Biennale 2023 color smeraldo. Romeo Castellucci profeta domani

La donna è sola, nel centro, quasi, del vasto salone. Dalle pareti gli affreschi di dodici profeti biblici la osservano. La osserviamo anche noi – grappolo di spettatori spersi nell’enormità dell’ambiente.

Che è quello veneziano della Scuola Grande della Misericordia, da poco restituita alla luminosità di un tempo e destinata a innovativo spazio museale.

Biennale Teatro 2023, Domani di Romeo Castellucci
Biennale Teatro 2023, Domani di Romeo Castellucci

La donna – la possiamo ora scorgere più da vicino ora, girarle attorno – è alta, imponente, si sorregge su un lungo ramo, dalla cui sommità spunta qualche foglia. L’impermeabile color sabbia, l’incarnato scuro, la parrucca, il volto imperturbabile, la rendono una creatura, più che esotica, aliena, divina. Ci colpisce la sua immobilità, ci turba il sibilo dei suoi lamenti. E ci interroga, da terra, una scarpa da ginnastica dentro alla quale va a infilarsi il ramo. 

La performance – quasi mezz’ora – si intitola Domani. La firma Romeo Castellucci e, come la maggior parte delle opere del regista, preserva vergine il proprio mistero. Noi spettatori possiamo soltanto intuire qualcosa. Che la donna è cieca, perché i suoi occhi sono completamente bianchi, vuoti. Che è il ramo a guidarla nell’avanzare, dentro al proprio buio, come càpita ai rabdomanti. Che quel lungo pezzo di legno, va a sbattere ogni tanto, casualmente, sulle pareti, e che il colpo genera un fragoroso rimbombo elettronico (l’ingegneria del suono è di Scott Gibson). L’eco lo amplifica, l’ambiente si satura di suono, i timpani ne vengono offesi. 

Noi, veggenti quotidiani

Ignoto è il senso, meno che meno il significato, della performance dal titolo profetico: appunto Domani.

Dovremo essere noi, testimoni e silenziosi partecipi dell’evento, a collocarla dentro le nostre esperienze. Forse dentro le nostre vite. Lasciando che si incagli nella memoria per la sua ambiguità e per i suoi emblemi. Per un segreto (se un segreto c’è) mai rivelato.

I profeti – lasciate che vi racconti la mia personalissima e discutibile sensazione – i profeti non annunciano il futuro : siamo noi, l’indomani, a dare senso a ciò che ieri erano le loro parole. Siamo noi, i veggenti quotidiani.

In ciò Castellucci si rivela ancora, a sessantadue anni, il più allarmante e intuitivo artista del teatro contemporaneo italiano.

Verde smeraldo, come la città del mago

Domani è l’esperienza che più mi rimane addosso, di questi tre giorni passati a Venezia, al Festival internazionale di teatro della Biennale 2023.

Nella sua brevità, nella sua ambiguità (è davvero cieca quella donna? c’è davvero un progetto di senso che Castellucci ha ideato e non ci svela?), Domani per me resta l’occasione più luminosa di questa annata, che i direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte hanno voluto dedicare ai potenti riflessi verdi dello smeraldo. Come quelli della città del Mago di Oz.

Emerald è il titolo dell’intero programma dell’edizione 2023. Che a me è apparsa invece piuttosto opaca, come quelle bottiglie verdi che ogni tanto galleggiano nelle calli veneziane, con il vetro guastato dalla salsedine della laguna.

Boris Nikitin

Opaco, e per lunghi tratti noioso, era il lavoro che, fin dalle prime notizie, di più mi incuriosiva. Hamlet, del regista svizzero Boris Nikitin, non è Amleto. E fino a qua niente di male, ci siamo abituati, anzi ci fa piacere.

Ma non ci consola il fatto che l’opera consista nel diario iper-personale di un* perfomer non binario (Juli*n Medig), che in tedesco racconta la propria odissea, suona sgarbatamente una chitarra, indossa maschere da lupo, si fa accompagnare da video e da un quartetto d’archi barocco. E che forse – chissà – non ce la racconta nemmeno giusta. Visto che le parole-feticcio, da un bel po’ di anni brandite dagli autori teatrali, sono da una parte teatro documentario, dall’altra parte autofiction. E tu va’ a sapere.

Tolja Djoković e Fabiana Iacozzilli

Opaco, detto nei microfoni senza troppa convinzione, era poi l’allestimento di un testo della drammaturga Tolja Djoković, En abyme. Idealmente, autrice e regista (Fabiana Iacozzilli) si immergono assieme a Jacques Cousteau (l’esploratore marino) e a James Cameron (il regista Abissi, oltre che di Titanic) nel profondo più profondo dell’oceano Pacifico.

Metafora – questo dovremmo capire – del viaggio nell’abisso del proprio io che compie la donna-bambina protagonista della vicenda (la vediamo, in un video, nuotare in una piscina). Una immersione – a voler spiattellare proprio tutto – nella fossa delle Marianne della vita di ciascuno di noi, alla profondità di undicimila metri.

E in effetti dalla vasca da bagno, che a un certo punto appare nel mezzo della scena (un’idea di Giuseppe Stellato), l’acqua tracima. 

Biennale College Teatro, la scrittura

Opache infine, soprattutto per mancanza di un’adeguata comunicazione, le due opere vincitrici del concorso di drammaturgia Biennale College Teatro 2022-23, a cui Giorgina Pi e Fabrizio Arcuri, registi, hanno assicurato quest’anno le mise en lecture

Ci fosse stato uno straccio di carta a dirci chi sono i rispettivi autori, a raccontarci chi erano gli attori che le leggevano, a darci una traccia da seguire nell’ascolto di quei due nuovi testi (Cenere di Stefano Fortin e Addormentate di Carolina Balucani). 

I programmi di sala, alla Biennale, sono stati aboliti, e bisogna farsi strada con il cellulare nel labirinto del sito istituzionale dell’Ente per ricavare qualche scarna informazione.

E sì che a teatro, voci perentorie invitano sempre noi spettatori a spegnerli, sti benedetti telefonini. Che in questo caso invece si sono rivelati una salvezza. Mi domando: sarà l’approccio eco-friendly? sarà per non sprecare carta? 

Non mi so rispondere. Sfogliando le 407 pagine dell’oneroso, monumentale, iperbolico catalogo color Emerald, in vendita a 30 euro nello stand del merchandising, non mi so rispondere proprio.

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Ps. Potrei essere stato sfortunato io, ad aver imbroccato tre giorni di bonaccia, al Festival della Biennale 2023. Gente di cui mi fido, mi racconta che Het Land Nod dei fiamminghi FC Bergman (vincitori quest’anno del Leone d’Argento) era uno spettacolo memorabile. Peccato, qualche giorno prima, averlo perso. E qualcuno ha trovato speciali bagliori in Catarina e a beleza de matar fascistas di Thiago Rodrigues (il regista portoghese adesso direttore del Festival di Avignone).

Sarà, come ricorda la memoria popolare, che nell’antica Roma l’imperatore Nerone usava assistere ai giochi dei gladiatori guardandoli attraverso una lente di smeraldo. O che a me – sempre saggezza popolare – lo smeraldo non ha porta affatto “intensissimi benefici agli occhi”. 

Mittelyoung e In-Box 2023. Reportage da uno spicchio di teatro

Del grande mappamondo dello spettacolo dal vivo, il teatro di cui parlo in questo post è solo un piccolo spicchio. Conta poco, si muove di lato, genera scarsa ricaduta economica. Ignorato dai festival internazionali, non si affaccia quasi mai nelle sale importanti delle capitali. È lavoro di margine.

In_Box 2023 - Topi - Usine Baug
In_Box 2023 – Usine Baug – Topi

Ma è sui margini che si manifestano i movimenti. Il margine mostra la crescita, la direzione del flusso, la spinta innovativa. Succede in natura. Succede anche nelle arti.

È difficile mettere a fuoco ciò che succede a margine: un movimento continuo, un equilibrio sempre compromesso. Piuttosto: osservando i margini, si intuisce, si avverte, si fiutano le cose.

Cividale del Friuli e Siena

In questo spicchio del teatro, Mittelyoung (a Cividale del Friuli) e In-Box dal vivo (a Siena) vanno ogni anno a cercare il futuro prossimo, quello non maggioritario, non istituzionale. Quello indipendente.

Ne ho parlato su QuanteScene! in un post dello scorso anno. Riprendo il filo ora, con un reportage dalle edizioni 2023, appena concluse.

Mittelyoung è nato tre anni fa, come spin-off della nuova architettura di programma data a Mittelfest da Giacomo Pedini. I suoi tre giorni anticipano il festival principale, che si svolgerà nella seconda metà luglio e che conta finora 32 edizioni.

In-Box, coordinato dai toscani Straligut Teatro, in partnership con il circuito teatrale Fondazione Toscana Spettacolo e Comune di Siena, e altre realtà locali, è giunto quest’anno all’ottava edizione. 

