La donna è sola, nel centro, quasi, del vasto salone. Dalle pareti gli affreschi di dodici profeti biblici la osservano. La osserviamo anche noi – grappolo di spettatori spersi nell’enormità dell’ambiente.
Che è quello veneziano della Scuola Grande della Misericordia, da poco restituita alla luminosità di un tempo e destinata a innovativo spazio museale.

La donna – la possiamo ora scorgere più da vicino ora, girarle attorno – è alta, imponente, si sorregge su un lungo ramo, dalla cui sommità spunta qualche foglia. L’impermeabile color sabbia, l’incarnato scuro, la parrucca, il volto imperturbabile, la rendono una creatura, più che esotica, aliena, divina. Ci colpisce la sua immobilità, ci turba il sibilo dei suoi lamenti. E ci interroga, da terra, una scarpa da ginnastica dentro alla quale va a infilarsi il ramo.
La performance – quasi mezz’ora – si intitola Domani. La firma Romeo Castellucci e, come la maggior parte delle opere del regista, preserva vergine il proprio mistero. Noi spettatori possiamo soltanto intuire qualcosa. Che la donna è cieca, perché i suoi occhi sono completamente bianchi, vuoti. Che è il ramo a guidarla nell’avanzare, dentro al proprio buio, come càpita ai rabdomanti. Che quel lungo pezzo di legno, va a sbattere ogni tanto, casualmente, sulle pareti, e che il colpo genera un fragoroso rimbombo elettronico (l’ingegneria del suono è di Scott Gibson). L’eco lo amplifica, l’ambiente si satura di suono, i timpani ne vengono offesi.
Noi, veggenti quotidiani
Ignoto è il senso, meno che meno il significato, della performance dal titolo profetico: appunto Domani.
Dovremo essere noi, testimoni e silenziosi partecipi dell’evento, a collocarla dentro le nostre esperienze. Forse dentro le nostre vite. Lasciando che si incagli nella memoria per la sua ambiguità e per i suoi emblemi. Per un segreto (se un segreto c’è) mai rivelato.
I profeti – lasciate che vi racconti la mia personalissima e discutibile sensazione – i profeti non annunciano il futuro : siamo noi, l’indomani, a dare senso a ciò che ieri erano le loro parole. Siamo noi, i veggenti quotidiani.
In ciò Castellucci si rivela ancora, a sessantadue anni, il più allarmante e intuitivo artista del teatro contemporaneo italiano.
Verde smeraldo, come la città del mago
Domani è l’esperienza che più mi rimane addosso, di questi tre giorni passati a Venezia, al Festival internazionale di teatro della Biennale 2023.
Nella sua brevità, nella sua ambiguità (è davvero cieca quella donna? c’è davvero un progetto di senso che Castellucci ha ideato e non ci svela?), Domani per me resta l’occasione più luminosa di questa annata, che i direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte hanno voluto dedicare ai potenti riflessi verdi dello smeraldo. Come quelli della città del Mago di Oz.

Emerald è il titolo dell’intero programma dell’edizione 2023. Che a me è apparsa invece piuttosto opaca, come quelle bottiglie verdi che ogni tanto galleggiano nelle calli veneziane, con il vetro guastato dalla salsedine della laguna.
Boris Nikitin
Opaco, e per lunghi tratti noioso, era il lavoro che, fin dalle prime notizie, di più mi incuriosiva. Hamlet, del regista svizzero Boris Nikitin, non è Amleto. E fino a qua niente di male, ci siamo abituati, anzi ci fa piacere.
Ma non ci consola il fatto che l’opera consista nel diario iper-personale di un* perfomer non binario (Juli*n Medig), che in tedesco racconta la propria odissea, suona sgarbatamente una chitarra, indossa maschere da lupo, si fa accompagnare da video e da un quartetto d’archi barocco. E che forse – chissà – non ce la racconta nemmeno giusta. Visto che le parole-feticcio, da un bel po’ di anni brandite dagli autori teatrali, sono da una parte teatro documentario, dall’altra parte autofiction. E tu va’ a sapere.
Tolja Djoković e Fabiana Iacozzilli
Opaco, detto nei microfoni senza troppa convinzione, era poi l’allestimento di un testo della drammaturga Tolja Djoković, En abyme. Idealmente, autrice e regista (Fabiana Iacozzilli) si immergono assieme a Jacques Cousteau (l’esploratore marino) e a James Cameron (il regista Abissi, oltre che di Titanic) nel profondo più profondo dell’oceano Pacifico.
Metafora – questo dovremmo capire – del viaggio nell’abisso del proprio io che compie la donna-bambina protagonista della vicenda (la vediamo, in un video, nuotare in una piscina). Una immersione – a voler spiattellare proprio tutto – nella fossa delle Marianne della vita di ciascuno di noi, alla profondità di undicimila metri.
E in effetti dalla vasca da bagno, che a un certo punto appare nel mezzo della scena (un’idea di Giuseppe Stellato), l’acqua tracima.
Biennale College Teatro, la scrittura
Opache infine, soprattutto per mancanza di un’adeguata comunicazione, le due opere vincitrici del concorso di drammaturgia Biennale College Teatro 2022-23, a cui Giorgina Pi e Fabrizio Arcuri, registi, hanno assicurato quest’anno le mise en lecture.
Ci fosse stato uno straccio di carta a dirci chi sono i rispettivi autori, a raccontarci chi erano gli attori che le leggevano, a darci una traccia da seguire nell’ascolto di quei due nuovi testi (Cenere di Stefano Fortin e Addormentate di Carolina Balucani).
I programmi di sala, alla Biennale, sono stati aboliti, e bisogna farsi strada con il cellulare nel labirinto del sito istituzionale dell’Ente per ricavare qualche scarna informazione.
E sì che a teatro, voci perentorie invitano sempre noi spettatori a spegnerli, sti benedetti telefonini. Che in questo caso invece si sono rivelati una salvezza. Mi domando: sarà l’approccio eco-friendly? sarà per non sprecare carta?
Non mi so rispondere. Sfogliando le 407 pagine dell’oneroso, monumentale, iperbolico catalogo color Emerald, in vendita a 30 euro nello stand del merchandising, non mi so rispondere proprio.
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Ps. Potrei essere stato sfortunato io, ad aver imbroccato tre giorni di bonaccia, al Festival della Biennale 2023. Gente di cui mi fido, mi racconta che Het Land Nod dei fiamminghi FC Bergman (vincitori quest’anno del Leone d’Argento) era uno spettacolo memorabile. Peccato, qualche giorno prima, averlo perso. E qualcuno ha trovato speciali bagliori in Catarina e a beleza de matar fascistas di Thiago Rodrigues (il regista portoghese adesso direttore del Festival di Avignone).
Sarà, come ricorda la memoria popolare, che nell’antica Roma l’imperatore Nerone usava assistere ai giochi dei gladiatori guardandoli attraverso una lente di smeraldo. O che a me – sempre saggezza popolare – lo smeraldo non ha porta affatto “intensissimi benefici agli occhi”.