“Siamo tutti Ulisse”. Christiane Jatahy alla Biennale Teatro

Christiane Jatahy ha aperto le dieci giornate di Rot-Rosso, il festival di teatro della Biennale di Venezia, diretto per il secondo anno da Stefano Ricci e Gianni Forte. La creazione della regista brasiliana, O agora que demora, è un titolo che rimarrà nella storia della manifestazione.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Qualcosa sarebbe successo, me lo sentivo. Prima che cominciasse lo spettacolo, attorno a me non c’era solo il pubblico solito, quello della Biennale, spettatori affezionatissimi e stagisti. C’erano anche volti inconsueti e colori inconsueti. E anche altre lingue, oltre che l’italiano e l’inglese d’ordinanza.

Qui, nel Teatro delle Tese, in fondo all’arsenale di Venezia, soffiano – mi dicevo – le ventate del Sudamerica di Christiane Jatahy. E portano con sé i volti e le parole di quella vasta umanità fuggiasca insieme alla quale la regista brasiliana ha realizzato O agora que demora.

Il presente che rimane

Presentato in inglese come The Lingering Now, il titolo equivale in italiano a un presente che permane. Questo secondo capitolo che Jatahy ha dedicato all’esilio contemporaneo, ai milioni di Ulisse che vagano nel mondo, spiega bene l’infinito presente di chi è in fuga: dalla guerra, dalla povertà, dalla assenza dei diritti, dalla soppressione delle libertà, dalle prigioni, dai regimi autoritari, dalle torture, dagli abusi. Una fuga che sembra non avere mai fine, che attraversa sì stati e confini, deserti e fiumi, ma sopratutto le condizioni umane e le lingue. E anche i linguaggi dell’arte, il cinema, il teatro.

Da sempre, da quando si è fatta conoscere sulla scena internazionale, Christiane Jatahy, ha scelto di porsi sul confine apparentemente netto che separa la scena dal vivo dall’opera d’arte riprodotta. Né di qua né di là. A cavallo. La sua doppia versione del Cevhov delle Tre Sorelle (E se ellas fossem para Moscou, vedi qui) ne era un luminoso esempio.

Ma adesso, in O agora que demora, il tempo è quello dell’oggi infinito, e il confine si fa più mobile, più sottile, più permeabile. O più drammaticamente umano. Dallo schermo e dal palcoscenico la ripresa video e l’azione teatrale dialogano, rimpallano le domande, danno delle risposte, cantano assieme, suonano. Di ogni singola replica dello spettacolo fanno una festa. Solo a momenti vivace, più spesso malinconica. Perché la malinconia, la nostalgia, è il sentimento dell’esilio. Dopo Omero, ne hanno parlato tanti.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Poi succede qualcosa

Qualcosa succede infatti, me l’aspettavo. C’è un quarto d’ora di documentario, girato in Libano, e racconta una piccola, povera festa, di cibi e bevande, di racconti e risate, di uomini, donne e bambini, fuggiti dalla Siria, o da altri Paesi, e approdati là. Spaesati tra una cucina di tradizioni antiche e nuovi marchi occidentali. Tra edilizia ultrapopolare e fusti secolari d’albero.

Poi, come se uscissero dal documentario e dallo schermo, come se la forza dei racconti le portasse qui, tra di noi seduti in teatro, le storie, ogni storia, ciascuna personale odissea, trova il proprio narratore vivo. La voce diversa, di uomo, di donna, di bambini, o il suono di uno strumento, o di un canto, diventa concreto davanti a noi, o dietro, o nella poltrona accanto.

O agora que demora - Christiane Jatahy

Ci pare di incamminarci tutti sulla strada che ha fatto chi viene dal Malawi e dallo Zimbabwe. Oppure aspettare, come chi è bloccato nei campi profughi delle isole della Grecia. Sembra anche a noi di aver attraversato mezza Europa, forse tutta, alla ricerca di un posto in cui fermarsi, venendo magari da Johannesburg o da Jenin in Cisgiordania. Registrata nelle immagini del video, o sussurrata quasi al nostro orecchio, anche la loro è un’Odissea. Anzi sono tante odissee contemporanee. E ci tornano in mente le vicende che abbiamo sentito da piccoli e hanno fatto la storia delle storie del mondo. Quella del Ciclope, della maga Circe, del ritorno a Itaca… A ognuno di loro, invece, è toccato un diverso esilio. Altrettanto epico. Altrettanto sofferto.

Christiane Jatahy non è in esilio. O forse lo è, artisticamente. Perché nel suo Paese, il Brasile, essere artisti, agire fuori dal liberalismo imperante, non essere bolsonariani, vuol dire ricominciare ogni giorno da capo. Ed è lei stessa a dirci, a un certo punto, attraverso le immagini girate in Amazzonia tra gli indios kayapós e il racconto della scomparsa di suo nonno, proprio in quella foresta, settant’anni fa, quanto il nostos, il desiderio del ritorno, sia un tema forte.

Anzi, sia il solo tema di chi è emigrato, rifugiato, espulso, sfollato, di chi è fuggito, di chi non ha tetto, di chi ha perso la propria casa, e con essa l’identità. Intesa non solo come carta.

