STORIE – Massimo Castri regista. Dieci anni dopo

Nel mese un po’ trafelato che si conclude oggi, penso ci debba essere, qui su QuanteScene!, un pensiero rivolto a Massimo Castri, regista.

Massimo Castri

L’ispido Castri

Regista e intellettuale, nel senso più positivo della parola, Massimo Castri era nato nel 1943 ed è scomparso nel 2013, dieci anni fa, in gennaio, il 23 per essere esatti, senza nemmeno sfiorare la soglia dei 70 anni.

Personalità d’artista perfetta per le mie Storie, nelle quali racconto incontri con uomini (e donne) straordinari. A volte capaci di dare una svolta alla mia vita. Perlomeno a quella nel teatro.

È stato così anche per Massimo Castri. L’ho incontrato più volte. Spesso per intervistarlo. Oppure per chiacchierare. E sono stato testimone di alcuni siparietti che gli piaceva recitare in pubblico – se ho inteso bene il suo carattere – per confermare l’immagine burbera e di misantropo che ci teneva a dare di sé.

Chi lo ha conosciuto meglio, sa quanto gli fosse congeniale questa fisionomia. L’ispido Castri – diceva Anna Maria Guarnieri, ricordandolo affettuosamente dieci anni fa.

MassimoCastri -Costa Ovest 1989
Castri con gli allievi del master 1989 a Castiglioncello – Atelier Costa Ovest

Questa immagine: segui il link per saperne di più.

I rusteghi

Lo ricordo a Treviso, per esempio, nel 1992, febbraio, al debutto di I rusteghi, il primo testo di Goldoni che – nolente più che volente – lui aveva messo in scena. Del resto era l’anno del Bicentenario e un Goldoni, un qualsiasi Goldoni, anche lui lo doveva fare. Aveva scelto quello, perché rustego, tutto sommato, era anche lui: toscano, non di fiorentini modi cortesi, ma di Cortona. E a volte senza garbo, pure.

A quella ‘prima’, in platea poco distante da me, per buona parte del suo spettacolo Castri aveva sbuffato e rumoreggiato, insoddisfatto, masticando tra i denti la sigaretta spenta. A un certo punto una spettatrice, seduta davanti a lui, esasperata da quel tipo che non la smetteva di agitarsi, si era voltata e lo aveva zittito. “Guardi che sono il regista” aveva risposto piccato.

Lo sapevo, infatti, che il lieto fine goldoniano lui non lo sopportava proprio. Lo incuriosiva il Goldoni nero, acre nei confronti della rampante borghesia veneziana, ma ne vedeva l’ipocrisia quando era necessario portare a termine, col sorriso, le sue commedie.

Me lo aveva detto poco prima, in camerino, dove facevano bella mostra di sé, ad asciugare, le bianche magliette della salute che consumava in quantità spropositate. Soprattutto nell’imminenza di un debutto.

Massimo Castri, la regia critica

Spigolosità e traspirazione che non offuscano nemmeno per un attimo, il suo contributo al teatro del secondo Novecento e a quel fenomeno tutto italiano che va sotto il nome di regia critica: Strehler (che era del ’21), Ronconi (che era del ’33), e poi lui (del ’43).

Come Mariangela Melato, scomparsa dieci giorni prima, Castri era della generazione degli artisti nati durante la guerra e partecipi, ancora bambini, dell’esperienza della ricostruzione, delle trasformazioni sociali, del peso diverso della cultura e dello spettacolo che la nuova Italia cominciava a scoprire. Fatti ed esperienze che avrebbero modellato, in entrambi, il carattere, i pensieri, le scelte personali e quelle politiche.

Massimo Castri giovane
Massimo Castri giovane attore alla Loggetta di Brescia

Un corpo a corpo con gli autori

Ma l’anticonformismo della Melato, nella storia e nel carattere di Massimo Castri si era declinato molto diversamente: un ruvido corpo a corpo con gli autori che intendeva allestire. Diceva di non amare Pirandello, trovava detestabile Pasolini. E appunto ipocrita Goldoni. Ma li distendeva sul suo lettino da psicoanalista, e li metteva davanti alle loro contraddizioni. Poi li portava in scena.