Mittelyoung 2023 - CM_30 - Kolja Huneck  - ph Luca A. d'Agostino
Mittelyoung 2023 – CM_30 – Kolja Huneck – ph Luca A. d’Agostino

Gli under 30 europei. Il mercato italiano

Nel caso di Mittelyoung, un osservatorio internazionale di coetanei under 30 ha scelto 3 best experience, tra quelle pervenute attraverso la call lanciata in tutta Europa (169 quest’anno le candidature da 22 Paesi). In pratica, si tratta di fiutare ciò che fanno alcuni tra i più talentuosi ventenni del continente.

Nel caso di In-Box una rete di programmatori, in rappresentanza di 90 sale, festival, circuiti della penisola, ha acquistato, al costo del cachet fissato in precedenza, una replica dello spettacolo (tra i quasi 500 in lizza quest’anno, sia nel settore adulto sia in quello per l’infanzia e le famiglie). Hanno scelto i prodotti più affini al proprio pubblico, alla natura della propria sala. Più che esplorare, In-Box punta dunque a sostenere la distribuzione di opere, gli artisti e le compagnie italiani che non hanno ancora una soddisfacente circuitazione.

Per entrambi, la formula resta quella del festival-concorso: la sfida a salire sul podio del più votato, del più apprezzato, quello con più like: mi piace leggere innovazione e mercato come esempi di gamification della creazione teatrale.

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Mittelyoung 2003 – Carla Vukmirovic – Piango in lingua originale – ph Luca d’Agostino

Segnali da Mittelyoung

Mittelyoung raccoglie nuovi allestimenti di musica, danza, teatro, circo, e tra le 9 proposte arrivate in finale a maggio 2023 a prevalere sono state tre compagnie caratterizzate da pluralità delle provenienze e da un disinibito rapporto con le tecnologie di condivisione. 

Lavish Trio vanta una stratosferica pianista coreana, che improvvisa affiancata dal violino di un’italiana e dal violoncello di una tedesca. Il bello della proposta, intitolata What if… è anche nell’interazione ludica con il pubblico. Attraverso i propri smartphone gli spettatori fanno apparire sullo schermo alle spalle delle musiciste le parole e temi sui quali improvvisare. Ne scaturisce un tag cloud, che a Cividale ha messo in evidenza, inevitabilmente, death e love. È contemporanea musica da camera, però si espande ai confini del mondo. 

Ciò che succede anche alla danza del Collectief MAMM, olandesi per formazione e molto intrigati dal rapporto tra individuo e gruppo, fiducia e diffidenza, attrazioni e respingimenti. Gli estremi, anche politici, che formano il tessuto del loro Something Else. 

A un apparato luministico d’effetto si affida Kolja Huneck, pendolare tra Rotterdam e Monaco di Baviera, un performer che ha affinato i propri talenti nel reparto circense della giocoleria. In CM_30 (suppongo si riferisca al diametro dei dischi riflettenti con cui si cimenta) crea un ambiente immersivo. Dentro questa sua tenda o capanna, lancia, riprende e rilancia questi dischi cangianti, dai quali scaturisce tutto intorno un paesaggio di luci e ombre. Ai cui il pubblico collabora muovendo a piacimento le fonti luminose: proiettori portatili capaci di milioni di colori.

È un esempio di quanto il gioco resti prioritario, anche per chi si è oramai avventurato nel terzo decennio della propria vita: una generazione di artisti ludens.

In-Box dal vivo. A contare è il fiuto

Molto teatro, all’opposto, nell’aria che soffiava a In-Box. Usine Baug è la compagnia milanese che ha “vinto” 10 delle 117 repliche in palio con Topi. Rievocazione del G8 che nel luglio 2001 fece di Genova la capitale della repressione. Eventi però raccontati nei modi di un emotivo teatro di narrazione, un po’ attardato, dopo che i fatti di Genova hanno già prodotto parecchio teatro.

Meglio, con 17 repliche, si è collocato Quasi una serata (allestito da Il Giardino delle ore e Mumble Teatro), esempio di un teatro a episodi, oramai poco frequentato, almeno da noi. Tra i brevi atti unici della serata (scritti da Ethan, uno dei fratelli Coen, i due di Fargo, del Grande Lebowski), spicca forse il primo (Aspettando), con la sua vaga atmosfera buzzatiana, di un aldilà che moltiplica e amplifica la burocrazia dell’aldiqua. Potremmo dire che il meglio, i fratelli Coen lo hanno già dato al cinema. Ma il loro è un nome che sta simpatico al mercato.

In-Box 2023 - Quasi una serata- ph Federico Galimberti
In-Box 2023 – Quasi una serata- ph Federico Galimberti

A conquistare però l’attenzione di tutti, a guadagnarsi 19 repliche, vincitore quindi di In-Box 2023, è stato infine Sid – Fin qui tutto bene, produzione di Cubo Teatro.
È in casi come questo che il fiuto di cui si diceva torna a far valere la sua importanza. Una storia come tante, di individuale ribellione, bullismo, consumismo, processi di inclusione inter-etnica, ha trovato nella pelle scura e nella tuta griffata bianca di Alberto Boubakar Malanchino (lui, che è un po’ Cernusco sul Naviglio, un po’ Burkina Faso) il personaggio e l’interprete non solo giusto: perfetto. 

In-Box 2023 - CuboTeatro - Sid - Alberto Boubacar Malanchino
In-Box 2023 – CuboTeatro – Sid – Alberto Boubakar Malanchino

Cinema e serie tv lo hanno già fiutato, da Easy Living (2019) a Doc-Nelle tue mani. Non si capisce che cosa aspetti la scena dal vivo a accoglierlo (lui, che si è diplomato alla Paolo Grassi) tra i suoi nuovi campioni.

Allora: ci risentiamo tra un anno per capire quanto gli sono valsi il sostegno, le repliche, la visibilità che In-Box ha dato al suo monologo, scritto e diretto da Girolamo Lucania, suonato dal vivo da Ivan Bert e Max Magaldi. E intanto gli diciamo: grande tenuta di scena, complimenti.

[una nuova versione di questo articolo apparirà sul numero 3/2023 del trimestrale Hystrio]

STORIE – Enrico Intra, il jazz e quel magico Dorfles

Almeno una cosa, io e Enrico Intra, milanese, maestro internazionale del jazz, condividiamo assieme. Un autore, e certi libri che stanno sempre sui nostri comodini, a portata di braccio. 

Tanto lui tanto io ammiriamo Gillo Dorfles. Non solo per il traguardo di quei  107 anni di una vita vissuta bene, ma soprattutto per il talento che Dorfles, maestro formidabile di pensiero, aveva nel guardare avanti, sempre, nell’accrescere la propria curiosità per il nuovo, sempre, nell’evitare ogni rimpianto per “il bel tempo andato”.

Enrico Intra - by courtesy Fondazione Milano - Civica scuola di musica
Enrico Intra – by courtesy Fondazione Milano – Civica scuola di musica

È lo stesso talento di Enrico Intra che, a dispetto dei suoi 88 anni, da compiere il prossimo 3 luglio, condivide con il magico intellettuale triestino e milanese, la voglia di non mettersi mai in pantofole. Tanto meno di impantofolare il cervello.

L’intervallo perduto, il saggio sulla musica e non solo, che Dorfles aveva scritto nel 1980 – mi dice – è il suo “livre de chevet“. Poi, elegantemente traduce libro da capezzale, quello che tiene sul comodino. Dice che lo legge e lo rilegge spesso. E non è mai lo stesso libro.

Ci vuole il jazz per non mettere pantofole al cervello

Ieri sera, a Trieste, al Teatro Miela, Intra si è seduto al pianoforte e a forza di musica e improvvisazioni ha cominciato a battagliare con un giovane quartetto d’archi, bravi intraprendenti strumentisti appena usciti dal Conservatorio.

Cornice dell’incontro-scontro, le ispirazioni bizzarre di Erik Satie, il compositore francese di cui il Teatro Miela festeggia ogni anno il compleanno con un evento: SatieRose

Trapezista di un circo sonoro” è la definizione che Intra dà dell’autore delle Gymnopédies. Lo ha dimostrato con la suite intitolata Ossimoro per Satie. La serata si era placidamente avviata con la Gymnopédie n.1 trascritta per archi (lent et doloreux) e eseguita dal Quartetto Rêverie (Uendi Reka, violino; Florjan Suppani, violino; Lucy Passante Spaccapietra, viola; Alice Romano, violoncello).

Ma è stata subito travolta dagli spunti jazzistici con cui, da dietro la coda del maestoso e lucido Steinway and Sons, Intra ha pungolato i giovani musicisti, educati al pentagramma, disposti però a seguirlo anche nelle improvvisazioni più ardite.

