scrive e fanno da guida ai suoi titoli più famosi. Edipo re, Medea, Il fiore delle Mille e una notte, ecc, ecc, ecc…

Provengono da questa letteratura – le sceneggiature sono anche letteratura – le pagine che regista e interprete hanno scelto di portare sulla scena. In modo semplice, senza l’enfasi che si riserva ai padri e ai maestri, senza arzigogolate interpretazioni. Lasciando invece che le parole che precedono i film – i testi “per il cinema”, oggi raccolti in due Meridiani Mondadori – dispieghino davanti agli occhi e alle orecchie degli spettatori le immagini a cui il Pasolini regista pensava prima di mettersi davanti alla macchina da presa.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Gabriele Portoghese regia Fabio Condemi
(ph Claudia Pajewski)

Letteratura e un piccolo rettangolo di terra 

Per fare questo a loro due basta un piccolo rettangolo di terra, qualche pianta lacustre che svetta (e verrà poi sradicata), un proiettore per pellicole casalinghe, un pallone, il Meridiano Mondadori.

La voce capace di Gabriele Portoghese fa tutto il resto. 

Si apre sulle vedute iniziali pensate per Edipo re (a Sacile pensava Pasolini, e alla Livenza). Attraversa gli insegnamenti che il Centauro impartisce a Giasone bambino (in Medea, le scene dell’infanzia erano state girate nella laguna di Grado). Ci trasporta nelle strade e nei quartieri poveri del Cairo, con i volti e i corpi dei ragazzini che filmerà poi nel Fiore delle Mille e una notte. E ancora La ricotta, Sabaudia, la forma della città. O i film mai realizzati, come quello sulla vita di San Paolo.

Pier Paolo Pasolini - Roma, Gazometro
Pier Paolo Pasolini – Roma, Gazometro

Non importa se chi assiste a Questo è il tempo in cui attendo la grazia abbia visto o meno quei film. Se sì, è una rievocazione intensa, che stimola e ravviva la memoria, quella emotiva soprattutto. Se non li ha visti, quelle parole permettono all’immaginazione di inventare un film nuovo di zecca, una nuova visione virtuale, un sogno a occhi aperti, come fa sempre la letteratura (Calvino scrittore insegna).

Sul fondale, intanto, brevi video pensati da Fabio Cherstich, offrono suggerimenti, focalizzano l’attenzione. Un corso d’acqua, i canneti delle lagune, le gravi sassose di un fiume: paesaggi appena accennati, ma infinitamente pertinenti: il panorama, adesso, dell’infanzia pasoliniana di allora.

Pasolinisti, unitevi

“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto” è la didascalia iniziale (come nella sequenza che chiude il Decameron), più che mai adattata questo lavoro. Il breve dialogo tra Ninetto Davoli e Sergio Citti, che chiude l’Edipo Re, è di conseguenza il finale.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Gabriele Portoghese regia Fabio Condemi
(ph Claudia Pajewski)

Questo è il tempo in cui attendo la grazia è stato pensato e allestito prima che scattassero le fanfare dell’anniversario pasoliniano (il progetto è di due anni fa). E in questa sua bella veste dimessa, anti-retorica rischia di mettere d’accordo tutti. I pasolinisti devoti sfegatati e i pasolinisti che nutrono dubbi sulla sua santità (come me). Direi che ce la fa, e bene.

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QUESTO È IL TEMPO IN CUI ATTENDO LA GRAZIA
da Pier Paolo Pasolini
drammaturgia e montaggio dei testi Fabio Condemi, Gabriele Portoghese
regia Fabio Condemi
con Gabriele Portoghese
drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich
filmati Igor Renzetti, Fabio Condemi
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Verdi Pordenone, Teatro di Roma -Teatro Nazionale

[in cartellone a FESTIL- Festival estivo del Litorale, diretto da Alessandro Gilleri, Tommaso Tuzzoli, Katia Pegan] dal 18 giugno al 5 agosto 2022 – vedi qui il programma completo]

Pier Paolo Pasolini - Decameron
Pier Paolo Pasolini come Giotto, in Decameron

Addio Peter Brook, agile tigre, leone bianco

Se ne è andato l’ultimo maestro del teatro del Novecento. Peter Brook, 97 anni. Tigre agilissima e crudele, prima. Leone bianco e saggio filosofo, poi. Una vita nell’arte, longeva, tumultuosa. Una scena universo, la sua. 

