Addio Peter Brook, agile tigre, leone bianco

Se ne è andato l’ultimo maestro del teatro del Novecento. Peter Brook, 97 anni. Tigre agilissima e crudele, prima. Leone bianco e saggio filosofo, poi. Una vita nell’arte, longeva, tumultuosa. Una scena universo, la sua. 

Peter Brook, l'ultimo maestro

Scopritore di un teatro crudele (“Marat-Sade” di Peter Weiss) e inventore di un nuovo Shakespeare (“Sogno di una notte di mezza estate”). Fedele ai classici della modernità (“Giorni felici” di Samuel Beckett) ma anche inclusivo, quanto altri mai (“The Ik”, sulla scomparsa di una popolazione africana, oppure “Mahabharata”, saga infinita delle mitologie indiane).

Peter Brook, origini russe, formazione britannica, residenza in Francia, estimatore della cucina italiana, era un europeista del teatro. Prima ancora che la parola nascesse.

E conosceva bene questo Nordest d’Italia.

Con lui, in distilleria

A fargli da guida, erano stati Giannola Nonino e la sua famiglia, quella estesa del Premio Nonino. Lo premiarono nel 1991, tra i grandi calibri della scena culturale del ‘900 (come avevano fatto con Jerzy Grotowski). E poi lo vollero nella Giuria, che si riuniva ogni gennaio, facesse pure freddo, nella dorata e accogliente culla delle grappe: la distilleria di Percoto, pochi chilometri da Udine. 

Narratore brillante e di spirito, davanti al bicchierino di altro spirito, alcolico, che Giannola continuava a riempire, là a Percoto, nelle interviste ai giornalisti di tutti i Paesi, Brook sciorinava la sua dettagliata esperienza del mondo. E del teatro soprattutto.

Nei miei ricordi, restano incontri sempre eccitanti con quest’uomo dagli occhi azzurri e dal volto amichevole.

In un campiello a Venezia, per esempio, molti anni fa, tutti in piedi, sui masegni coperti di sabbia, e lui che metteva in scena tutto il suo innamoramento per le culture altre, quella africana, in quel caso, (“The Ik”).

O nella sua sala preferita, al margine della Periphérique a Parigi: le Theatre des Bouffes du Nord. L’antico teatro divorato da un incendio, che lui si ostinò mantenere tale e quale, con le pareti sbrecciate e il fascino sterminato che il tempo conserva. Là vidi andare in scena una “Tempesta” indimenticabile (Ariele aveva la pelle nera come il carbone e una barchetta di carta bianca in testa). Ma anche un “Giardino dei ciliegi”, dove la scena fatta era di tappeti. Soltanto tappeti, distesi, arrotolati, affastellati, e provenivano dai mille paesi del mondo che aveva visitato e raccontato nei suoi spettacoli. 

Con lui, nei suoi giorni felici

E ancora, in un minuscolo teatro a Udine, su un palcoscenico altrettanto ridotto, lo seguii mentre metteva a punto uno dei suoi spettacoli più asciutti e più belli, “Giorni Felici”, “Oh le beaux jours!” di Beckett. Bello anche perché c’era la sua incantevole e longilinea, moglie Natasha Parry, che si infilava fino alla vita dentro la montagnola di terra imposta dal drammaturgo irlandese. Emergeva solo il bianco busto, la collana di perle, il cappellino fantastico. 

Un’immagine ancora, forse l’ultima, quando più affaticato ancora per aver attraversato in pratica tutto il secolo, al suono di un handpan indiano solamente, raccontava ai giovani studenti e agli spettatori di un festival, ciò che aveva appreso in quella sua lunga vita, e molte volte trascritto nei suoi libri: “Lo spazio vuoto”, “La porta aperta”, “Il punto in movimento” sono soltanto alcuni dei tanti titoli, che ora certo ritroveranno posto nelle librerie di carta, mentre quelle digitali li hanno rimessi in circolo questa mattina.

Anche per ricordarci che il teatro sarà pure effimero, ma i pensieri di un maestro del teatro, l’ultimo, ciò che Peter Brook indiscutibilmente è stato, quelli sì, rimangono.

[pubblicato sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO il 3 luglio 2022]

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