Ancora trentenne, questo trattamento analitico, Castri lo aveva riservato a Pirandello, di cui aveva inizialmente messo in scena tre lavori. I quali – molto più di libri e studi specialistici – studiano, illuminano, e addirittura smascherano le segrete inconfessabili pulsioni dello scrittore siciliano.

Massimo Castri e Valeria Moriconi
Massimo Castri e Valeria Moriconi

Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi e l’ancora più disturbante Così è (se vi pare), erano stati poi raccolti nel volume Pirandello Ottanta di Ubulibri. Fu per questo che gli eredi – e per prima Marta Abba, musa pirandelliana – gli proibirono da allora in poi di lavorare su quei copioni. Avrebbe potuto metterci mano solo in anni successivi, trovando la propria strada dentro la complicata questione dei diritti d’autore.

Ma appunto per questo, era un piacere per lo spettatore assistere ai suoi spettacoli, scoprire negli autori versanti prima mai visti, abbracciare la complessità dei testi, incantarsi davanti alle immagini che con l’aiuto di collaboratori fedeli (da Marco Plini, assistente al suo fianco, a Maurizio Balò, Antonio Fiorentino, Claudia Calvaresi per la scenografia, a Gigi Saccomandi al disegno delle luci) Castri riusciva a far sbocciare. 

Diana Hoebel e Rosario Lisma in Così è (se vi pare) 2007 ph Diana Hoebel
Diana Hoebel e Rosario Lisma nell’edizione 2007 di Così è (se vi pare) ph. Diana Hoebel

Misantropo

Anche quando – in Ibsen, Schnitzler, Marivaux – trovava sintonie maggiori, o addirittura si rispecchiava. Come nel Misantropo di Molière, per il quale aveva voluto, appunto, centinaia di cornici e di specchi.

Rivedere il finale di Così è (se vi pare), così facile da trovare su YouTube, è assistere a una approfondita e convincente lezione su Pirandello. Ma anche scoprire, nel riso beffardo di Eros Pagni (Laudisi), nell’ansietà genitoriale di Valeria Moriconi e Omero Antonutti, alcuni tratti che l’ispido Castri non lasciava mai trasparire in pubblico.

Valeria Moriconi, Omero Antonutti e Giovanna Bozzolo nell’edizione tv 1990 di Così è (se vi pare)

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Le STORIE di QuanteScene!
Ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, e tanti altri.

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Le Aquile randagie di Alex Cendron. Quando scoutismo voleva dire Resistenza

Aquile randagie. Credere, disobbedire, resistere è lo spettacolo scritto e interpretato da Alex Cendron. La ricostruzione del contributo dato alla Resistenza italiana, tra gli anni ’30 e ’40, dallo scoutismo, l’associazionismo giovanile , ispirato ai principi educativi di Robert Baden-Powell, i cosiddetti boy scout.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
(ph Laila Pozzo)

Vicende in massima parte sconosciute. Ma anche pagine di storia del nostro Paese. Circostanze ben documentate. Eppure raccontate raramente. 

“È una storia bella e motivante. Ci lavoro sopra da anni, studiando, scrivendo, mettendola in scena” spiega l’attore, autore e interprete dello spettacolo realizzato con la regia di Massimiliano Cividati.

Il progetto si muove su un doppio binario. Portare il pubblico a conoscenza di questo movimento di resistenza giovanile italiana: storicamente forse il primo, perché nato già nel 1928 e operante in clandestinità fino alla fine del fascismo. E al tempo stesso, mettere le doti interpretative di Cendron al servizio di episodio, avvincente, documentato, che ha avuto per protagonisti alcuni membri delle ‘Aquile randagie‘.

Gruppo scout
Immagine di repertorio

Chi erano le Aquile randagie? 

Nel 1928 Mussolini scioglie per legge le associazioni scoutistiche per convogliare tutte le loro attività di educazione e formazione nell’Opera Nazionale Balilla alle dirette dipendenze del governo. Soprattutto in Lombardia e in Emilia prende allora corpo una forma di ‘diserzione’ che spinge alcuni giovani gruppi a perseguire in clandestinità i valori e le pratiche dello scoutismo, in una forma di opposizione disarmata, periodo che verrà definito “giungla silente“.  Tra questi nuclei, uno importante è stato quello che si era dato il nome di Aquile randagie, e raggruppava ragazzi tra gli 11 e i 17 anni.