Peter Brook, l'ultimo maestro

Scopritore di un teatro crudele (“Marat-Sade” di Peter Weiss) e inventore di un nuovo Shakespeare (“Sogno di una notte di mezza estate”). Fedele ai classici della modernità (“Giorni felici” di Samuel Beckett) ma anche inclusivo, quanto altri mai (“The Ik”, sulla scomparsa di una popolazione africana, oppure “Mahabharata”, saga infinita delle mitologie indiane).

Peter Brook, origini russe, formazione britannica, residenza in Francia, estimatore della cucina italiana, era un europeista del teatro. Prima ancora che la parola nascesse.

E conosceva bene questo Nordest d’Italia.

Con lui, in distilleria

A fargli da guida, erano stati Giannola Nonino e la sua famiglia, quella estesa del Premio Nonino. Lo premiarono nel 1991, tra i grandi calibri della scena culturale del ‘900 (come avevano fatto con Jerzy Grotowski). E poi lo vollero nella Giuria, che si riuniva ogni gennaio, facesse pure freddo, nella dorata e accogliente culla delle grappe: la distilleria di Percoto, pochi chilometri da Udine. 

Narratore brillante e di spirito, davanti al bicchierino di altro spirito, alcolico, che Giannola continuava a riempire, là a Percoto, nelle interviste ai giornalisti di tutti i Paesi, Brook sciorinava la sua dettagliata esperienza del mondo. E del teatro soprattutto.

Nei miei ricordi, restano incontri sempre eccitanti con quest’uomo dagli occhi azzurri e dal volto amichevole.

In un campiello a Venezia, per esempio, molti anni fa, tutti in piedi, sui masegni coperti di sabbia, e lui che metteva in scena tutto il suo innamoramento per le culture altre, quella africana, in quel caso, (“The Ik”).

O nella sua sala preferita, al margine della Periphérique a Parigi: le Theatre des Bouffes du Nord. L’antico teatro divorato da un incendio, che lui si ostinò mantenere tale e quale, con le pareti sbrecciate e il fascino sterminato che il tempo conserva. Là vidi andare in scena una “Tempesta” indimenticabile (Ariele aveva la pelle nera come il carbone e una barchetta di carta bianca in testa). Ma anche un “Giardino dei ciliegi”, dove la scena fatta era di tappeti. Soltanto tappeti, distesi, arrotolati, affastellati, e provenivano dai mille paesi del mondo che aveva visitato e raccontato nei suoi spettacoli. 

Con lui, nei suoi giorni felici

E ancora, in un minuscolo teatro a Udine, su un palcoscenico altrettanto ridotto, lo seguii mentre metteva a punto uno dei suoi spettacoli più asciutti e più belli, “Giorni Felici”, “Oh le beaux jours!” di Beckett. Bello anche perché c’era la sua incantevole e longilinea, moglie Natasha Parry, che si infilava fino alla vita dentro la montagnola di terra imposta dal drammaturgo irlandese. Emergeva solo il bianco busto, la collana di perle, il cappellino fantastico. 

Un’immagine ancora, forse l’ultima, quando più affaticato ancora per aver attraversato in pratica tutto il secolo, al suono di un handpan indiano solamente, raccontava ai giovani studenti e agli spettatori di un festival, ciò che aveva appreso in quella sua lunga vita, e molte volte trascritto nei suoi libri: “Lo spazio vuoto”, “La porta aperta”, “Il punto in movimento” sono soltanto alcuni dei tanti titoli, che ora certo ritroveranno posto nelle librerie di carta, mentre quelle digitali li hanno rimessi in circolo questa mattina.

Anche per ricordarci che il teatro sarà pure effimero, ma i pensieri di un maestro del teatro, l’ultimo, ciò che Peter Brook indiscutibilmente è stato, quelli sì, rimangono.

[pubblicato sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO il 3 luglio 2022]

“Siamo tutti Ulisse”. Christiane Jatahy alla Biennale Teatro

Christiane Jatahy ha aperto le dieci giornate di Rot-Rosso, il festival di teatro della Biennale di Venezia, diretto per il secondo anno da Stefano Ricci e Gianni Forte. La creazione della regista brasiliana, O agora que demora, è un titolo che rimarrà nella storia della manifestazione.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Qualcosa sarebbe successo, me lo sentivo. Prima che cominciasse lo spettacolo, attorno a me non c’era solo il pubblico solito, quello della Biennale, spettatori affezionatissimi e stagisti. C’erano anche volti inconsueti e colori inconsueti. E anche altre lingue, oltre che l’italiano e l’inglese d’ordinanza.

Qui, nel Teatro delle Tese, in fondo all’arsenale di Venezia, soffiano – mi dicevo – le ventate del Sudamerica di Christiane Jatahy. E portano con sé i volti e le parole di quella vasta umanità fuggiasca insieme alla quale la regista brasiliana ha realizzato O agora que demora.

