Questo Čechov è proprio Čechov. E un po’ mi spiace

Con un po’ ritardo, ma sono riuscito a vedere Il gabbiano firmato Leonardo Lidi. Aveva debuttato già l’estate scorsa, a Spoleto. Adesso, tra inverno e primavera si è incamminato in una fitta tournée in tanti teatri italiani. Del resto, a produrlo sono ben tre stabili: Torino, Umbria , Emilia Romagna.

Così l’ho visto al Verdi di Pordenone, un venerdì sera, in quella ricca e cospicua provincia italiana, dove la provincia russa, minuziosamente descritta da Čechov, si accomoda bene. Lo si notava anche dall’adesione del pubblico, molto coinvolto da questa storia di amori sbagliati e gabbiani morti ammazzati.

Il gabbiano - Leonardo Lidi

Quasi 125 anni separano la disastrosa ‘prima’ del Gabbiano, a San Pietroburgo (1896), da questa disciplinata replica a Pordenone. I tempi sono cambiati, i luoghi pure.

Quando scrive quella commedia Anton Čechov ha trentacinque anni, è malato, si sente vecchio. Leonardo Lidi ne ha trentaquattro quando, ai giorni nostri, decide di metterla in scena, e di lui si parla ancora come un giovane regista. I numeri, la parola vecchio, la parola giovane, hanno significati relativi.

Inutile affaccendarsi

Resta intatto invece, se non mi sbaglio, quel senso di torpore, o di languore, o di inutile affaccendarsi, quella rassegnazione che è tipica del teatro di Čechov. Lo dice molto bene Angelo Maria Ripellino, il nostro più bravo slavista del secolo scorso, nella sua introduzione al Teatro di Čechov per Einaudi. 

Sono sicuro che Lidi se l’è letta. Studiata anzi. Nei personaggi dello spettacolo rivedo proprio le sue frasi: “inchiodati in un punto morto… si muovono a vuoto… la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli…“. 

Così come giurerei che Lidi si è letto le note di regia al Gabbiano di Konstantin Stanislavskij, il regista che resuscitò la commedia, assieme a Nemirovič-Dančenko (1898), due anni esatti dopo il fallimento iniziale. Ne ha tratto, non dico suggerimenti, ma ispirazione, approfittando anche delle osservazioni e della traduzione di un altro nostro grande slavista, contemporaneo però, Fausto Malcovati (si possono leggere ora ripubblicate da Cuepress).

Il gabbiano - Leonardo Lidi - ph. Gianluca Pantaleo
ph. Gianluca Pantaleo

Fila tutto liscio

Sennò come spiegare questo Čechov così cechoviano. Questa di Lidi è una regia lontana da quella malizia che aveva spinto il regista, nato anche lui in provincia, dalle parti di Piacenza, a destrutturare Spettri di Ibsen, o a rigenerare La città morta di D’Annunzio (scrittori entrambi coevi a Čechov). Con un gran gusto perverso il primo, con una forte iniezione di parodia il secondo. 

E invece qui, con Čechov tutto fila, liscio, come l’autore vuole, nessun sussulto. 

La grazia e il tedio a morte del vivere in provincia” (poetava così un altro emiliano, Francesco Guccini). “I personaggi ascoltano di preferenza se stessi, studiandosi di cogliere e di rivelare ciò che avviene dentro a loro. Chiusi nel cerchio stregato delle proprie sollecitudini sono estranei l’uno all’altro, e non sanno comunicare né porgersi aiuto” (questo invece è di nuovo Ripellino). 

Ci sono pure dei guizzi ironici, e sono proprio quelle punture burlesche che Čechov amava inserire qua e là, tanto per dissipare ogni sospetto tragico. La stessa cosa fa Lidi.

[Tipo: si sente Gigliola Cinquetti cantare La Boèhme (da Canzonissima 1972) dopo che Nina ha detto che in casa di Kostja vivono come zingari. Spiritoso, no? Eppure mi domando sempre: com’è che questi millennial conoscono, magari amano, ste cose 😉 quelle che un boomer come me ha già archiviato in zona oblio?]