Dopo l’8 settembre ’43, usciti dalla clandestinità, i suoi membri cominciarono a impegnarsi in un’opera di salvataggio di perseguitati e ricercati di diversa nazione, razza, religione, favorendo anche numerosi e avventurosi gli espatri in Svizzera.

Da queste vicende, il regista Gianni Aureli ha tratto nel 2019, un film proiettato l’anno successivo anche all’Europarlamento a Bruxelles.

Agile, intenso

“Era un mio desiderio forte recuperare una parte sommersa di ciò che è stata la Resistenza giovanile nel nostro Paese” prosegue Cendron, attore di teatro, di cinema e di tv, che in un decennio si è conquistato la stima del pubblico e della critica.

A volte lavorando con Massimo Popolizio (John Gabriel Borkman di Ibsen), Luca Zingaretti (The Pride di Alexi Kaye Campell), Amanda Sandrelli (La locandiera). Ma anche in ruoli da protagonista: grandi apprezzamenti ha avuto il risultato a cui è giunto nell’interpretare Don Milani in Il Vangelo secondo Lorenzo, con la regia di Leo Muscato. Impegnato anche nella scrittura, da due anni Cendron porta avanti il suo progetto di riscoperta storica. 

“Con Aquile randagie sono riuscito a costruire uno spettacolo intenso, questo almeno mi dice la reazione del pubblico, ma anche di grande agilità. Praticamente faccio tutto da solo, compresa la tecnica, anche perché, come scout, ne ho imparate molte. Le repliche dello spettacolo si stanno infatti moltiplicando. Non solo nell’ambito delle associazioni che si occupano di scoutismo, ma anche per il più vasto pubblico dei teatri, colpito dall’intensità emotiva del racconto e da vicende perlopiù sconosciute”.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
ph Laila Pozzo

Controcorrente

C’è infatti nell’opinione pubblica contemporanea, in particolare tra gli adolescenti, una posizione di distanza, se non diffidenza, rispetto alle pratiche scout, intese come una forma di militarizzazione o di catechesi, che appare di retroguardia.

“È proprio questa la ragione che mi ha indotto a costruire Aquile randagie, rivolto soprattutto per chi non ha una conoscenza diretta di ciò che è stato, e oggi è, lo scoutismo” precisa Cendron.

“I principi su cui si fonda sono dichiaratamente anti-militaristi: non è associazionismo filo-conservatore, né di destra. Certo, in un tempo come questo odierno, dove le tentazioni del virtuale sono quotidiane, lo sforzo richiesto dalle pratiche scout e l’impegno all’aria aperta vanno controcorrente. E l’attrazione di questa esperienza, che ha giocato un ruolo importante della mia vita, è diminuita. È giusto conoscerla meglio”.

Lo spettacolo è in scena lunedì 16 gennaio 2023 alla Sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste

[pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste il 15 gennaio 2023]

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AQUILE RANDAGIE 
Credere Disobbedire Resistere

di e con Alex Cendron
regia Massimiliano Cividati
musiche Paolo Coletta
produzione Arca Azzurra

Europeana. Lino Guanciale e un continente diverso, scontroso

Torna in scena Europeana, il reading che Lino Guanciale ha tratto da un libro pubblicato nel 2001 dallo scrittore praghese Patrik Ourednik. Nel luglio 2021 lo spettacolo era al debutto al Mittelfest di Cividale del Friuli. Riprende ora il proprio percorso, con repliche in Friuli Venezia Giulia (13 gennaio al Verdi di Gorizia, 14 e 15 al Rossetti a Trieste) per approdare poi a marzo 2023 al Piccolo di Milano.

Lino Guanciale in Europeana al debutto a Mittelfest
Lino Guanciale in Europeana

Come eravamo: diversi

In questo anno e mezzo, l’Europa è cambiata. È una diversa Europa. Il perdurare dell’emergenza sanitaria e il prolungarsi del conflitto ai suoi confini orientali sono i motivi più espliciti. Quelli più visibili. Ma tanti altri elementi, tanti comportamenti, anche individuali, ci fanno diversi da come eravamo. Prime fra tutti, la polarizzazione delle opinioni e la semplificazione dei ragionamenti. Che ci fanno più scontrosi. Letteralmente.

In questo senso, rileggere assieme a Lino Guanciale Europeana – libro che mette nel frullatore la storia europea del XX secolo – può aiutarci a mantenere una distanza sana dal presente, a non drammatizzarlo. A capire che l’ironia è uno dei tanti modi, uno dei tanti filtri che abbiamo a disposizione.

Patrick Ourednik - Europeana

Ho pensato: posso dare un contorno agli appuntamenti di questo gennaio, in cui Guanciale è tornato a fare strage di spettatori con una nuova stagione di La Porta Rossa e un’altra di Il commissario Ricciardi. E nella vita reale – che è quel che più conta – dallo scorso novembre nel ruolo di padre.

Vi propongo perciò qui sotto un’intervista a tutto campo fatta allora e pubblicata sulla rivista Hystrio. Anche per le considerazioni che Guanciale fa a proposito della serialità televisiva, quella nostra conversazione mantiene una autorevole attualità. 🙂

Lino Guanciale

L’intervista

È uno degli attori a più alta visibilità seriale. Dodici serie tv negli ultimi dieci anni. Di quelle importanti, e per lo più da protagonista. Poi cinema, corti, radio, spot, libri, clip musicali.

Eppure, nato 42 anni fa [ndr: 44 il prossimo maggio] , tra Toro e Gemelli, in Abruzzo, Lino Guanciale non si è mai sottratto al teatro.

In palcoscenico ci torna ogni volta volentieri. Con fiducia inflessibile in ogni declinazione teatrale. Dai titoloni (esordio in Romeo e Giulietta, regia di Proietti) alle variazioni enigmatiche del post-drammatico (La classe operaia va in Paradiso e molti altri titoli sollecitati da Claudio Longhi) a monologhi e reading che lui stesso confeziona (tra i più recenti quello di devozione al corregionale Ennio Flaiano: Non svegliate lo spettatore).

Chiunque scorra la vasta costellazione web che lo ritrae in forma di interviste, fotografie, backstage, news, curiosità, indiscrezioni, scoprirà però che la definizione che ricorre più spesso è quella di sex simbol. 

“Mammamia – mi dice – mi ha fatto sempre paura essere identificato come sex symbol. Ma mi diverte pure, perché quella ‘qualifica’ l’ho guardata sempre dall’esterno e so che non mi riguarda da un punto di vista personale. Riguarda l’immagine dei personaggi che ho interpretato. L’ho capito leggendo Walter Benjamin: nel prodotto che va finire sullo schermo, l’immagine subisce tante di quelle manipolazioni che alla fine non ci si siamo più noi, gli interpreti. All’inverso, ciò che un attore fa su un palcoscenico è sempre e soltanto suo, e dei colleghi con cui a lavora assieme. Per questo il teatro è la vera casa degli attori”.

Però essere sex symbol aiuta.

“La storia dello spettacolo ci parla di attori o attrici sex symbol anche un po’ improbabili. Io sono convinto che la seduttività sia uno strumento tra gli altri per costruire relazioni con il pubblico. Ma bisogna aggiungervi un erotismo un po’ più raffinato, che passi attraverso il canale intellettuale, o una specifica grammatica d’attore, o la proposta di progetti interessanti. Insomma, da sola, la seduttività non basta per aprire le porte della storia del teatro. Tutt’al più si diventa fenomeni pop, nel Settecento come nel Duemila”.

Lino Guanciale set camerino
Guanciale sul set

Tanto per capire: il pubblico viene a teatro per vedere Guanciale, o per sentire ciò che Guanciale dice?

“Magari viene per me. Ma poi si appassiona a ciò che interpreto o leggo. Il mio tentativo è sempre quello di mettermi al servizio del testo”.

Nei fan e nelle fan, quelle che seguono il loro beniamino ovunque, c’è anche un surplus di innamoramento.

“Credo sia un problema di tutti quegli attori e attrici a cui è capitato di avere un largo seguito. Il lavoro nel cinema e in televisione accelera il rapporto di fidelizzazione, che magari ricade poi sul teatro, se uno lo fa. Ed è una specie di doping. Ma io non considero la popolarità come un fine. Per me è un mezzo per portare più gente a teatro, per farlo diventare, quello sì, popolare. Non nel senso di commerciale, ma nel senso nobile che a questa parola dava Jean Vilar, colui che aveva ideato il Festival di Avignone”. 