Il presente che rimane

Presentato in inglese come The Lingering Now, il titolo equivale in italiano a un presente che permane. Questo secondo capitolo che Jatahy ha dedicato all’esilio contemporaneo, ai milioni di Ulisse che vagano nel mondo, spiega bene l’infinito presente di chi è in fuga: dalla guerra, dalla povertà, dalla assenza dei diritti, dalla soppressione delle libertà, dalle prigioni, dai regimi autoritari, dalle torture, dagli abusi. Una fuga che sembra non avere mai fine, che attraversa sì stati e confini, deserti e fiumi, ma sopratutto le condizioni umane e le lingue. E anche i linguaggi dell’arte, il cinema, il teatro.

Da sempre, da quando si è fatta conoscere sulla scena internazionale, Christiane Jatahy, ha scelto di porsi sul confine apparentemente netto che separa la scena dal vivo dall’opera d’arte riprodotta. Né di qua né di là. A cavallo. La sua doppia versione del Cevhov delle Tre Sorelle (E se ellas fossem para Moscou, vedi qui) ne era un luminoso esempio.

Ma adesso, in O agora que demora, il tempo è quello dell’oggi infinito, e il confine si fa più mobile, più sottile, più permeabile. O più drammaticamente umano. Dallo schermo e dal palcoscenico la ripresa video e l’azione teatrale dialogano, rimpallano le domande, danno delle risposte, cantano assieme, suonano. Di ogni singola replica dello spettacolo fanno una festa. Solo a momenti vivace, più spesso malinconica. Perché la malinconia, la nostalgia, è il sentimento dell’esilio. Dopo Omero, ne hanno parlato tanti.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Poi succede qualcosa

Qualcosa succede infatti, me l’aspettavo. C’è un quarto d’ora di documentario, girato in Libano, e racconta una piccola, povera festa, di cibi e bevande, di racconti e risate, di uomini, donne e bambini, fuggiti dalla Siria, o da altri Paesi, e approdati là. Spaesati tra una cucina di tradizioni antiche e nuovi marchi occidentali. Tra edilizia ultrapopolare e fusti secolari d’albero.

Poi, come se uscissero dal documentario e dallo schermo, come se la forza dei racconti le portasse qui, tra di noi seduti in teatro, le storie, ogni storia, ciascuna personale odissea, trova il proprio narratore vivo. La voce diversa, di uomo, di donna, di bambini, o il suono di uno strumento, o di un canto, diventa concreto davanti a noi, o dietro, o nella poltrona accanto.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Ci pare di incamminarci tutti sulla strada che ha fatto chi viene dal Malawi e dallo Zimbabwe. Oppure aspettare, come chi è bloccato nei campi profughi delle isole della Grecia. Sembra anche a noi di aver attraversato mezza Europa, forse tutta, alla ricerca di un posto in cui fermarsi, venendo magari da Johannesburg o da Jenin in Cisgiordania. Registrata nelle immagini del video, o sussurrata quasi al nostro orecchio, anche la loro è un’Odissea. Anzi sono tante odissee contemporanee. E ci tornano in mente le vicende che abbiamo sentito da piccoli e hanno fatto la storia delle storie del mondo. Quella del Ciclope, della maga Circe, del ritorno a Itaca… A ognuno di loro, invece, è toccato un diverso esilio. Altrettanto epico. Altrettanto sofferto.

Christiane Jatahy non è in esilio. O forse lo è, artisticamente. Perché nel suo Paese, il Brasile, essere artisti, agire fuori dal liberalismo imperante, non essere bolsonariani, vuol dire ricominciare ogni giorno da capo. Ed è lei stessa a dirci, a un certo punto, attraverso le immagini girate in Amazzonia tra gli indios kayapós e il racconto della scomparsa di suo nonno, proprio in quella foresta, settant’anni fa, quanto il nostos, il desiderio del ritorno, sia un tema forte.

Anzi, sia il solo tema di chi è emigrato, rifugiato, espulso, sfollato, di chi è fuggito, di chi non ha tetto, di chi ha perso la propria casa, e con essa l’identità. Intesa non solo come carta.

E quanto sia importante allora parlare anche di quella piccola comunità amazzonica, i kayapós, che con le unghie e con i denti, cercano di salvaguardare la propria storia e la propria libertà, dalla spietatezza delle seghe e dalle ruspe che stanno mettendo fine all’unicità naturale e antropologica dell’Amazzonia.