E quanto sia importante allora parlare anche di quella piccola comunità amazzonica, i kayapós, che con le unghie e con i denti, cercano di salvaguardare la propria storia e la propria libertà, dalla spietatezza delle seghe e dalle ruspe che stanno mettendo fine all’unicità naturale e antropologica dell’Amazzonia.

Secondo capitolo di un dittico intitolato Ulisse, realizzato nel 2019, O agora que demora non cita per ovvie ragioni temporali, la condizione dei profughi ucraini. E proprio questa assenza la rende più pressante. Come ha sottolineato la stessa regista nel discorso pronunciato in occasione della cerimonia in cui – domenica scorsa – le veniva consegnato il Leone d’oro teatrale della Biennale di Venezia.

Un festival è un festival è un festival

Poi si sa: un festival è un festival. Tanto più i tre della Biennale DMT, dedicati alle performing arts, le arti dal vivo. Oltre alle opere memorabili, ce ne sono molte altre che più facilmente svaniranno dalla memoria. E se le trascrivo qui, è per lasciarne traccia. 

Potrebbe infatti succedere di dimenticare l’allestimento di gusto anni ’80 degli statunitensi Big Art Group. Scritto da Caden Manson, Broke House è basato su un’improbabile poliamorosa vicenda, ma più che ammiccare alla disinvoltura di una comunità gender fluid di oggi, sembrava riciclava soluzioni care all’avanguardia americana di allora. 

Potrebbe anche succedere di non ricordare granché di quella divertente – diciamolo subito, per soluzioni extra-drammaturgiche – rilettura registica di alcune pagine dalle Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace. Del teatro – dicevo in un altro post – allo scrittore americano gliene importava un fico. Liberi tutti dunque di scegliere alcuni quei racconti e farli diventare provocazioni. La più clamorosa, in questa versione teatrale del libro, ideata dalla regista Yana Ross – origini lettoni, naturalizzata americana, direttore alla Volksbuehne di Berlino – è stata quella di piazzare in scena fin dall’inizio una coppia intenta, dal vivo e platealmente, a un coito. Professionisti del porno live, beninteso: impeccabili.

Con un uso più frequente della parola, il seguito dello spettacolo si modulava sulla stessa lunghezza d’onda: consigli per un sesso orale perfetto, ricette per insaporire le polpette con le mutandine appena tolte, stupro con bottiglie di whisky, ricognizione sui rumori e gli odori di pisciatoio pubblico, altre pratiche sporcaccione. Pubblico tra l’ironico e l’imbarazzato. Scandalizzato nessuno. Perché l’adult entertainment è oramai facilmente digeribile, come se fosse Topolino.

Brief Interviews with Hideous Men - Yana Ross - ph Sabina Boesch
Brief Interviews with Hideous Men – Yana Ross – ph Sabina Boesch

Mi va infine di ricordare Loco, che la cilena Tita Iacobelli e la russa Natacha Belova (anche grazie a Marta Pereira) hanno tratto da Le memorie di un pazzo di Gogol, regalando le proprie mani e le proprie braccia ai movimenti di un pupazzo in cui si incarna Popriščin, il patetico scrivano descritto dallo scrittore russo.

Spettacolo delicato, con quel sottofondo di poesia visiva che spesso viene adottato dal teatro di figura, quando si rivolge anche a un pubblico adulto. Tanto che un amico mio dice che si dovrebbe sempre scrivere teatro delle figure. Che sono tante. Che siano, o non siano, poetiche lo lascio poi decidere a chi, assieme a me, l’ha visto.

Loco di Tita Iacobelli e Natacha Belova
Loco di Tita Iacobelli e Natacha Belova

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O AGORA QUE DEMORA – THE LINGERING NOW 
di Christiane Jatahy
tratto da Odissea di Omero
con Abbas Abdulelah Al’Shukra, Abdul Lanjesi, Abed Aidy, Adnan Ibrahim Nghnghia, Ahmed Tobasi, Bepkapoy, Blessing Opoko, Corina Sabbas, Emilie Franco, Faisal Abu Alhayjaa, Fepa Teixeira, Frank Sithole, Iketi Kayapó, Irengri Kayapó, Ivan Tirtiaux, Jehad Obeid, Joseph Gaylard, Jovial Mbenga, Kroti, Laerte Késsimos, Leon David Salazar, Linda Michael Mkhwanasi, Maroine Amimi, Mbali Ncube, Melina Martin, Mustafa Sheta, Nadège Meden, Nambulelo Meolongwara, Noji Gaylard, Ojo Kayapó, Omar Al Sbaai, Phana, Pitchou Lambo, Pravinah Nehwati, Pykatire, Ramyar Hussaini, Ranin Odeh, Renata Hardy, Vitor Araújo, Yara Ktaish

direttore della fotografia Paulo Camacho
produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles, SESC São Paulo, in coproduzione con Ruhrtriennale, Comédie de Genève, Odéon-Théâtre de l’Europe, Teatro Municipal São Luiz, Festival d’Avignon, Le Maillon-Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, Riksteatern, Temporada Alta

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