Gabbiano e solitudine

Ma poi è sulle note di solitudine che si accordano gli attori, a cui la regia sembra voler smorzare il mordente: Christian La Rosa (che era un disadattato Osvald in Spettri, un archeologo clown in La città morta) restituisce qui una interpretazione onesta, già vista, consolidata, di Kostja, giovane artista, pieno di ambizioni al primo atto, suicida per fallimento alla fine del quarto.

Mi è pure difficile capire quale inspiegabile attrazione amorosa debba coinvolgere in un triangolo stanco già sul nascere il vaporoso scrittore Trigorin (Massimiliano Speziani), l’egotistica attrice Arkadina (Francesca Mazza), la povera Nina, gabbiano protagonista suo malgrado (Giuliana Vigogna). E poi basta una battuta sola, a Maša (Ilaria Falini), per descriversi tutta: “Porto il lutto per la mia vita. Sono infelice“. Infelici sono tutti.

Il gabbiano Leonardo Lidi - Christian La Rosa e Giuliava Vigogna - ph. Gianluca Pantaleo
Christian La Rosa e Giuliana Vigogna – ph. Gianluca Pantaleo

“Il mordente è roba giovanilistica”

Leggo le note di regia a spettacolo concluso. Qui Lidi ci spiega che Čechov è il suo autore preferito, la sua scuola, che ogni tanto lo va trovare, e che si fida di quello che il russo gli dice. 

Čechov mi dice con cura che alla fine non c’è niente da vincere e che nessuna situazione si può gestire fino in fondo, mi abbraccia raccontandomi che il mordente è roba giovanilistica e che questa mania di controllo che tanto ci tranquillizza va mandata lentamente a quel paese“. 

Ho capito, ma un po’ mi spiace. Perché così, a 34 anni, Lidi sembra stare più con l’attempato scrittore Trigorin, il piacione, che con l’ambizioso Kostja, l’avventuroso. E poi perché di Čechov, Lidi ne promette altri due, prossimamente. E perché di Čechov chechoviani, in giro, ce ne son sempre tanti.

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IL GABBIANO 
progetto Čechov – prima tappa
da Anton Cechov
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, Angela Malfitano
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioliproduzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

visto al Teatro Verdi di Pordenone, marzo 2023

Akropolis non è solo Atene

Appartato. Defilato. Appena appena in periferia. A ponente di Genova. Devi sapere dov’è, per arrivarci. È un teatro. Ma è soprattutto uno spazio multiplo di lavoro. Uno studio per film-maker e per gente che si impegna, molto, nei libri. Inoltre: pedagogia e residenze artistiche, un festival, alfabetizzazione scenica, sviluppo dell’arte dello spettatore. Anche un Premio Ubu 2017 come progetto speciale. Una factory, insomma.

Apocatastasi - Akropolis - Genova

Factory

Mi è venuta subito in mente quella parola, quando è arrivato l’invito a visitare, assieme ad alcuni colleghi che scrivono di teatro, gli spazi di Akropolis, Sestri ponente, pochi chilometri in linea d’aria dalla famosa Lanterna. 

Factory. Non proprio quella resa famosa nei formidabili anni Sessanta da Andy Warhol, tutta pop art e trasgressione. Sotto i ponti, da allora ne sono passate di situazioni. Il pop è sparito dall’orizzonte. O meglio, ce n’è fin troppo, ma di sostanza diversa. E niente più trasgressione, siamo tutti più ponderati adesso, nei nostri severi anni Dieci e Venti. 

Akropolis è infatti una factory post-novecentesca, rigorosa, giudiziosa, un gruppo di lavoro e di pensiero. Al timone ci sono Clemente Tafuri e David Beronio. Che vent’anni fa, anzi qualcosa di più (2001), avevano deciso di fondare questa situazione

David Beronio e Clemente Tafuri - ph Laila Pozzo
David Beronio e Clemente Tafuri – ph Laila Pozzo

Akropolis, non solo Atene

Akropolis, lo sanno tutti, è quella di Atene, e anche di decine di città mediterranee. Akropolis, lo sanno molti di meno, è uno dei tre spettacoli culto di Grotowski, prima che il regista polacco optasse per altre speculazioni .