Secondo capitolo di un dittico intitolato Ulisse, realizzato nel 2019, O agora que demora non cita per ovvie ragioni temporali, la condizione dei profughi ucraini. E proprio questa assenza la rende più pressante. Come ha sottolineato la stessa regista nel discorso pronunciato in occasione della cerimonia in cui – domenica scorsa – le veniva consegnato il Leone d’oro teatrale della Biennale di Venezia.

Un festival è un festival è un festival

Poi si sa: un festival è un festival. Tanto più i tre della Biennale DMT, dedicati alle performing arts, le arti dal vivo. Oltre alle opere memorabili, ce ne sono molte altre che più facilmente svaniranno dalla memoria. E se le trascrivo qui, è per lasciarne traccia. 

Potrebbe infatti succedere di dimenticare l’allestimento di gusto anni ’80 degli statunitensi Big Art Group. Scritto da Caden Manson, Broke House è basato su un’improbabile poliamorosa vicenda, ma più che ammiccare alla disinvoltura di una comunità gender fluid di oggi, sembrava riciclava soluzioni care all’avanguardia americana di allora. 

Potrebbe anche succedere di non ricordare granché di quella divertente – diciamolo subito, per soluzioni extra-drammaturgiche – rilettura registica di alcune pagine dalle Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace. Del teatro – dicevo in un altro post – allo scrittore americano gliene importava un fico. Liberi tutti dunque di scegliere alcuni quei racconti e farli diventare provocazioni. La più clamorosa, in questa versione teatrale del libro, ideata dalla regista Yana Ross – origini lettoni, naturalizzata americana, direttore alla Volksbuehne di Berlino – è stata quella di piazzare in scena fin dall’inizio una coppia intenta, dal vivo e platealmente, a un coito. Professionisti del porno live, beninteso: impeccabili.

Con un uso più frequente della parola, il seguito dello spettacolo si modulava sulla stessa lunghezza d’onda: consigli per un sesso orale perfetto, ricette per insaporire le polpette con le mutandine appena tolte, stupro con bottiglie di whisky, ricognizione sui rumori e gli odori di pisciatoio pubblico, altre pratiche sporcaccione. Pubblico tra l’ironico e l’imbarazzato. Scandalizzato nessuno. Perché l’adult entertainment è oramai facilmente digeribile, come se fosse Topolino.

Brief Interviews with Hideous Men - Yana Ross - ph Sabina Boesch
Brief Interviews with Hideous Men – Yana Ross – ph Sabina Boesch

Mi va infine di ricordare Loco, che la cilena Tita Iacobelli e la russa Natacha Belova (anche grazie a Marta Pereira) hanno tratto da Le memorie di un pazzo di Gogol, regalando le proprie mani e le proprie braccia ai movimenti di un pupazzo in cui si incarna Popriščin, il patetico scrivano descritto dallo scrittore russo.

Spettacolo delicato, con quel sottofondo di poesia visiva che spesso viene adottato dal teatro di figura, quando si rivolge anche a un pubblico adulto. Tanto che un amico mio dice che si dovrebbe sempre scrivere teatro delle figure. Che sono tante. Che siano, o non siano, poetiche lo lascio poi decidere a chi, assieme a me, l’ha visto.

Loco di Tita Iacobelli e Natacha Belova
Loco di Tita Iacobelli e Natacha Belova

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O AGORA QUE DEMORA – THE LINGERING NOW 
di Christiane Jatahy
tratto da Odissea di Omero
con Abbas Abdulelah Al’Shukra, Abdul Lanjesi, Abed Aidy, Adnan Ibrahim Nghnghia, Ahmed Tobasi, Bepkapoy, Blessing Opoko, Corina Sabbas, Emilie Franco, Faisal Abu Alhayjaa, Fepa Teixeira, Frank Sithole, Iketi Kayapó, Irengri Kayapó, Ivan Tirtiaux, Jehad Obeid, Joseph Gaylard, Jovial Mbenga, Kroti, Laerte Késsimos, Leon David Salazar, Linda Michael Mkhwanasi, Maroine Amimi, Mbali Ncube, Melina Martin, Mustafa Sheta, Nadège Meden, Nambulelo Meolongwara, Noji Gaylard, Ojo Kayapó, Omar Al Sbaai, Phana, Pitchou Lambo, Pravinah Nehwati, Pykatire, Ramyar Hussaini, Ranin Odeh, Renata Hardy, Vitor Araújo, Yara Ktaish

direttore della fotografia Paulo Camacho
produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles, SESC São Paulo, in coproduzione con Ruhrtriennale, Comédie de Genève, Odéon-Théâtre de l’Europe, Teatro Municipal São Luiz, Festival d’Avignon, Le Maillon-Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, Riksteatern, Temporada Alta