Ossimoro per Satie - Teatro Miela Trieste - 17 maggio 2023
Ossimoro per Satie al Teatro Miela – ph Paola Sain

Parliamo un po’ musica, gli chiedo. O meglio sarebbe dire musiche.

“Non trovo una gran differenza tra la musica che faccio io e gli altri generi. Esiste un grande universo del suono, che è la musica, e contiene tanti diversi modi di fare musica” – spiega lui, pianista, compositore arrangiatore, direttore d’orchestra, docente e maestro di generazioni di musicisti .

“Il jazz – prosegue – è semplicemente un modo di pronunciarla. È una lingua che raccoglie i generi, li elabora, li trasforma. Poi li sputa fuori, restituendo forti emozioni, a chi esegue e a chi ascolta”.

Con una felice espressione – “nulla è lontano” – Intra cancella le distanze tra mondi: quello di Satie, appena eseguito, e quello dei più grandi strumentisti jazz gli sono stati amici e colleghi, come il sassofonista Gerry Mulligan.

“I pensieri degli altri mi arricchiscono. È certo vero che, nella propria vita, uno può decidere di leggere un solo libro, di vedere un solo quadro. Ma gli scrittori sono infiniti e i pittori pure. Io ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Mi affascinava sentire ciò che diceva Luigi Pestalozza, ineguagliabile storico della musica: quando parlava, ogni volta era un fiume. Mi arricchivano gli incontri con Strehler e Grassi, a Milano, quando collaboravo con il Piccolo Teatro. Ma ascolto volentieri anche ciò che la gente dice mentre viaggia sui mezzi pubblici, al supermercato, nei bar… La loro musica è dappertutto”.

Enrico Intra - ritratto

Intra dappertutto, tra jazz e pop

Lei non si è risparmiato nulla. Dal jazz alla musica nazional-popolare: direzioni d’orchestra a Sanremo, pezzi per una giovane Giuni Russo e poi Zanicchi, Malgioglio. Perfino i Caroselli, come il suo indimenticabile compagno d’avventura, il chitarrista Franco Cerri, “l’uomo in ammollo”.

“E perché no? Era una forma di comunicazione molto popolare, ci mettevamo la faccia, eravamo ‘quelli del jazz’. Così la nostra musica passava attraverso i media, quel suono si diffondeva”.

Jazz e improvvisazione sono parole pronunciate a volte con diffidenza.

“Il jazz è stato comunicato male. Musica americana, si è scritto spesso. In realtà è il frutto di ciò che gli europei, gli ebrei, gli africani hanno portato in quel continente. Da un punto di vista geografico è statunitense, di fatto è invece la fusione di tante diverse culture. Quanto a improvvisazione, è chiaro che, detta così, comporta sfumature negative. Un medico improvvisato, un giornalista improvvisato… persino un musicista improvvisato. Preferisco dire che sono un musicista estemporaneo. Quest’altra parola mette in evidenza la capacità di inventare all’istante, di cogliere l’atmosfera, le sensazioni intorno. Il pubblico si trova davanti a un artista che crea, in quell’esatto momento”.

L’improvvisazione è di casa al teatro Miela, palcoscenico famigliare per Paolo Rossi.

“Esatto. Paolo, che io definisco appunto ‘jazzista della parola’. Ci ho lavorato e ho riconosciuto in lui lo stile del mio amico Walter Chiari: arrivava sempre all’ultimo istante, magari in ritardo, ma approfittava dell’ambiente, sentiva il profumo, registrava i suoni della gente, li trasformava al volo in parole e storie, con grande simpatia anche, e comicità”.

Quegli anni all’Intra’s Derby Club

Stiamo parlando di quei formidabili anni ’60, vero?

“A Milano avevo dato vita all’Intra’s Derby Club, 1962. Da noi, in Italia, il cabaret non esisteva ancora e al Derby sono passati attori e musicisti, e molti attori-musicisti. Franco Nebbia, per esempio, suonava benissimo il pianoforte. Davvero, grandi jazzisti della parola. Quello era il momento: possedevano una plasticità che ora manca, perché gli attori si impegnano su altri fronti. Ma ritornerà, perché il jazz si arricchisce sempre di ciò che gli sta intorno: musica contemporanea è l’unica definizione giusta. Ritornerà il momento”.

Enrico Intra
Enrico Intra e Fiorenza – anni ’70

Ne è proprio sicuro?

“Tutto ritorna. Pensi che sono ritornati persino quegli imbecilli che fanno la guerra. Me lo ripeto ogni mattina: ci vuole il jazz per non mettere le pantofole al cervello”.

Eggià. Chiudiamo tornando a Dorfles? A quei libri sul comodino.

“Ogni volta che li riapro ci trovo qualcosa di nuovo. Anni fa avevo composto un pezzo e lo avevo intitolato proprio Dorfles. Adesso però, dopo questo passaggio a Trieste, credo proprio di voler scrivere un pezzo espressamente dedicato a lui. Lo si potrebbe far nascere proprio qui, su questo palcoscenico, il prossimo anno”.

Promesso?

“Promesso”.

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Le STORIE di QuanteScene!
Oltre a questa, ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, Massimo Castri e tanti altri.

Lasciati portare in giro dai link di QuanteScene!

[questa intervista è stata parzialmente pubblicata sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste mercoledì 17 maggio 2023]

E se Dio fosse un peluche peloso? Riconsiderare Shakespeare

Riccardo II d’Inghilterra, ultimo dei Plantageneti, ha un consigliere. Non come ce lo immaginiamo. Un saggio anziano, o il solito spin doctor che trama nell’ombra. No no, il consigliere di Riccardo è un orsacchiotto di peluche.

A lui il sovrano si rivolge quando, nei momenti solenni, ha bisogno di un consiglio. Oppure deve prendere una decisione importante. Poi, a tutti dice che a ispirarlo è stato Dio.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)
Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Succede così in Secondo Riccardo, primo episodio di un teatro palesemente pop che la Compagnia ArtiFragili, cresciuta nel Nordest d’Italia, sta portando in scena a puntate.

Il re ha una corona di cartone e un pelliciotto sintetico. La scena è un praticabile rialzato, un po’ balera, un po’ passerella. Troneggiano i microfoni ad asta. Il pubblico sta tutto intorno.

Riccardo secondo non è Riccardo terzo. Ovvio. Ce lo ricordano più volte i quattro interpreti di Secondo Riccardo, una tragedia che ufficialmente comporterebbe 25 personaggi, più un capitano gallese, due giardinieri, uno stalliere, un carceriere, svariate lady, soldati, servi.

Ce lo ripetono perché? Perché il loro pubblico è in larga parte giovane, generazionale, e i lavori di Shakespeare, in buona sostanza, li ignora. Certo: Amleto, Giulietta, Otello, possono avere qualche circolazione nell’immaginario giovanile, ma tutto il resto, soprattutto ciò che la storia del teatro definisce drammi storici, history plays, si confonde mirabilmente. Gli Enrichi, gli Edoardi. Figurarsi due Riccardi due. Proprio troppi.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

To play the game

Comunque, fosse anche il Riccardo più feroce, il terzo, non ha importanza. Secondo Riccardo è un gioco di teatro, anzi in teatro. E si potrebbe sviluppare anche attorno ad altri lavori. Prendendo in mano altre vicende.

Perché? Perché il proposito è di mettere in piedi una serata divertente, molto divertente, della quale il fine ultimo – almeno così mi sembra di capire – è raccontare una storia, scherzarci attorno, prendersene gioco. E buttare là qualche parola proibita, politically uncorrect, qualche madonna. Sussurrare nei microfoni. Strizzare l’occhio, solleticare l’orecchio con una furba playlist.

E poi battersela con il pubblico. Fargli girare la testa con i faretti colorati. Provocarlo, acchiapparlo con qualche gancio malandrino, per portarlo in scena. O fuori scena. Ovunque. To play the game. E chiudere con un bel dj set.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Duelli

Shakespeare suggerisce una contesa? Bene, loro moltiplicano i duelli: la sfida delle tabelline, il gioco del palloncino, un due tre stella, paga pegno chi ride per primo.

E’ vero: con Shakespeare di può fare tutto. Gli Oblivion strizzavano otto tragedie in otto minuti, cantando. Derek Jarman riscriveva gli elisabettiani con le sue pennellate barocche, soffrendo. I musical hanno rivoltato il Bardo come un calzino, da Kiss me Kate a West Side Story. Non parliamo del cinema, che ci ha campato per tutto il secolo. 

La theatre-band ArtiFragili ha studiato tutto questo, e magari anche altro. Poi, come si fa con il Martini Cocktail, hanno buttato via il Martini. E lasciato solo il gin, il gioco. Gin Game (ma no: questa è un’altra storia)

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Più puntate

L’impianto inoltre, è seriale. Non un solo spettacolo, da replicare. Ma più puntate, da accumulare. Quante ancora non si sa. Perché? Perché, come sanno gli sceneggiatori americani (quelli che stanno per scioperare, forse proprio per questo) è il pubblico alla fine che decide se una storia va avanti o no. Se si lavora, o si rimane fermi al palo. Il che comporta un seria (ben più seria) riflessione sul precariato creativo. Gli ArtiFragili mi sembrano gli interlocutori giusti per farla.