Le ragioni di quella scelta, quella fondazione che apriva il nuovo millennio a Genova, devono perciò stare là. In un luogo della mente, una toponomastica ideale che si situa tra l’origine e gli esiti del teatro. 

L’acropoli custodisce i misteri, rinnova il sacro” spiegano Tafuri e Beronio ” È solo in apparenza uno spazio separato. In realtà è, con l’agorà, il teatro di Dioniso e i luoghi preposti alla celebrazione dei misteri, il cuore pulsante di un’intera civiltà“.

Certo la civiltà nostra contemporanea, non ha più un cuore. Ne ha mille, migliaia, milioni. Ma lo sforzo per ricondurre teatro, arti performative, libri e prodotti audiovisivi, a un solo principio forte, a una originaria ispirazione, qui si percepisce bene. 

Akropolis - sala con gradinate chiuse
La sala di Akropolis con le gradinate detraibili

Lo avevo intuito già dalle pagine dei libri che da anni accompagnano l’attività di Akropolis. La collana si intitola Testimonianze ricerca azioni e sta in uno scaffale della mia libreria, un po’ defilato anche quello. È un taglio editoriale che si che nutre di filosofia, antropologia, umanesimi antichi e nuovi, e ritorna su su, fino a Nietzsche e alle sue riflessioni sulla nascita della tragedia. Poi corre giù giù, fino a uno dei padri negletti del teatro del ‘900 italiano: Alessandro Fersen.

Eliminare il superfluo è il motto che se ne può dedurre: andare alle radici. 

Viaggio ai confini del teatro

Lo intuisco anche adesso, mentre visito il loro spazio, rinnovato da qualche anno con una platea dinamica e leggera, dove Beronio e Tafuri ci fanno vedere i loro video e il loro teatro. Tre film-documentario dedicati a Paola Bianchi, una perfomer, a Carlo Sini, un filosofo, a Gianni Staropoli, un creatore di luce. Ce n’è ancora un altro dedicato a Massimiliano Civica

immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini
immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini

Viaggio ai confini del teatro è il sottotitolo per questo progetto. E si capisce bene, dal formato-intervista, dall’obiettivo-ritratto, dalle parole dette, che i tre vogliono aprirci porte e condurci in territori dove la definizione standard di teatro non vale più. Perché corpo, conoscenza, luce, sono grimaldelli per un discorso sulle profondità della rappresentazione. La parola giusta, anzi, è presentazione, messa in scena.

La danza dell’Ade

Il che accade un po’ più tardi, la sera, quando nello stesso spazio viene presentato Apocatastasi. Titolo complicato (io lo interpreto come ribaltamento radicale) e lavoro performativo essenziale. Nella presenze e nelle movenze di due figure femminili e una sola sedia, lo spettacolo lascia in noi spettatori il senso di ciò potrebbe, o dovrebbe essere stata, una “danza dell’Ade”: i volti oscurati dai lunghi capelli, la negazione dell’identità, due creature in relazione a tratti complice, a tratti conflittuale.

I fiati della colonna sonora, dal vivo, sono poi la sorpresa che si svela solo alla fine, con l’apparizione del Mademi Quartet. Formazione sperimentale che apre anche alla musica il registro plurale di questa Factory. Defilata, riservata, nella Genova del rumoroso business crocieristico. Turisti di terra e di mare che tra qualche giorno faranno magari tappa ad Atene. Per loro Akropolis sarà solo occasione per il prossimo selfie.

Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi
Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi

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LA PAROLA MALEDETTA. VIAGGIO AI CONFINI DEL TEATRO
quattro film di Clemente Tafuri e David Beronio
1) MASSIMILIANO CIVICA
2) PAOLA BIANCHI
3) CARLO SINI
4) GIANNI STAROPOLI
con la fotografia e il montaggio di Luca Donatiello e Alessandro Romi
produzione Teatro Akropolis Akropolislibri (2020, 2021, 2022)

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APOCATASTASI
regia Clemente Tafuri, David Beronio
con Roberta Campi, Giulia Franzone
musiche originali: Pietro Borgonovo /Mademi Quartet
produzione Teatro Akropolis con GOG – Giovine Orchestra Genovese

Umberto Saba poeta, nella succursale dell’inferno

Il 9 marzo 1893, a Trieste, nasceva Umberto Saba, il poeta del Canzoniere, della scontrosa grazia, della rima fiore amore.

Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e RaiRadio3 ne ricordano l’anniversario con una trasmissione in diretta (venerdì 10 marzo, ore 20.30).

Dal palcoscenico del Politeama Rossetti, Mauro Covacich, scrittore triestino, esplora la vita e i testi di Umberto Saba. Come aveva già fatto negli scorsi anni con Italo Svevo e James Joyce.

Umberto Saba a passeggio per Trieste
Umberto Saba a passeggio per Trieste

Trinità triestina

Prima era venuto Svevo, scrittore e manager. Poi Joyce, con quell’aria da ubriacone santissimo. Si completa adesso con Umberto Saba la trilogia teatrale che lo scrittore Mauro Covacich ha dedicato alla trinità letteraria triestina del primo Novecento.

In occasione del 140esimo anniversario – Saba era nato a Trieste il 9 marzo del 1883 – anche RadioRai si impegna a ricordare quanto sia stato importante, ma anche ambivalente, il rapporto tra il poeta e questa città. 

In diretta dal palcoscenico

Venerdì 10 marzo (in diretta, ore 20.30) RaiRadio3 offre all’ascolto una prova di Saba, il monologo che Covacich sta mettendo a punto in teatro, in vista del debutto dello spettacolo nel cartellone autunnale dello Stabile del Friuli Venezia Giulia, con la regia di Alberto Giusta, nel quadro della valorizzazione dei giacimenti culturali del territorio.

Gli appuntamenti teatrali di RaiRadio3, quelli curati da Antonio Audino, avevano già proposto l’ascolto di Joyce: era accaduto in occasione del Bloomsday lo scorso anno. Ora è la volta del poeta del Canzoniere, della rima fiore amore, della scontrosa grazia.

Intervista

Tre è un numero divino, non crede Covacich?

“Svevo Joyce Saba. Questa trilogia è il mio modo di fare i conti con quei grandi. Figure che, al tempo in cui ero un giovane scrittore, percepivo come un ingombro. Avevano su di me, esordiente, un effetto inibitorio. Adesso, con spalle di scrittura un po’ più larghe, e con tutta la reverenza e la soggezione del caso, provo ad mettermi di fronte a loro. Faccio il loro stesso mestiere, mi dico, gli attrezzi sono gli stessi. Ma non sono un critico letterario: li affronto e ne esploro piuttosto le pieghe umane”.

A Umberto Saba però non si addice una biografia clamorosa. Non è stato un perdente di successo, come lo sono stati Svevo e Joyce.

“Ha avuto una vita movimentata anche lui. Molto più di quanto immagina chi lo vede rintanato tra gli scaffali della libreria di via San Nicolò. Ha conosciuto stagioni diverse, città diverse: la Firenze della rivista la Voce, la Milano dell’editoria e del giornalismo, Parigi. Con lui, soprattutto, ho voluto esplorare la forza della parola poetica. Perché “La coscienza di Zeno” la puoi leggere e ne puoi parlare. La poesia no. La poesia va detta, recitata, eseguita. Non se può parlare senza averla fatta ascoltare. Ne ho messa tanta, della sua poesia, in questo spettacolo. Detto questo, Saba è certo diverso dagli altri due”.

Diversa anche la simpatia, l’empatia anzi, con cui lei ne parla. 

“Era una persona difficile. Non era mai soddisfatto. Era pure scontroso, lamentoso, rivendicativo. Ciò non toglie che fosse un grandissimo poeta. Ma con i grandi poeti mica ci devi andare a cena”. 

Insomma, non le sta simpaticissimo.

“Volevo mantenere tutta la franchezza e la trasparenza possibili nel parlare di questi tre scrittori. Seguire la mia attitudine nei loro confronti. Non posso negare che di Joyce sono un ammiratore, un vero fan. Come quei ragazzini che in cameretta attaccano il manifesto del calciatore del cuore”.

Saba si lamentava di aver dato più di quanto aveva ricevuto.

“Aveva la sensazione di essere considerato poco. Impossibile riuscire a convincerlo del contrario. E ci si era rovinato la vita. Nonostante i premi, nonostante la laurea honoris causa dell’università di Roma. Era talmente insoddisfatto che aveva pubblicato un saggio nel quale, sotto falso nome, dava un’interpretazione critica delle sue poesie: riteneva di saperlo far meglio di quanto non facessero i critici di professione. Poi, detestava Ungaretti, che pure si era adoperato per fargli ottenere quella laurea. Detestava Montale, che lo andava ogni giorno a trovare in tempi difficili. Se l’era presa con Slataper e anche con la rivista Solaria, che gli aveva dedicato perfino un numero monografico”. 

La succursale dell’inferno

A volte scrive che Trieste ha “una scontrosa grazia”. A volte la definisce “una succursale dell’inferno”. Nel secolo scorso, si parlava di ambivalenza.

“Questa città, lui la ama. Ma la odia anche. Eppure sappiamo che è stato proprio Umberto Saba che ha reso grande l’aria di Trieste, i suoi cieli, le sue salite, le partite di calcio, le donne, la gente per strada. È lui il genius loci, non c’è alcun dubbio”.

Per questa ambivalenza del sentimento, lei lo sente compagno?

“Massì, in filigrana. Ho trovato nella sua sua vita somiglianze che ritrovo nella mia. All’inizio anch’io mi ero allontanato da Trieste. Ho recuperato il mio rapporto con la città di recente. Anche grazie a queste tre esperienze teatrali. Potrei pensare che, in trasparenza, dietro alla sua vita ci sia anche la mia. Ma non ho voluto dirlo ‘apertis verbis'”.

[questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO, il 10 marzo 2023]

Verona è un bosco. Mario Martone esplora Romeo e Giulietta

Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta. Trentuno interpreti schierati davanti al pubblico entusiasta del Piccolo Teatro di Milano.
Quel pubblico che ha fiuto, che da sempre sa apprezzare, e vigorosamente applaude i grandi allestimenti. Lo faceva con Strehler. Lo faceva con Ronconi. Oggi lo fa con Martone.
In Italia, la grande regia continua.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
Romeo e Giulietta – ph Masiar Pasquali

Lacrime e adrenalina

L’intenzione – se ho capito bene ciò che ha detto nelle interviste – era dare a Romeo e Giulietta nuova vita. Conservare la storia, la potenza, la fortuna del più famoso fra i testi di Shakespeare. E allo stesso tempo liberarlo da croste, letture grigie, antiquate traduzioni. E da quella mitologia, teatrale e turistica assieme, che porta oggi a Verona milioni di persone. 

Mario Martone – se ho raccolto a dovere i tanti fili dello spettacolo – c’è riuscito. Come gli è capitato spesso di fare con i suoi allestimenti musicali (Barbiere e Traviata, per esempio). 

Oggi consegna al maggior palcoscenico contemporaneo italiano, quella combinazione di altezze e di bassifondi, di poesia e trivialità, di comico e tragico, che di sicuro c’era ai tempi in cui, con gli stessi ingredienti, il giovane Shakespeare catturava il pubblico di una Londra aristocratica e ultrapopolare, capace di lacrime per la acerba e funesta storia d’amore, ma anche di adrenalina davanti al sangue e ai pestaggi di giovani bande rivali. 

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

“Sono partito proprio dall’età – scrive il regista – da questo mondo minorenne misterioso, ambiguo, tutto da esplorare, come nel testo di Shakespeare, che ci avverte che non sempre tutto è scritto; quindi molto va cercato, interpretato”

Missione compiuta, direi. Come era compiuto il ribaltamento geniale, sessant’anni fa, di Sondheim e Bernstein in quella West Side Story (1961) di bianchi e portoricani. O più tardi di Baz Luhrmann, nel californiano William Shakespeare’s Romeo + Juliet (1996), reinventato per Leo Di Caprio e Claire Danes a Verona Beach, periferia pulp di Los Angeles.

Sballati e attaccabrighe 

Niente Verona nemmeno per Martone. Né balcone né cripta. E invece, con maestoso colpo di scena, un bosco lussureggiante, un intrico d’alberi, di foglie, di rami, camminamenti pericolosi, una stellata notte del cuore, questa è Verona.

Ma anche nuvole video, ombre minacciose dentro le quali si nascondono e si dipanano l’amore e i coltelli, Bach e l’house da discoteca, dance party e aperitivini. E inoltre birrette, caffè, occhiali da sole, felpe con il cappuccio, rottami polverosi e la jeep per il fuoristrada.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Segni contemporanei, ma non è un’attualizzazione. È uno Shakespeare infiltrato dal presente, cortocircuito tra il volo metaforico delle battute più celebri (dove cantano allodole e usignoli, dove la luce erompe da est) e l’aggressivo vocabolario di una treccani aggiornata. Nella quale daspo (che poi sarebbe l’esilio) e troia rifulgono alla luce blu delle sirene dei carabinieri. I Capuleti e i Montecchi di uno Shakespeare alcolico, sboccato, sballato, scurrile. 

Credo che la scena boschiva e strepitosa di Margherita Palli e la traduzione di Chiara Lagani a cui Martone aggiunge il propio carico di slang, sapranno rendere Shakespeare digeribile anche al pubblico delle scuole. Che di Capuleti e Montecchi ignora – per quella che è la mia esperienza – persino il nome

Grintosi, ribelli, delicati

Dentro al cast sornione, nel reparto genitoriale, Martone dispiega alcuni tra i nomi pop della scena italiana oggi, fra i più capaci di caricare di colore quei personaggi che edizioni banali di Romeo e Giulietta avevano ingrigito, per puntare al plot romantico.

Qui invece c’è grinta di Licia Lanera (che da balia si svela audace zia), di Michele Di Mauro, (festaiolo e irascibile boss dei Capuleti), di Gabriele Benedetti (che si fa frate condiscendente e parlaccione), di Letizia Guidone (una madre Capuleti avvolta in vestaglie di seta da dark lady). 

Gabriele Benedetti in Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Atletico e fumantino è poi il reparto adolescenziale. Ribelli senza causa, attaccabrighe selvatici pronti per un niente a venire alle mani e alle lame. Velocissimi ad arrampicarsi sugli alberi o a improvvisare una band canterina, basso, chitarra, percussioni. Capaci anche di esaltanti performance orali. Al monologo della regina Mab, Alessandro Bay Rossi, assicura l’impeto di uno poetry slam di scatenata fantasia. E non gli sono da meno Leonardo Castellani (Tebaldo) e Edoardo Sabato (Benvolio). Persino a Paride, insipido e sfortunato promesso sposo, Emanuele Maria Di Stefano dà una sua drammatica dignità.

Francesco Gheghi e Anita Serafini - Romeo e Giulietta - Piccolo Teatro Milano
ph Masiar Pasquali

Ma a fissarsi nella memoria degli spettatori saranno – ne sono sicuro – la delicatezza e la sicurezza con cui i giovanissimi Francesco Gheghi (19 anni) e Anita Serafini (15 anni) affrontano parti che, da quando Shakespeare le ha messe su carta, mettono i brividi a qualsiasi attore, con ben più esperienza.

Il suo Romeo timidino, la sua Giulietta imbronciata, sono gli assi vincenti di questa produzione allestimento. Sembra davvero che incontrino quell’amore che si incontra per la prima volta. Sembra che bevano davvero il veleno fiabesco che li uccide. Ma che da più di quattro secoli li rende anche immortali.

In scena al Piccolo Teatro di Milano, fino al 6 aprile

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ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
traduzione Chiara Lagani
adattamento e regia Mario Martone
scene Margherita Palli
costumi Giada Masi
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
video Alessandro Papa
regista assistente Raffaele Di Florio

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani

e con Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino
e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano: Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa