Nel mese un po’ trafelato che si conclude oggi, penso ci debba essere, qui su QuanteScene!, un pensiero rivolto a Massimo Castri, regista.

L’ispido Castri
Regista e intellettuale, nel senso più positivo della parola, Massimo Castri era nato nel 1943 ed è scomparso nel 2013, dieci anni fa, in gennaio, il 23 per essere esatti, senza nemmeno sfiorare la soglia dei 70 anni.
Personalità d’artista perfetta per le mie Storie, nelle quali racconto incontri con uomini (e donne) straordinari. A volte capaci di dare una svolta alla mia vita. Perlomeno a quella nel teatro.
È stato così anche per Massimo Castri. L’ho incontrato più volte. Spesso per intervistarlo. Oppure per chiacchierare. E sono stato testimone di alcuni siparietti che gli piaceva recitare in pubblico – se ho inteso bene il suo carattere – per confermare l’immagine burbera e di misantropo che ci teneva a dare di sé.
Chi lo ha conosciuto meglio, sa quanto gli fosse congeniale questa fisionomia. L’ispido Castri – diceva Anna Maria Guarnieri, ricordandolo affettuosamente dieci anni fa.

Questa immagine: segui il link per saperne di più.
I rusteghi
Lo ricordo a Treviso, per esempio, nel 1992, febbraio, al debutto di I rusteghi, il primo testo di Goldoni che – nolente più che volente – lui aveva messo in scena. Del resto era l’anno del Bicentenario e un Goldoni, un qualsiasi Goldoni, anche lui lo doveva fare. Aveva scelto quello, perché rustego, tutto sommato, era anche lui: toscano, non di fiorentini modi cortesi, ma di Cortona. E a volte senza garbo, pure.
A quella ‘prima’, in platea poco distante da me, per buona parte del suo spettacolo Castri aveva sbuffato e rumoreggiato, insoddisfatto, masticando tra i denti la sigaretta spenta. A un certo punto una spettatrice, seduta davanti a lui, esasperata da quel tipo che non la smetteva di agitarsi, si era voltata e lo aveva zittito. “Guardi che sono il regista” aveva risposto piccato.
Lo sapevo, infatti, che il lieto fine goldoniano lui non lo sopportava proprio. Lo incuriosiva il Goldoni nero, acre nei confronti della rampante borghesia veneziana, ma ne vedeva l’ipocrisia quando era necessario portare a termine, col sorriso, le sue commedie.
Me lo aveva detto poco prima, in camerino, dove facevano bella mostra di sé, ad asciugare, le bianche magliette della salute che consumava in quantità spropositate. Soprattutto nell’imminenza di un debutto.
Massimo Castri, la regia critica
Spigolosità e traspirazione che non offuscano nemmeno per un attimo, il suo contributo al teatro del secondo Novecento e a quel fenomeno tutto italiano che va sotto il nome di regia critica: Strehler (che era del ’21), Ronconi (che era del ’33), e poi lui (del ’43).
Come Mariangela Melato, scomparsa dieci giorni prima, Castri era della generazione degli artisti nati durante la guerra e partecipi, ancora bambini, dell’esperienza della ricostruzione, delle trasformazioni sociali, del peso diverso della cultura e dello spettacolo che la nuova Italia cominciava a scoprire. Fatti ed esperienze che avrebbero modellato, in entrambi, il carattere, i pensieri, le scelte personali e quelle politiche.

Un corpo a corpo con gli autori
Ma l’anticonformismo della Melato, nella storia e nel carattere di Massimo Castri si era declinato molto diversamente: un ruvido corpo a corpo con gli autori che intendeva allestire. Diceva di non amare Pirandello, trovava detestabile Pasolini. E appunto ipocrita Goldoni. Ma li distendeva sul suo lettino da psicoanalista, e li metteva davanti alle loro contraddizioni. Poi li portava in scena.
Ancora trentenne, questo trattamento analitico, Castri lo aveva riservato a Pirandello, di cui aveva inizialmente messo in scena tre lavori. I quali – molto più di libri e studi specialistici – studiano, illuminano, e addirittura smascherano le segrete inconfessabili pulsioni dello scrittore siciliano.

Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi e l’ancora più disturbante Così è (se vi pare), erano stati poi raccolti nel volume Pirandello Ottanta di Ubulibri. Fu per questo che gli eredi – e per prima Marta Abba, musa pirandelliana – gli proibirono da allora in poi di lavorare su quei copioni. Avrebbe potuto metterci mano solo in anni successivi, trovando la propria strada dentro la complicata questione dei diritti d’autore.
Ma appunto per questo, era un piacere per lo spettatore assistere ai suoi spettacoli, scoprire negli autori versanti prima mai visti, abbracciare la complessità dei testi, incantarsi davanti alle immagini che con l’aiuto di collaboratori fedeli (da Marco Plini, assistente al suo fianco, a Maurizio Balò, Antonio Fiorentino, Claudia Calvaresi per la scenografia, a Gigi Saccomandi al disegno delle luci) Castri riusciva a far sbocciare.

Misantropo
Anche quando – in Ibsen, Schnitzler, Marivaux – trovava sintonie maggiori, o addirittura si rispecchiava. Come nel Misantropo di Molière, per il quale aveva voluto, appunto, centinaia di cornici e di specchi.
Rivedere il finale di Così è (se vi pare), così facile da trovare su YouTube, è assistere a una approfondita e convincente lezione su Pirandello. Ma anche scoprire, nel riso beffardo di Eros Pagni (Laudisi), nell’ansietà genitoriale di Valeria Moriconi e Omero Antonutti, alcuni tratti che l’ispido Castri non lasciava mai trasparire in pubblico.
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