Ci domanda Riccardo: “Di cosa parla la mia storia? Cosa significa avere il potere e cosa significa perderlo? Cosa sareste disposti a fare per strapparlo a qualcun altro?

Il primo biglietto della tua vita

Ho visto la prima puntata di Secondo Riccardo, qualche sera fa al Teatro Miela a Trieste, Nordest. Mi sono divertito. Si è divertito anche chi stava attorno a me. E magari aveva acquistato per la prima volta in vita sua un biglietto di teatro. Potere dei social.

Adesso sono curioso di sapere se la prossima puntata sortirà lo stesso effetto. 

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SECONDO RICCARDO
uno spettacolo di ArtiFragili
liberamente ispirato a Riccardo II di Shakespeare
progetto drammaturgico a cura di Davide Rossi
regia di Alejandro Bonn 

con Alejandro Bonn, Romina Colbasso, Veronica Dario, Davide Rossi
con il sostegno di Teatro Miela / Bonawentura

La prossima puntata il 30 e il 31 maggio 2023, sempre al Teatro Miela, a Trieste.

Le immagini sono di Massimo Baxa e Federico Valente

Angélica Liddell Caridad. I loro crimini, il nostro perdono

Non la fede, non la speranza, ma la carità: l’ultima delle virtù. Caridad si intitola la più recente creazione di Angélica Liddell. Ha debuttato lo scorso autunno al festival Temporada Alta di Girona e adesso è stata ospite per due serate all’Arena del Sole di Bologna, per Ert Fondazione che ne è anche co-produttore. Un’altra fra quelle opere estreme a cui l’artista spagnola ha abituato i pubblici di tutta Europa. 

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

You are my destiny

Al proprio destino non si sfugge. O perlomeno alla propria indole. Angélica Liddell flirta con la morte da quando era bambina e trascorreva la giornate in un collegio di suore. È un rosario l’elenco dei titoli dei suoi lavori – sia quelli pensati per la scena sia quelli di letteratura – che alla morte inesorabilmente ritornano.

Un assillo. Un’ossessione. Come quei crocifissi lugubri e maestosi, quelle deposizioni, quelle torture e quei martiri, che ornano le oscurità delle cattedrali di Spagna, tra fumo di candele e cera di rose. La morte come habitat

Basta sfogliare i titoli, le copertine, i manifesti delle sue opere, anche quelle più premiate: Greta vuole suicidarsi, Suicidio d’amore per un defunto sconosciuto, Cane morto in tintoria. Oppure Liebestod, che equivale a morir d’amore, e abbiamo potuto vedere lo scorso anno, proprio qui a Bologna.

Ritratto di Angélica Liddell
Angélica Liddel, ritratto

Sangue e arena

Angélica Liddell è però cambiata da quando si infliggeva sofferenze taglienti e sanguinava davanti ai nostro occhi (Ti renderò invincibile con la mia sconfitta). Da quando percuoteva con sassi le proprie parti intime rivendicando il diritto alla sterilità (Lesioni incompatibili con la vita). Da quando fotografava le proprie depressioni e le notti trascorse in vuote stanze d’albergo (fino a qualche anno fa esisteva in rete la galleria di questi autoritratti, in un sito oramai defunto) .

Oggi, più vicina ai sessantanni, contempla la morte da una certa distanza. La giusta distanza di chi è ancora vivo. E del morire apprezza soprattutto il valore estetico. O estatico. La bellezza ultima e irripetibile. E la esibisce in grande formato.

In Liebestod, la sua dichiarazione d’amore per il toreador Juan Belmonte, 50 trafitture e un finale suicida, diventava uno spettacolo maestoso, con i quarti di bue (idealmente, di toro) appesi ai ganci nel bel mezzo del palcoscenico. Bellissimi. Non per tutti, ovviamente.

Liebestod di Angélica Liddell
Liebestod di Angélica Liddell

Chi inventò la ghigliottina?

Di quello spettacolo del 2021, Caridad è adesso il proseguimento ideale. Sottotitolo: un’approssimazione alla pena di morte divisa in nove capitoli. Però la frenesia e l’odore del sangue che allora mi avevano colpito come banderillas infilate nella carne, qui non ci sono.

Caridad è un trattato, una dissertazione lucida sul vivere, o meglio sul morire. Una creazione didattica, una collezione di citazioni e exempla.

Tanto per dire: nel sesto dei nove capitoli, a un gruppo di bambini in scena, visitatori di un qualche Museo delle Atrocità, viene spiegata per filo e per segno la storia della ghigliottina. I piccoli, senza stupore alcuno, apprendono che fu un fabbricante di clavicembali a inventarla e che il suo utilizzo celebrava un sacrosanto principio di uguaglianza umana. La lama non guarda in faccia nessuno.

Vengono inoltre informati in dettaglio su come una ghigliottina funziona. E chissà se un brivido mi percorre mentre immagino che ai piccolini piacerebbe anche sperimentarlo, quel marchingegno. Su un bambolotto, beninteso.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

Gli organi del pudore e dell’orrore

Chissà poi se, dal camerino dietro la scena, sempre loro, riescono a sentire il Capitolo Sette. Nel quale si racconta la storia di Gilles de Rais, condottiero francese famoso per essere stato compagno d’armi di Giovanna d’Arco. Ma più famoso ancora per la efferatezza con cui rapiva, sodomizzava, torturava, uccideva e squartava le sue piccole vittime. Per diventare, nell’immaginario popolare, il precursore di Barbablù.

A Liddell piace insomma toccare i settori più delicati della nostra sensibilità, i nostri tabù, gli organi del pudore e dell’orrore. E in questo sta il potere magnetico dei suoi spettacoli

Non occorre essere letterati per intuire, dietro al raccapricciante racconto, la devozione dell’artista spagnola per Georges Bataille (Il processo di Gilles de Rais) e Pier Paolo Pasolini (Salò). Ma anche Hermann Nitsch e Marina Abramović sono riferimenti presenti. E poi, come costanti oggetti d’affezione, De Sade, Godard, persino il Beckett più crudele. Tutti citati.

In che modo tutto quell’orrore abbia che fare con il titolo Caridad si intuisce a poco a poco. Anche se fin dall’inizio Liddell ci aveva informati quanto sia stata impressionata osservando Caritas romana, un quadro di Rubens, e non solo.

Vi si vede Cimone, uomo anziano, colpevole, incarcerato, condannato a morire di fame, che viene però allattato, per carità, dalla figlia. Per quel gesto caritatevole, viene infine graziato. “L’arte può finalmente regnare al di sopra della legge” sostiene Angélica. Nome celestiale.

Pieter Paul Rubens, Caritas romana
Pieter Paul Rubens, Caritas romana (1612)

Io credo nell’innocenza delle azioni – dice – Osserva bene il peggiore degli assassini e vedrai un uomo innocente. (…) Credimi è una questione di sacrificio. Il giustiziato ci redime, che sia colpevole o innocente, tra l’altro, in quanto è sempre innocente. Questo implica anche l’accettazione totale della natura umana. (…) La nostra salute dipende dai condannati, dai criminali“. Nemmeno Jean Genet la metteva giù così bene.

Lei preferisce citare Matteo evangelista. “Signore, quante volte dovrò perdonare mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Matteo, 18, 21-22). Carità, perdono.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

La caritas romana, quel gesto iconico di carità filiale, reso immortale da Rubens, Liddell lo riproduce tale e quale, ricordandoci nel frattempo che il latte oggi si ottiene con mungitrici meccaniche a controllo digitale, protagoniste del Capitolo Uno.

Così come protagoniste del Capitolo Due sono attrezzi per la pulizia dei pavimenti che accuratamente ripuliscono e igienizzano il palcoscenico, invaso da tutto quel latte versato. 

Pasolini forever

Non mancano altre riproduzioni dal vivo. Il famoso fotogramma del pasoliniano Fiore delle mille e una notte, in cui Ninetto Davoli tende un arco con freccia a forma di fallo dorato, e lo punta nell’ovvia direzione auspicata dalla sua amata, diventa anche esso un tableau vivant.

E prima e poi, poi in rapide carrellate: due schermidori paralimpici che duellano su sedie a rotelle, un coro di laringectomizzati che cantano, un uomo e un cane disabili con protesi per la deambulazione, un cinghiale impagliato, due alligatori finti, pecorelle vive. E fiori, fiori: rose rosse, calle bianche, rami d’ulivo.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

Per non parlare delle frequenti occasioni in cui il sesso (magari non esplicito, ma certo esplicitato) diventa occasione di scandalo, o morbosità, o imbarazzo, o ironia, o noia. A seconda del vissuto di ogni singolo spettatore.