Con la recente moltiplicazione dei festival, che coprono oramai ogni forma di scibile umano, la formula dei reading e delle performance al leggio sta diventando infatti sempre più frequente.

“Più che un genere lo considero una dimensione interpretativa. È una formula che amo molto. Ha una sua lunga tradizione. Karl Kraus, per esempio, ci ha costruito sopra la propria fortuna. A me piace il leggio in scena, serve a mettere in evidenza la letterarietà di un libro. È un corpo a corpo con la carta, e provo un vero piacere nel lavorare con i fogli in scena. Alcune pagine invece le gestisco a memoria, impegnato in un altro corpo a corpo, quello con la musica”.

Lino Guanciale

A teatro, Guanciale lavora spesso con i musicisti, i compositori, gli ingegneri del suono. Meglio se dal vivo. 

“L’esperienza mi ha insegnato che la musica dal vivo è uno dei mezzi più potenti per mettersi in relazione con il pubblico. Certo non la devi trattare come un tappeto sonoro. Devi farne un impulso per arrivare più a fondo possibile nelle parole che porti sulla scena. Grazie alla musica, anche gli attori, oltre che il pubblico, possono sprofondare nelle parole. Per me è una specie di invasamento”.

Davide Cavuti, musicista e regista, ideatore di suoni, è sempre più spesso un compagno di scena, per esempio nel recente lavoro sulle pagine di Flaiano.

“Nel lavoro con i musicisti dal vivo, specie se improvvisano, ad emergere sono i contenuti tematici dello spettacolo. Lo spettatore è invitato a cogliere non la singola battuta, ma la struttura generativa di ciò che sta ascoltando”.

Vero. Ma poi finito lo spettacolo, uscendo da teatro, quegli stessi spettatori sono là a chiedere l’autografo non al Guanciale che si è impegnato sulle pagine di Lo spettatore addormentato, ma al protagonista di La porta rossa. Con questa serie tv, di grande successo peraltro, saremo alla terza stagione.

“Mi pare che la serialità televisiva sia un fenomeno destinato a perdurare. In fondo è l’erede di tradizioni di storytelling che risalgono all’epica più nobile, al feuilleton ottocentesco. Generi che hanno da sempre catalizzato l’attenzione del pubblico, con la messa in opera di elementi di suspence tra una puntata e l’altra”. 

Eggià, con ciò che oggi chiamiamo cliff hanger, Sherazade incantava il sultano delle Mille e una notte e così si salvava la vita.

“Grazie alla serialità, non solo televisiva, l’attenzione dello spettatore viene modulata diversamente. A teatro non è più necessario limitarsi al perimetro canonico dei 90-120 minuti. Ronconi, ma anche Fabre o Latella, sanno bene che l’attenzione non è un fatto legato al tempo, ma a come viene gestito il tempo”.

Però il binge watching, l’abbuffata di serie, il restare per ore e ore, giornate intere, incollati sugli schermi, sciroppando episodio dopo episodio, è devastante. Dal punto di vista della salute, dico.

“Concordo. Ma è una cosa sulla quale andrebbe fatta una riflessione più approfondita, e non solo in negativo. Certe forme di espansione dell’attenzione sono un orizzonte da raggiungere. Non c’è solo chi se ne sta rattrappito per un giorno a letto, c’è anche chi è capace di sprofondare dentro la narrazione, cullandosi in un altro mondo. È un nuovo stato di disposizione all’ascolto che andrebbe studiato. Perché è proprio là dentro che si nasconde il segreto millenario della narrazione”.

[intervista pubblicata sul numero 4/2021 del trimestrale Hystrio]

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EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO

di Patrik Ouredik © 2001 Patrik Ourednik
traduzione Andrea Libero Carbone © 2017 Quodlibet srl
diretto e interpretato da Lino Guanciale
regia Lino Guanciale
costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca
musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica
luci Carlo Pediani
co-produzione Wrong Child Production e Mittelfest2021
in collaborazione con Ljubljana Festival

Anatomia dell’adolescenza. Quell’anno di scuola, nel banco con Giani Stuparich

Torna in scena per qualche giorno a Trieste Quell’anno di scuola. È l’allestimento teatrale che Alessandro Marinuzzi, regista, ha tratto da un romanzo di Giani Stuparich. Le irrequietezze e i turbamenti di una generazione, ieri come oggi

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG
ph. Serena Pea (anche le seguenti)

Sono tanti i motivi che si affacciano dalle pagine di Un anno di scuola, romanzo dello scrittore triestino Giani Stuparich, pubblicato nel 1929. 

Senza nascondere la traccia autobiografica, e trasfigurandola forse solo nei nomi, Stuparich rievoca quella manciata di mesi in cui lui stesso – studente vent’anni prima dell’ultima classe di un liceo – e i suoi compagni avevano vissuto il passaggio da una agiata e tranquilla adolescenza alle responsabilità adulte.

Bildungsroman, romanzo di formazione, sarebbe la semplice formula d’inventario. Se non che, a farne un’opera davvero particolare, sono il tempo e i luoghi che inquadrano proprio “quell’anno di scuola”.

Trieste nel 1909 e l’eccitato paesaggio storico che in queste zone preparava la prima guerra mondiale si intrecciano con l’irrequietezza di ragazzi non ancora ventenni, spinti a scoprire, in tempi difficili, l’attrazione del diventare adulti e le impazienze del sesso.

Un anno di scuola è così lo studio su uno snodo di esperienze che, molto più di altre, lasciano un segno profondo per tutto il resto della vita.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Un nuovo respiro per Stuparich

Negli anni Settanta Franco Giraldi, regista di cinema e di televisione ne aveva tratto per la Rai un film tv in due puntate. Con un leggero scivolamento temporale – il 1909 diventava il 1914, apposta per precipitare nella fatidica giornata del 28 giugno, quella dell’attentato di Sarajevo – Giraldi accentuava l’intreccio delle pulsioni: esaltazione politica, esuberanza giovanile, turbamenti ormonali.

Un nodo storico, ma anche emotivo, che aveva decretato il successo e l’interesse per quel titolo, che finalmente usciva dal pur interessante scaffale della letteratura triestina del primo Novecento. Riconoscendo a Stuparich un respiro non solo locale.

Di Un anno di scuola, anche per ragioni personali, si era innamorato molto tempo fa Alessandro Marinuzzi, regista e formatore teatrale. Lui stesso aveva partecipato, giovanissimo attore, alla realizzazione del film. E ora, con il supporto di due teatri stabili – quello del Veneto e quello del Friuli Venezia Giulia – ha tentato la traduzione teatrale del romanzo.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

La macchina del tempo

Impresa ambiziosa per diverse ragioni. Primo, per la matrice narrativa e anche psicologica del materiale di partenza. Secondo, perché non è facile trovare interpreti credibili, con i quali dar vita a una classe di studenti ingenui e baldanzosi quel che basta. E con la macchina del tempo spedirli indietro quasi di un secolo.

L’operazione è riuscita, molto bene anche, a giudicare soprattutto dalla risposta del pubblico. Le repliche previste nella sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste lo scorso autunno hanno registrato ogni sera il tutto esaurito. E si dovuto pensare ad aggiungerne altre, adesso a gennaio (fino a domenica 15).

Ai due impedimenti cui accennavo – la matrice letteraria del racconto, la scelta degli interpreti – Quell’anno di scuola oppone soluzioni eccellenti. La scrittura teatrale (elaborata dallo stesso Marinuzzi assieme a Davide Rossi) destruttura la pagina, i periodi, le frasi, e li ridistribuisce tra gli attori, in un eccitato accavallarsi di battute. La parola viva vince, modellata su una pratica che del Pasticciaccio di Gadda aveva fatto un capolavoro di palcoscenico (grazie a Luca Ronconi, certo) e che aveva fatto scoprire anche a teatro Ragazzi di vita di Pasolini (con la regia di Massimo Popolizio).

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Gli interpreti, provenienti dall’esperienza collettiva di Teseo, progetto di formazione del Teatro Stabile del Veneto, incarnano vivacemente quella minuscola comunità. Anche perché la regia e gli essenziali elementi scenici di Andrea Stanisci non li costringono a far rivivere un’epoca, ma ne liberano il potenziale contemporaneo di immediatezza, entusiasmi e disillusioni.

A loro, che sono otto, si aggiunge la perizia di due attori dello Stabile del Friuli Venezia Giulia (Ester Galazzi e Riccardo Maranzana) a cui la regia affida i ruoli maturi del professore e della madre di uno dei ragazzi.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Una femmina in una classe maschile

Va ricordato che in quell’anno, il 1909, a Trieste le porte degli istituti scolastici superiori si erano aperti anche alle ragazze. Tra i maschi rumoreggianti di quella ‘ottava ginnasio’ la scrittura di Stuparich mette a fuoco il fascino di Edda.

Bella, determinata, capace, Edda Marty è la prima a iscriversi a quella scuola, ben decisa ad affrontare l’esame di maturità e poi l’università.

È storia documentata: la ragazza in realtà si chiamava Maria Prebil e i suoi compagni di classe erano i giovani rappresentanti della classe agiata di una Trieste ancora austro-ungarica e emporiale. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Irredentismo

Nelle pagine dello scrittore, i trasalimenti sentimentali, nonché erotici della scolaresca maschile, si impastano con l’afflato politico di una generazione infatuata di irredentismo, pronta a immolarsi, come effettivamente succederà, per il ricongiungimento di Trieste alla patria Italia. Ne moriranno parecchi.

Nelle scene dello spettacolo di Marinuzzi, fedeli il più possibile al romanzo, si legge certo tutto questo. Il finale dipinge anzi la catastrofe della guerra imminente. 

Ma occhi contemporanei vi leggono molto di più.

Scostato il velo carducciano e nazionalista attraverso il quale Stuparich ritraeva alcuni dei suoi compagni, ciò che si vede è il naturale, biologico slancio di una generazione non ancora ventenne che vuole progettare il futuro, che prova a costruirlo nell’impazienza e nell’ansia. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Costruire il futuro

Proprio ciò che vediamo espresso oggi negli studenti che con le parole e i libri di Greta Thunberg, hanno provato a disegnare i loro Fridays for Future. E si slanciano avanti, maldestramente a volte, per dare la svolta a un percorso che, altrimenti, sembra di nuovo avviato alla catastrofe. Chissà se bellica, chissà se ambientale.

Su questa incertezza, sulle paure e sulle speranze, più che sulla rievocazione storica, mi pare che lo spettacolo di Alessandro Marinuzzi indirizzi i pensieri del suo pubblico. 

Che ogni sera lascia la sala emozionato, anche commosso, accompagnato da un valzerino che alcuni di voi, lettori scaltri, riconosceranno.

Perché proviene da uno spettacolo di Tadeusz Kantor. Che ha un titolo fatto apposta per ritrarre quegli studenti di ginnasio che cent’anni fa la Storia aveva maldestramente avviato verso il fronte: La classe morta.

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QUELL’ANNO DI SCUOLA

elaborazione drammaturgica Alessandro Marinuzzi, Davide Rossi
tratto da “Un anno di scuola” di Giani Stuparich
editore Quodlibet per gentile concessione di Nefertiti Film
progetto drammaturgico e regia Alessandro Marinuzzi
con gli attori della Compagnia Stabile del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Ester Galazzi e Riccardo Maranzana
e con gli attori e le attrici della Compagnia Giovani (progetto TeSeO) del Teatro Stabile del Veneto Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro
elementi scenici e costumi Andrea Stanisci
assistente alla regia Davide Rossi
fotografie di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

Befana in casa Cupiello

Un po’ per colpa mia, un po’ per merito loro, Natale in casa Cupiello, prodotto da Interno 5 e Teatri Associati di Napoli, conquista in questi giorni il premio di spettacolo più inconsueto a cavallo del cambio dell’anno. L’ho visto al Teatro Bellini nel giorno della Befana.

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo
ph Anna Camerlingo (anche le seguenti)

La colpa è mia perché a Napoli sono sbarcato con qualche giorno di ritardo e invece di far coincidere la commedia di Eduardo con i tre giorni di Natale, come la tradizione vorrebbe, me la sono vista nel pomeriggio dell’Epifania.

Il merito è loro perché questo classico del teatro napoletano, una volta tanto, non è stato allestito nella chiave di realismo dolceamaro alla quale Eduardo, i suoi figli, i pronipoti, ci hanno abituato. Ma viene affidato tutto a pupazzi. Ai quali dà voce un solo attore, Luca Saccoia.

Luca Saccoia in Natale in casa Cupiello - De Filippo- ph Anna Camerlingo

Luca Cupiello e il tutto esaurito

Due anomalie in una, pertanto, in questa Befana in casa Cupiello, che merita di essere segnalata, non fosse altro perché il Teatro Bellini (dove ha debuttato lo scorso 20 dicembre e andrà in scena fino all’8 gennaio 2023) registra ogni sera il tutto esaurito. Che suggerisce pure l’aggiunta di sedie ai lati della platea, per esaudire tutte le richieste.

La ragione è nella originalità dell’allestimento, che allontana la commedia dal registro basso-borghese e novecentesco dentro il quale Luca Cupiello e suoi famigliari erano nati (la commedia risale addirittura al 1931, e festeggia quindi adesso novant’anni di rappresentazioni).

Grazie invece alla scelta delle figuresupermarionette le chiamava Edward Gordon Craig – dà a quei personaggi la parvenza di creature che si elevano oltre la Storia, eroi di un canone universale, quali potrebbero essere per esempio Ulisse, don Chisciotte, Padre Ubu… Ai quali il teatro delle figure spesso si è interessato.

Fisse nelle espressioni del volto, astratte da ciò che è inesorabilmente umano, troppo umano, aliene alle emozioni e alla soggettività, siano pupazzi, fantocci, marionette, burattini… le figure sono essenze teatrali senza età né tempo. Divinità.

Natale in casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

Sulle proprie spalle

Lo spettacolo, diretto da Lello Serao, gioca inoltre sul filo del virtuosismo. La famiglia Cupiello è in questo caso affidata alla voce e alla presenza di colui che, si potrebbe dire, sostiene tutta l’opera sulle proprie spalle.

Il canto, le voci, la manipolazione a vista dei pupazzi, i primi piani in ribalta, si devono tutti a Luca Saccoia (che assieme Vincenzo Ambrosino ha ideato il progetto). Dietro a lui, comunque, nel buio di un meccanismo scenico animato con indubbia perizia, ci sono almeno sei abili movimentatori. Vestiti tutti di nero, per mimetizzarsi con lo sfondo, mentre fanno vivere sul palco i fantocci ideati e costruiti da Tiziano Fario.

La vicenda della famiglia Cupiello, suppongo, la conoscete. Le storiche edizioni televisive (1962 e 1977) interpretate dallo stesso Eduardo e il loro incipit promosso a icona (Lucariè, Lucariè, scètate, songh’ ‘e nnove…), ma anche una più recente versione con Sergio Castellitto (2020), hanno fatto di Natale in casa Cupiello uno dei classici della tv in tempo di festa. E non occorre dunque rammentare la vicenda.

Natale in Casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

La cena della vigilia

Si dovrà invece dire che, ogni sera al Bellini, nella sala piccola, a strappare a cascate gli applausi è proprio il secondo atto. 

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo

Quello che trasforma la già nervosa cena della vigilia di Natale in un dramma della gelosia, con il suo sottofinale di re magi, bengala scintillanti e canto natalizio (Tu scendi dalle stelle, o mia Concetta, e io t’aggiu portato questa burzetta) che è un topic del canone teatrale italiano, non solo natalizio.

Tant’è vero che fa piacere assistervi anche nel giorno della Befana.

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NATALE IN CASA CUPIELLO

spettacolo per attore cum figuris
di Eduardo De Filippo
da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia
con Luca Saccoia 
regia Lello Serao
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia
costumi Federica del Gaudio 
musiche originali Luca Toller
fotografie di Anna Camerlingo
un progetto a cura di Interno 5 e Teatri Associati di Napoli
in coproduzione con Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellinicon il sostegno della Fondazione De Filippo per i 90 anni di Natale in casa Cupiello

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il celebre finale del secondo atto, nella versione televisiva 1977 con Eduardo De Filippo (e Luca De Filippo, Gino Maringola, Pupella Maggio)