Topics

Ed è a questo punto che mi viene in mente quanto l’estremismo di Liddell vada inquadrato in quel contesto di formule che si rincorrono nel contemporaneo teatro europeo occidentale. Registrati sotto l’etichetta del post-drammatico, mi sembra di rivedere tutti i topic che rendono allettanti le rappresentazioni agli occhi dei pubblici più avanzati d’oggi.

Bambini in scena. Testi proiettati sul fondale. Colonne sonore che alternano il barocco (preferibilmente Bach) e il pop (preferibilmente anni ’60). La presenza di animali, morti o vivi. L’esibizione di corpi non-normalizzati, feriti, amputati, spesso denudati. La minacciosa presenza di protesi e macchine. 

Tutto ciò in Caridad c’è.

Caridad di Angélica Liddell
Caridad di Angélica Liddell

E allora penso, non per la prima volta, che fare spettacolo oggi, circuitarlo nei i maggiori palcoscenici europei, diventare l’oggetto di desiderio di festival e manifestazioni, sia frutto di un equilibrio delicato tra originalità (e questo per Liddell non si discute) e i luoghi comuni di un teatro-merce, largamente apprezzato dal pubblico. 

Una bilancia accurata, in equilibrio, che da una parte invoca le ragioni alte e singolari dell’artista (“Non mi interessa il contemporaneo, ma l’eterno“) e dall’altra sa quanto siano indispensabili, al seguito, un bravo manager e un bravo commercialista.

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Il testo di Caridad, nella traduzione di Silvia Lavinia, è pubblicato da Luca Sossella Editore nella collana Linea a cura di Debora Pietrobono e Sergio Lo Gatto.

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Angélica Liddell parla di Caridad:

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CARIDAD
testo, scene, costumi e regia Angélica Liddell
con David Abad, Yuri Ananiev, Federico Benvenuto, Nicolas Chevallier, Guillaume Costanza, Angélica Liddell, Borja López, Sindo Puche
coro di laringectomizzati Shout at Cancer: Guy Vandaele, Frank Meeus e Andrew Pett
scherma paralimpica Alex Prior (campione di Spagna in modalità sciabola) e Ayem Oskoz
luci La Cía de la Luz (Pablo R. Seoane)
paesaggio sonoro Antonio Navarro
traduzione sovratitoli in italiano Silvia Lavina
produzione Iaquinandi S.L, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Temporada Alta Girona, CDN Orleans Centre Val de Loire, Teatros del Canal Madrid

Tom e Lao. Le piccole vacanze di Alessandro Berti

Qui è il paradiso. Là fuori può esserci l’inferno. L’inferno arido del surriscaldamento del clima. Quello della siccità, dei boschi morti, delle praterie ingiallite. Più lontano, forse, gli incendi.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri
Sebastiano Bronzati e Francesco Bianchini in Le vacanze – tutte le foto @Daniela Neri

Ma qui, proprio qui, chissà per quale miracolo, la falda è ancora viva e i bambù resistono. È un’oasi, un canneto d’ombra, uno stagno di refrigerio in mezzo al caldo che avvampa, asciuga la pelle, brucia gli occhi.

Passato. Presente. Futuro prossimo

Le vacanze è il testo che Alessandro Berti (Premio Riccione 2021 per l’innovazione drammaturgica) ha scritto qualche anno fa, giusto nel tempo dell’epidemia. Lo ha anche portato in scena, da regista, a Bologna pochi giorni fa (per Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arena del Sole, sala Thierry Salmon).

Simulazione di futuro prossimo. Anche no: di presente probabile, molto probabile. Forse non qui nell’Occidente ricco, agguerrito e ancora (per poco) temperato. Ma certo in un altrove dove gli agglomerati urbani sono più fragili, le economie più deboli, il degrado ambientale più devastante.

Adattamento

Il testo ci racconta che fiumi e torrenti sono scomparsi. Figurarsi i ghiacciai. Le terre sono sterili. L’acqua vale più dell’oro. Una doccia, un tuffo in una pozza sono il lusso di pochi.

Ma non è uno scenario catastrofico. Da sempre la specie umana si arrangia. Passata l’emergenza, lasciato alle spalle il tempo dei Grandi Incendi, lo stile di vita che è cambiato. In fondo, l’intelligenza umana è adattamento, assuefazione. 

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Le vacanze di Tom e Lao

Tom e Lao, sono due adolescenti. Nemmeno ventenni, studenti. Hanno superato l’Esame e si concedono il lusso di una piccola vacanza. Proprio qui, nel canneto verde, al fresco di quei bambù, nella pozza d’acqua fangosa dove si può ancora fare il bagno. Occhiali da sole, costume da spiaggia, asciugamano, crema protettiva. Niente sembra cambiato. È cambiato tutto.

Immersi fino al torace, Lao e Tom discorrono. Giocano a immaginare luoghi freschi, o freddi, magari gelidi. Percezione e immaginazione, a volte, coincidono. E parlano. Del passato soprattutto, dei loro genitori, dei luoghi che hanno visto, e che non ci sono più. Ma anche del futuro, incerto, tra ingegneria genetica e umanesimo. Tra ottimismo della ragione e malinconia del cuore.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Un fermo temporale 

Le vacanze non racconta una vicenda, ma una situazione, un fermo temporale in cui si può leggere ciò che è, e anche ciò che è stato. Divorata da se stessa, dalla propria smania di conquista antropica, la specie umana si prosciugata, decimata. Ma si è fatta anche più scaltra. Ha inventato l’editing del dna, sterminato i mali e gli insetti, ingegnerizzato il cibo.

Eppure Gea, madre natura, è rimasta la più forte. Ha costretto l’homo sapiens a questa pace di sopravvivenza, alla sua enclave minoritaria, a una vita ridotta. A fronte, almeno, di quella che viviamo noi, oggi,. Ancora per poco.

Un danzatore per Tom

Non c’è dolore, comunque. Così come non c’era dolore in Giorni felici di Beckett, di cui Le vacanze è l’eredità dispersa, giusto sessant’anni dopo. Un tempo enorme. Nel tempo dei Grandi Incendi milioni di uomini sono scomparsi, i genitori di Tom e Leo sono scomparsi, abitudini millenarie sono scomparse. Altre sono drasticamente mutate. O ce ne sono diverse. 

Con un app, per esempio, si può “affittare” un artista. Ed è ciò che fa Lao, come sorpresa, improvvisando un regalo a Tom. Se esistono i menù digitali per il cibo, perché mai non dovrebbero esistere per l’arte. Tra le opzioni, Lao ha scelto danza.

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Il vecchio stile

E come se spuntasse dal nulla il danzatore appare, una visione tra le canne. Androgino, misterioso sciamano. Per quelli che hanno vissuto “il vecchio stile” (lo chiamava così, Samuel Beckett) una specie di attore santo, Ryszard Cieślak  in Il principe costante di Grotowski, o Kazuo Ohno.

Davanti ai bambù appena appena mossi dal vento, il danzatore danza. Gesti lenti, rarefatti, orientali (ma cosa mai distingue più Occidente da Oriente?). Tom e Lao non ne sembrano soddisfatti. Sono confusi, agitati. Si domandano che posto occupi l’arte, in questo loro mondo .

La complessità del presente

Adolescenti alle prime armi con la vita, Lao e Tom sono interpretati da Francesco Bianchini e Sebastiano Bronzato. La scelta del regista Berti è caduta proprio su loro due, per la leggerezza consapevole, la supponenza ingenua che ci mettono dentro.

Con i loro occhi, Berti è bravo a leggere le complessità del presente. (Ma questo lo sapevamo già, almeno fin da quando aveva letto il successo agro-alimentare emiliano in Terra di Burro). Berti è bravo a ricordarci l’immensità del problema, senza però impartire prediche, senza dare esca ad allarmi o minacce. Senza danneggiare opere d’arte e monumenti, tanto per dire.

Gesti d’arte

Preservandoli anzi. Come quei gesti antichissimi, rituali, sacri, a cui il danzatore-sciamano ritorna, quando di nuovo ricompare (è Guido Corso, a cui idealmente questo lavoro è dedicato, così come è dedicato a Bernardo, il figlio di Berti). Movimenti d’arte. Gesti dello spirito. 

Le vacanze di Alessandro Berti ph @Daniela Neri

Ma intanto si è alzato di nuovo il vento, il canneto si arrossa, il calore sale, Lao e Tom si addormentano esausti. I primi bagliori. L’incendio è già lì, dietro le piante. A pochi passi.

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P.S. Oltre che letto (è pubblicato nella collana I Gabbianiletteratura teatrale per giovani lettori di Edizioni Primavera, 10 euro) Le vacanze andrebbe visto, non fosse altro che per la scenografia. Un bambuseto autentico. Con il loro odore, il loro colore, il loro velo di foglie a terra, le canne costruiscono e definiscono un paesaggio artificiale e al tempo stesso organico. Futuro prossimo. Futuro presente anzi.

Collana I Gabbiani - Primavera Edizioni - Le vacanze di Alessandro Berti

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LE VACANZE

di Alessandro Berti
con Francesco Bianchini e Sebastiano Bronzato
danza Giovanni Campo
regia Alessandro Berti
disegno luci Théo Longuemare
assistente alla creazione e organizzazione Gaia Raffiotta
bambuseto Elle Natura Società Agricola
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con Casavuota

Questo Čechov è proprio Čechov. E un po’ mi spiace

Con un po’ ritardo, ma sono riuscito a vedere Il gabbiano firmato Leonardo Lidi. Aveva debuttato già l’estate scorsa, a Spoleto. Adesso, tra inverno e primavera si è incamminato in una fitta tournée in tanti teatri italiani. Del resto, a produrlo sono ben tre stabili: Torino, Umbria , Emilia Romagna.

Così l’ho visto al Verdi di Pordenone, un venerdì sera, in quella ricca e cospicua provincia italiana, dove la provincia russa, minuziosamente descritta da Čechov, si accomoda bene. Lo si notava anche dall’adesione del pubblico, molto coinvolto da questa storia di amori sbagliati e gabbiani morti ammazzati.

Il gabbiano - Leonardo Lidi

Quasi 125 anni separano la disastrosa ‘prima’ del Gabbiano, a San Pietroburgo (1896), da questa disciplinata replica a Pordenone. I tempi sono cambiati, i luoghi pure.

Quando scrive quella commedia Anton Čechov ha trentacinque anni, è malato, si sente vecchio. Leonardo Lidi ne ha trentaquattro quando, ai giorni nostri, decide di metterla in scena, e di lui si parla ancora come un giovane regista. I numeri, la parola vecchio, la parola giovane, hanno significati relativi.

Inutile affaccendarsi

Resta intatto invece, se non mi sbaglio, quel senso di torpore, o di languore, o di inutile affaccendarsi, quella rassegnazione che è tipica del teatro di Čechov. Lo dice molto bene Angelo Maria Ripellino, il nostro più bravo slavista del secolo scorso, nella sua introduzione al Teatro di Čechov per Einaudi. 

Sono sicuro che Lidi se l’è letta. Studiata anzi. Nei personaggi dello spettacolo rivedo proprio le sue frasi: “inchiodati in un punto morto… si muovono a vuoto… la vita scivola come acqua dalle loro mani e li trascina, li inghiotte come turaccioli…“. 

Così come giurerei che Lidi si è letto le note di regia al Gabbiano di Konstantin Stanislavskij, il regista che resuscitò la commedia, assieme a Nemirovič-Dančenko (1898), due anni esatti dopo il fallimento iniziale. Ne ha tratto, non dico suggerimenti, ma ispirazione, approfittando anche delle osservazioni e della traduzione di un altro nostro grande slavista, contemporaneo però, Fausto Malcovati (si possono leggere ora ripubblicate da Cuepress).

Il gabbiano - Leonardo Lidi - ph. Gianluca Pantaleo
ph. Gianluca Pantaleo

Fila tutto liscio

Sennò come spiegare questo Čechov così cechoviano. Questa di Lidi è una regia lontana da quella malizia che aveva spinto il regista, nato anche lui in provincia, dalle parti di Piacenza, a destrutturare Spettri di Ibsen, o a rigenerare La città morta di D’Annunzio (scrittori entrambi coevi a Čechov). Con un gran gusto perverso il primo, con una forte iniezione di parodia il secondo. 

E invece qui, con Čechov tutto fila, liscio, come l’autore vuole, nessun sussulto. 

La grazia e il tedio a morte del vivere in provincia” (poetava così un altro emiliano, Francesco Guccini). “I personaggi ascoltano di preferenza se stessi, studiandosi di cogliere e di rivelare ciò che avviene dentro a loro. Chiusi nel cerchio stregato delle proprie sollecitudini sono estranei l’uno all’altro, e non sanno comunicare né porgersi aiuto” (questo invece è di nuovo Ripellino). 

Ci sono pure dei guizzi ironici, e sono proprio quelle punture burlesche che Čechov amava inserire qua e là, tanto per dissipare ogni sospetto tragico. La stessa cosa fa Lidi.

[Tipo: si sente Gigliola Cinquetti cantare La Boèhme (da Canzonissima 1972) dopo che Nina ha detto che in casa di Kostja vivono come zingari. Spiritoso, no? Eppure mi domando sempre: com’è che questi millennial conoscono, magari amano, ste cose 😉 quelle che un boomer come me ha già archiviato in zona oblio?]

Gabbiano e solitudine

Ma poi è sulle note di solitudine che si accordano gli attori, a cui la regia sembra voler smorzare il mordente: Christian La Rosa (che era un disadattato Osvald in Spettri, un archeologo clown in La città morta) restituisce qui una interpretazione onesta, già vista, consolidata, di Kostja, giovane artista, pieno di ambizioni al primo atto, suicida per fallimento alla fine del quarto.

Mi è pure difficile capire quale inspiegabile attrazione amorosa debba coinvolgere in un triangolo stanco già sul nascere il vaporoso scrittore Trigorin (Massimiliano Speziani), l’egotistica attrice Arkadina (Francesca Mazza), la povera Nina, gabbiano protagonista suo malgrado (Giuliana Vigogna). E poi basta una battuta sola, a Maša (Ilaria Falini), per descriversi tutta: “Porto il lutto per la mia vita. Sono infelice“. Infelici sono tutti.

Il gabbiano Leonardo Lidi - Christian La Rosa e Giuliava Vigogna - ph. Gianluca Pantaleo
Christian La Rosa e Giuliana Vigogna – ph. Gianluca Pantaleo

“Il mordente è roba giovanilistica”

Leggo le note di regia a spettacolo concluso. Qui Lidi ci spiega che Čechov è il suo autore preferito, la sua scuola, che ogni tanto lo va trovare, e che si fida di quello che il russo gli dice. 

Čechov mi dice con cura che alla fine non c’è niente da vincere e che nessuna situazione si può gestire fino in fondo, mi abbraccia raccontandomi che il mordente è roba giovanilistica e che questa mania di controllo che tanto ci tranquillizza va mandata lentamente a quel paese“. 

Ho capito, ma un po’ mi spiace. Perché così, a 34 anni, Lidi sembra stare più con l’attempato scrittore Trigorin, il piacione, che con l’ambizioso Kostja, l’avventuroso. E poi perché di Čechov, Lidi ne promette altri due, prossimamente. E perché di Čechov chechoviani, in giro, ce ne son sempre tanti.

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IL GABBIANO 
progetto Čechov – prima tappa
da Anton Cechov
adattamento e regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, Angela Malfitano
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioliproduzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

visto al Teatro Verdi di Pordenone, marzo 2023

Akropolis non è solo Atene

Appartato. Defilato. Appena appena in periferia. A ponente di Genova. Devi sapere dov’è, per arrivarci. È un teatro. Ma è soprattutto uno spazio multiplo di lavoro. Uno studio per film-maker e per gente che si impegna, molto, nei libri. Inoltre: pedagogia e residenze artistiche, un festival, alfabetizzazione scenica, sviluppo dell’arte dello spettatore. Anche un Premio Ubu 2017 come progetto speciale. Una factory, insomma.

Apocatastasi - Akropolis - Genova

Factory

Mi è venuta subito in mente quella parola, quando è arrivato l’invito a visitare, assieme ad alcuni colleghi che scrivono di teatro, gli spazi di Akropolis, Sestri ponente, pochi chilometri in linea d’aria dalla famosa Lanterna. 

Factory. Non proprio quella resa famosa nei formidabili anni Sessanta da Andy Warhol, tutta pop art e trasgressione. Sotto i ponti, da allora ne sono passate di situazioni. Il pop è sparito dall’orizzonte. O meglio, ce n’è fin troppo, ma di sostanza diversa. E niente più trasgressione, siamo tutti più ponderati adesso, nei nostri severi anni Dieci e Venti. 

Akropolis è infatti una factory post-novecentesca, rigorosa, giudiziosa, un gruppo di lavoro e di pensiero. Al timone ci sono Clemente Tafuri e David Beronio. Che vent’anni fa, anzi qualcosa di più (2001), avevano deciso di fondare questa situazione

David Beronio e Clemente Tafuri - ph Laila Pozzo
David Beronio e Clemente Tafuri – ph Laila Pozzo

Akropolis, non solo Atene

Akropolis, lo sanno tutti, è quella di Atene, e anche di decine di città mediterranee. Akropolis, lo sanno molti di meno, è uno dei tre spettacoli culto di Grotowski, prima che il regista polacco optasse per altre speculazioni .

Le ragioni di quella scelta, quella fondazione che apriva il nuovo millennio a Genova, devono perciò stare là. In un luogo della mente, una toponomastica ideale che si situa tra l’origine e gli esiti del teatro. 

L’acropoli custodisce i misteri, rinnova il sacro” spiegano Tafuri e Beronio ” È solo in apparenza uno spazio separato. In realtà è, con l’agorà, il teatro di Dioniso e i luoghi preposti alla celebrazione dei misteri, il cuore pulsante di un’intera civiltà“.

Certo la civiltà nostra contemporanea, non ha più un cuore. Ne ha mille, migliaia, milioni. Ma lo sforzo per ricondurre teatro, arti performative, libri e prodotti audiovisivi, a un solo principio forte, a una originaria ispirazione, qui si percepisce bene. 

Akropolis - sala con gradinate chiuse
La sala di Akropolis con le gradinate detraibili

Lo avevo intuito già dalle pagine dei libri che da anni accompagnano l’attività di Akropolis. La collana si intitola Testimonianze ricerca azioni e sta in uno scaffale della mia libreria, un po’ defilato anche quello. È un taglio editoriale che si che nutre di filosofia, antropologia, umanesimi antichi e nuovi, e ritorna su su, fino a Nietzsche e alle sue riflessioni sulla nascita della tragedia. Poi corre giù giù, fino a uno dei padri negletti del teatro del ‘900 italiano: Alessandro Fersen.

Eliminare il superfluo è il motto che se ne può dedurre: andare alle radici. 

Viaggio ai confini del teatro

Lo intuisco anche adesso, mentre visito il loro spazio, rinnovato da qualche anno con una platea dinamica e leggera, dove Beronio e Tafuri ci fanno vedere i loro video e il loro teatro. Tre film-documentario dedicati a Paola Bianchi, una perfomer, a Carlo Sini, un filosofo, a Gianni Staropoli, un creatore di luce. Ce n’è ancora un altro dedicato a Massimiliano Civica

immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini
immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini

Viaggio ai confini del teatro è il sottotitolo per questo progetto. E si capisce bene, dal formato-intervista, dall’obiettivo-ritratto, dalle parole dette, che i tre vogliono aprirci porte e condurci in territori dove la definizione standard di teatro non vale più. Perché corpo, conoscenza, luce, sono grimaldelli per un discorso sulle profondità della rappresentazione. La parola giusta, anzi, è presentazione, messa in scena.

La danza dell’Ade

Il che accade un po’ più tardi, la sera, quando nello stesso spazio viene presentato Apocatastasi. Titolo complicato (io lo interpreto come ribaltamento radicale) e lavoro performativo essenziale. Nella presenze e nelle movenze di due figure femminili e una sola sedia, lo spettacolo lascia in noi spettatori il senso di ciò potrebbe, o dovrebbe essere stata, una “danza dell’Ade”: i volti oscurati dai lunghi capelli, la negazione dell’identità, due creature in relazione a tratti complice, a tratti conflittuale.

I fiati della colonna sonora, dal vivo, sono poi la sorpresa che si svela solo alla fine, con l’apparizione del Mademi Quartet. Formazione sperimentale che apre anche alla musica il registro plurale di questa Factory. Defilata, riservata, nella Genova del rumoroso business crocieristico. Turisti di terra e di mare che tra qualche giorno faranno magari tappa ad Atene. Per loro Akropolis sarà solo occasione per il prossimo selfie.

Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi
Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi

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LA PAROLA MALEDETTA. VIAGGIO AI CONFINI DEL TEATRO
quattro film di Clemente Tafuri e David Beronio
1) MASSIMILIANO CIVICA
2) PAOLA BIANCHI
3) CARLO SINI
4) GIANNI STAROPOLI
con la fotografia e il montaggio di Luca Donatiello e Alessandro Romi
produzione Teatro Akropolis Akropolislibri (2020, 2021, 2022)

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APOCATASTASI
regia Clemente Tafuri, David Beronio
con Roberta Campi, Giulia Franzone
musiche originali: Pietro Borgonovo /Mademi Quartet
produzione Teatro Akropolis con GOG – Giovine Orchestra Genovese

Verona è un bosco. Mario Martone esplora Romeo e Giulietta

Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta. Trentuno interpreti schierati davanti al pubblico entusiasta del Piccolo Teatro di Milano.
Quel pubblico che ha fiuto, che da sempre sa apprezzare, e vigorosamente applaude i grandi allestimenti. Lo faceva con Strehler. Lo faceva con Ronconi. Oggi lo fa con Martone.
In Italia, la grande regia continua.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
Romeo e Giulietta – ph Masiar Pasquali

Lacrime e adrenalina

L’intenzione – se ho capito bene ciò che ha detto nelle interviste – era dare a Romeo e Giulietta nuova vita. Conservare la storia, la potenza, la fortuna del più famoso fra i testi di Shakespeare. E allo stesso tempo liberarlo da croste, letture grigie, antiquate traduzioni. E da quella mitologia, teatrale e turistica assieme, che porta oggi a Verona milioni di persone. 

Mario Martone – se ho raccolto a dovere i tanti fili dello spettacolo – c’è riuscito. Come gli è capitato spesso di fare con i suoi allestimenti musicali (Barbiere e Traviata, per esempio). 

Oggi consegna al maggior palcoscenico contemporaneo italiano, quella combinazione di altezze e di bassifondi, di poesia e trivialità, di comico e tragico, che di sicuro c’era ai tempi in cui, con gli stessi ingredienti, il giovane Shakespeare catturava il pubblico di una Londra aristocratica e ultrapopolare, capace di lacrime per la acerba e funesta storia d’amore, ma anche di adrenalina davanti al sangue e ai pestaggi di giovani bande rivali. 

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

“Sono partito proprio dall’età – scrive il regista – da questo mondo minorenne misterioso, ambiguo, tutto da esplorare, come nel testo di Shakespeare, che ci avverte che non sempre tutto è scritto; quindi molto va cercato, interpretato”

Missione compiuta, direi. Come era compiuto il ribaltamento geniale, sessant’anni fa, di Sondheim e Bernstein in quella West Side Story (1961) di bianchi e portoricani. O più tardi di Baz Luhrmann, nel californiano William Shakespeare’s Romeo + Juliet (1996), reinventato per Leo Di Caprio e Claire Danes a Verona Beach, periferia pulp di Los Angeles.

Sballati e attaccabrighe 

Niente Verona nemmeno per Martone. Né balcone né cripta. E invece, con maestoso colpo di scena, un bosco lussureggiante, un intrico d’alberi, di foglie, di rami, camminamenti pericolosi, una stellata notte del cuore, questa è Verona.

Ma anche nuvole video, ombre minacciose dentro le quali si nascondono e si dipanano l’amore e i coltelli, Bach e l’house da discoteca, dance party e aperitivini. E inoltre birrette, caffè, occhiali da sole, felpe con il cappuccio, rottami polverosi e la jeep per il fuoristrada.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Segni contemporanei, ma non è un’attualizzazione. È uno Shakespeare infiltrato dal presente, cortocircuito tra il volo metaforico delle battute più celebri (dove cantano allodole e usignoli, dove la luce erompe da est) e l’aggressivo vocabolario di una treccani aggiornata. Nella quale daspo (che poi sarebbe l’esilio) e troia rifulgono alla luce blu delle sirene dei carabinieri. I Capuleti e i Montecchi di uno Shakespeare alcolico, sboccato, sballato, scurrile. 

Credo che la scena boschiva e strepitosa di Margherita Palli e la traduzione di Chiara Lagani a cui Martone aggiunge il propio carico di slang, sapranno rendere Shakespeare digeribile anche al pubblico delle scuole. Che di Capuleti e Montecchi ignora – per quella che è la mia esperienza – persino il nome

Grintosi, ribelli, delicati

Dentro al cast sornione, nel reparto genitoriale, Martone dispiega alcuni tra i nomi pop della scena italiana oggi, fra i più capaci di caricare di colore quei personaggi che edizioni banali di Romeo e Giulietta avevano ingrigito, per puntare al plot romantico.

Qui invece c’è grinta di Licia Lanera (che da balia si svela audace zia), di Michele Di Mauro, (festaiolo e irascibile boss dei Capuleti), di Gabriele Benedetti (che si fa frate condiscendente e parlaccione), di Letizia Guidone (una madre Capuleti avvolta in vestaglie di seta da dark lady). 

Gabriele Benedetti in Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Atletico e fumantino è poi il reparto adolescenziale. Ribelli senza causa, attaccabrighe selvatici pronti per un niente a venire alle mani e alle lame. Velocissimi ad arrampicarsi sugli alberi o a improvvisare una band canterina, basso, chitarra, percussioni. Capaci anche di esaltanti performance orali. Al monologo della regina Mab, Alessandro Bay Rossi, assicura l’impeto di uno poetry slam di scatenata fantasia. E non gli sono da meno Leonardo Castellani (Tebaldo) e Edoardo Sabato (Benvolio). Persino a Paride, insipido e sfortunato promesso sposo, Emanuele Maria Di Stefano dà una sua drammatica dignità.

Francesco Gheghi e Anita Serafini - Romeo e Giulietta - Piccolo Teatro Milano
ph Masiar Pasquali

Ma a fissarsi nella memoria degli spettatori saranno – ne sono sicuro – la delicatezza e la sicurezza con cui i giovanissimi Francesco Gheghi (19 anni) e Anita Serafini (15 anni) affrontano parti che, da quando Shakespeare le ha messe su carta, mettono i brividi a qualsiasi attore, con ben più esperienza.

Il suo Romeo timidino, la sua Giulietta imbronciata, sono gli assi vincenti di questa produzione allestimento. Sembra davvero che incontrino quell’amore che si incontra per la prima volta. Sembra che bevano davvero il veleno fiabesco che li uccide. Ma che da più di quattro secoli li rende anche immortali.

In scena al Piccolo Teatro di Milano, fino al 6 aprile

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ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
traduzione Chiara Lagani
adattamento e regia Mario Martone
scene Margherita Palli
costumi Giada Masi
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
video Alessandro Papa
regista assistente Raffaele Di Florio

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani

e con Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino
e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano: Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Pasolini mission impossible. 2) Pilade

Due giorni fa ho scritto un post su Comizi d’amore. Oggi è la volta di Pilade. Tanto per dire quanto – secondo me – il teatro di Pier Paolo Pasolini non si possa redimere dal suo tempo. Nonostante un anno di celebrazioni e ripetizioni dello stesso, consumato mantra. Che ne farebbe un nostro contemporaneo.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Pilade – regia Giorgina Pi (2023) – ph Guido Mencari

Non era cosa sua…

Lo giuro. Ci ho provato per anni a farmelo piacere. A leggere e ascoltare di chi ne sapeva più di me. Ad andare a vedere chi lo metteva in scena. Niente. Non c’è stato verso. 

Valoroso regista di cinema, Pier Paolo Pasolini. Chi potrebbe negarlo. Intellettuale lucido. Certo. Spregiudicato opinionista. Ma il teatro proprio no, non era cosa sua. Eppure…

Lo dico dopo che un’ennesima accensione di buona volontà mi ha portato ad assistere a Pilade, all’Arena del Sole a Bologna. Città nella quale peraltro Pasolini era nato, 101 anni fa. Non in Friuli come pensano e scrivono molti. 

Pilade è uno dei sei testi, “le tragedie borghesi” che Pasolini, a letto, convalescente per un’ulcera, scrive in una manciata di mesi, attorno al 1966, e poi variamente rimette a posto, fino alle soglie del 1974. Orgia, Bestia da stile, Pilade, Porcile, Affabulazione, Calderon.

Lui stesso aveva provato a portarne in scena una (Orgia, nel 1968) con esiti – dice chi l’ha vista – disastrosi. Pilade invece, soprattutto per l’impegno dell’autore in una inedita reinvenzione del mito, è sicuramente quella che ha conosciuto più allestimenti.

Pilade - Luca Ronconi - Teatro Stabile Torino
Pilade – regia Luca Ronconi (1993) – ph Marcello Norberth

Come devi immaginarmi

La nuova occasione bolognese viene dal progetto che Valter Malosti (direttore di Ert – Emilia Romagna Teatro fondazione) e Giovanni Agosti si sono proposti di varare, in coda a 12 mesi di reiterate celebrazioni pasoliniane in tutta Italia (i 100 anni dalla nascita), che parevano dover concludersi a dicembre. 

Invece sarà fino a maggio 2023 che le sei tragedie verranno riproposte al pubblico, affidate a una serie di registi e di interpreti, che si sono affermati sulla scena italiana in tempi recentissimi. In modo che lo scarto generazionale possa “fornire una risposta alla attualità inesausta delle sua lezione etica e politica“. Così almeno sta scritto nella presentazione. 

Il titolo del progetto è “Come devi immaginarmi”. L’intenzione dovrebbe essere appunto quella di ri-immaginarlo, e di scavalcare una lettura scolastica e logora del Pasolini etichettato ancora oggi come corsaro cantore di scomparse lucciole. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Aurora Peres è Elettra – ph Guido Mencari

Affrontare Pilade

Lo giuro, di nuovo. Prima di affrontarlo, Pilade me lo sono ristudiato, forte del poderoso volume che i Meridiani Mondadori hanno dedicato al teatro pasoliniano, e degli indispensabili contributi saggistici sviluppati in almeno due decenni da Stefano Casi.

Mi sono pure letto, con attenzione, le note scritte per lo spettacolo dal dramaturg Massimo Fusillo e quelle di Giorgina Pi, che ne è regista. Di lei avevo apprezzato molto, tre anni fa, la scelta di lavorare su un’altra re-invenzione del mito, Tiresias, nella scrittura rap e poetica di Kae Tempest. Che ci fosse ancora lei a lavorare su Pilade, immaginaria prosecuzione dell’Orestea di Eschilo, ci poteva stare.

A Bologna sono davvero arrivato senza pregiudizi. Eppure… anche in questo caso il teatro di Pasolini mi è precipitato addosso. E continua a farmi pensare che meglio è lasciarlo al suo posto, quell’esperimento fatto in tempo di ulcera, in quei formidabili anni Sessanta, quando politica e scrittura d’arte si fronteggiavano in una lotta corpo a corpo, quando consegnare al teatro una profezia civile era probabilmente possibile.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Gabriele Portoghese e Valentino Mannias sono Oreste e Pilade – ph Guido Mencari

Narcisismo

Anche se il Manifesto per un Nuovo Teatro (la sua ambiziosa proposta di un Teatro di Parola) era già fuori dal tempo. Anche se era già insopportabile il suo narcisismo. Luca Ronconi spiegava con un guizzo ironico che a Pasolini a piaceva molto “pisciare nel contenitore del personaggio qualcosa di se stesso, che con il personaggio, in quel momento, non ha nulla a che vedere”.

E proprio su Pilade, a Torino, nel 1993, Ronconi ci aveva passato parecchi mesi. E ricordo che nemmeno Antonio Latella in una dismessa fabbrica di pneumatici (2002), nemmeno Archivio Zeta (2015) al cimitero germanico della Futa, ne avevano tirato fuori qualcosa di memorabile.

Anche stavolta, a dispetto delle buone intenzioni che Giorgina Pi e i suoi attori ci mettono, Pilade resta – a mio modo di vedere almeno – un reperto, un po’ mummificato persino, delle speranze e dei tradimenti di quella Storia: un testo inattuale, in certi passaggi poco comprensibile. Francamente tedioso. La verbosità, l’insistenza della disputa e della dialettica, la smania profetica, a teatro procurano ampi sbadigli. A tutti. 

Anche se ci si sforza di trasformare operai, studenti, contadini, rivoluzionari, che popolavano allora quel paesaggio, in un’umanità africana, migrante, mutante, di adesso. 

Anche se la scenografia di bidoni arrugginiti, carcasse d’auto, roulotte di nomadi o prostitute, strizza l’occhio alle ristrutturazioni che degli stessi miti ha fatto Milo Rau. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Il quale aveva portato in scena qualche anno fa, non già il teatro di Pasolini, ma Salò, o le 120 giornate di Sodoma. “Soprattutto – aveva detto il regista svizzero – mi interessa il carattere ibrido della sua arte. Per un verso è molto popolare, per un altro possiede una pendenza intellettuale e politica molto potente”.

I dubbi di Pilade

E scusate se mi è venuto da ridere, pensando a un Pasolini “molto popolare”, sentire Atena (la bella Sylvia De Fanti, tacco 12, acconciatura intrigante, un po’ Giuni Russo prima maniera) mentre rimprovera il dubbioso Pilade (bravo e convincente Valentino Mannias, e sempre bravo Gabriele Portoghese che fa Oreste). A lui, e a noi, l’elegante Atena spiffera che “Ogni euristica è consolatoria“. Chiaro, no? Anche no.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Altro che popolo: il Pasolini del teatro si rivolge (si rivolgeva anzi) a una ristretta élite intellettuale, “i gruppi avanzati della borghesia“. Lo diceva lui stesso nel Manifesto. Tutta gente studiatissima, i soli che forse potevano capirlo nell’Italia del boom e delle Fiat Seicento. Elite di cui oggi non c’è nemmeno l’ombra. Nemmeno nella dotta, giovane, fluida, prismatica, teatrante Bologna. Figurarsi altrove.

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PILADE 
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Bluemotion
regia, scene, videoGiorgina Pi
con Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese
e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai

dramaturg Massimo Fusillo
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar
disegno luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion