Akropolis non è solo Atene

Appartato. Defilato. Appena appena in periferia. A ponente di Genova. Devi sapere dov’è, per arrivarci. È un teatro. Ma è soprattutto uno spazio multiplo di lavoro. Uno studio per film-maker e per gente che si impegna, molto, nei libri. Inoltre: pedagogia e residenze artistiche, un festival, alfabetizzazione scenica, sviluppo dell’arte dello spettatore. Anche un Premio Ubu 2017 come progetto speciale. Una factory, insomma.

Apocatastasi - Akropolis - Genova

Factory

Mi è venuta subito in mente quella parola, quando è arrivato l’invito a visitare, assieme ad alcuni colleghi che scrivono di teatro, gli spazi di Akropolis, Sestri ponente, pochi chilometri in linea d’aria dalla famosa Lanterna. 

Factory. Non proprio quella resa famosa nei formidabili anni Sessanta da Andy Warhol, tutta pop art e trasgressione. Sotto i ponti, da allora ne sono passate di situazioni. Il pop è sparito dall’orizzonte. O meglio, ce n’è fin troppo, ma di sostanza diversa. E niente più trasgressione, siamo tutti più ponderati adesso, nei nostri severi anni Dieci e Venti. 

Akropolis è infatti una factory post-novecentesca, rigorosa, giudiziosa, un gruppo di lavoro e di pensiero. Al timone ci sono Clemente Tafuri e David Beronio. Che vent’anni fa, anzi qualcosa di più (2001), avevano deciso di fondare questa situazione

David Beronio e Clemente Tafuri - ph Laila Pozzo
David Beronio e Clemente Tafuri – ph Laila Pozzo

Akropolis, non solo Atene

Akropolis, lo sanno tutti, è quella di Atene, e anche di decine di città mediterranee. Akropolis, lo sanno molti di meno, è uno dei tre spettacoli culto di Grotowski, prima che il regista polacco optasse per altre speculazioni .

Le ragioni di quella scelta, quella fondazione che apriva il nuovo millennio a Genova, devono perciò stare là. In un luogo della mente, una toponomastica ideale che si situa tra l’origine e gli esiti del teatro. 

L’acropoli custodisce i misteri, rinnova il sacro” spiegano Tafuri e Beronio ” È solo in apparenza uno spazio separato. In realtà è, con l’agorà, il teatro di Dioniso e i luoghi preposti alla celebrazione dei misteri, il cuore pulsante di un’intera civiltà“.

Certo la civiltà nostra contemporanea, non ha più un cuore. Ne ha mille, migliaia, milioni. Ma lo sforzo per ricondurre teatro, arti performative, libri e prodotti audiovisivi, a un solo principio forte, a una originaria ispirazione, qui si percepisce bene. 

Akropolis - sala con gradinate chiuse
La sala di Akropolis con le gradinate detraibili

Lo avevo intuito già dalle pagine dei libri che da anni accompagnano l’attività di Akropolis. La collana si intitola Testimonianze ricerca azioni e sta in uno scaffale della mia libreria, un po’ defilato anche quello. È un taglio editoriale che si che nutre di filosofia, antropologia, umanesimi antichi e nuovi, e ritorna su su, fino a Nietzsche e alle sue riflessioni sulla nascita della tragedia. Poi corre giù giù, fino a uno dei padri negletti del teatro del ‘900 italiano: Alessandro Fersen.

Eliminare il superfluo è il motto che se ne può dedurre: andare alle radici. 

Viaggio ai confini del teatro

Lo intuisco anche adesso, mentre visito il loro spazio, rinnovato da qualche anno con una platea dinamica e leggera, dove Beronio e Tafuri ci fanno vedere i loro video e il loro teatro. Tre film-documentario dedicati a Paola Bianchi, una perfomer, a Carlo Sini, un filosofo, a Gianni Staropoli, un creatore di luce. Ce n’è ancora un altro dedicato a Massimiliano Civica

immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini
immagine dal film documentario dedicato a Carlo Sini

Viaggio ai confini del teatro è il sottotitolo per questo progetto. E si capisce bene, dal formato-intervista, dall’obiettivo-ritratto, dalle parole dette, che i tre vogliono aprirci porte e condurci in territori dove la definizione standard di teatro non vale più. Perché corpo, conoscenza, luce, sono grimaldelli per un discorso sulle profondità della rappresentazione. La parola giusta, anzi, è presentazione, messa in scena.

La danza dell’Ade

Il che accade un po’ più tardi, la sera, quando nello stesso spazio viene presentato Apocatastasi. Titolo complicato (io lo interpreto come ribaltamento radicale) e lavoro performativo essenziale. Nella presenze e nelle movenze di due figure femminili e una sola sedia, lo spettacolo lascia in noi spettatori il senso di ciò potrebbe, o dovrebbe essere stata, una “danza dell’Ade”: i volti oscurati dai lunghi capelli, la negazione dell’identità, due creature in relazione a tratti complice, a tratti conflittuale.

I fiati della colonna sonora, dal vivo, sono poi la sorpresa che si svela solo alla fine, con l’apparizione del Mademi Quartet. Formazione sperimentale che apre anche alla musica il registro plurale di questa Factory. Defilata, riservata, nella Genova del rumoroso business crocieristico. Turisti di terra e di mare che tra qualche giorno faranno magari tappa ad Atene. Per loro Akropolis sarà solo occasione per il prossimo selfie.

Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi
Roberta Campi e Giulia Franzone in Apocatastasi

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LA PAROLA MALEDETTA. VIAGGIO AI CONFINI DEL TEATRO
quattro film di Clemente Tafuri e David Beronio
1) MASSIMILIANO CIVICA
2) PAOLA BIANCHI
3) CARLO SINI
4) GIANNI STAROPOLI
con la fotografia e il montaggio di Luca Donatiello e Alessandro Romi
produzione Teatro Akropolis Akropolislibri (2020, 2021, 2022)

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APOCATASTASI
regia Clemente Tafuri, David Beronio
con Roberta Campi, Giulia Franzone
musiche originali: Pietro Borgonovo /Mademi Quartet
produzione Teatro Akropolis con GOG – Giovine Orchestra Genovese

Verona è un bosco. Mario Martone esplora Romeo e Giulietta

Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta. Trentuno interpreti schierati davanti al pubblico entusiasta del Piccolo Teatro di Milano.
Quel pubblico che ha fiuto, che da sempre sa apprezzare, e vigorosamente applaude i grandi allestimenti. Lo faceva con Strehler. Lo faceva con Ronconi. Oggi lo fa con Martone.
In Italia, la grande regia continua.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
Romeo e Giulietta – ph Masiar Pasquali

Lacrime e adrenalina

L’intenzione – se ho capito bene ciò che ha detto nelle interviste – era dare a Romeo e Giulietta nuova vita. Conservare la storia, la potenza, la fortuna del più famoso fra i testi di Shakespeare. E allo stesso tempo liberarlo da croste, letture grigie, antiquate traduzioni. E da quella mitologia, teatrale e turistica assieme, che porta oggi a Verona milioni di persone. 

Mario Martone – se ho raccolto a dovere i tanti fili dello spettacolo – c’è riuscito. Come gli è capitato spesso di fare con i suoi allestimenti musicali (Barbiere e Traviata, per esempio). 

Oggi consegna al maggior palcoscenico contemporaneo italiano, quella combinazione di altezze e di bassifondi, di poesia e trivialità, di comico e tragico, che di sicuro c’era ai tempi in cui, con gli stessi ingredienti, il giovane Shakespeare catturava il pubblico di una Londra aristocratica e ultrapopolare, capace di lacrime per la acerba e funesta storia d’amore, ma anche di adrenalina davanti al sangue e ai pestaggi di giovani bande rivali. 

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

“Sono partito proprio dall’età – scrive il regista – da questo mondo minorenne misterioso, ambiguo, tutto da esplorare, come nel testo di Shakespeare, che ci avverte che non sempre tutto è scritto; quindi molto va cercato, interpretato”

Missione compiuta, direi. Come era compiuto il ribaltamento geniale, sessant’anni fa, di Sondheim e Bernstein in quella West Side Story (1961) di bianchi e portoricani. O più tardi di Baz Luhrmann, nel californiano William Shakespeare’s Romeo + Juliet (1996), reinventato per Leo Di Caprio e Claire Danes a Verona Beach, periferia pulp di Los Angeles.

Sballati e attaccabrighe 

Niente Verona nemmeno per Martone. Né balcone né cripta. E invece, con maestoso colpo di scena, un bosco lussureggiante, un intrico d’alberi, di foglie, di rami, camminamenti pericolosi, una stellata notte del cuore, questa è Verona.

Ma anche nuvole video, ombre minacciose dentro le quali si nascondono e si dipanano l’amore e i coltelli, Bach e l’house da discoteca, dance party e aperitivini. E inoltre birrette, caffè, occhiali da sole, felpe con il cappuccio, rottami polverosi e la jeep per il fuoristrada.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Segni contemporanei, ma non è un’attualizzazione. È uno Shakespeare infiltrato dal presente, cortocircuito tra il volo metaforico delle battute più celebri (dove cantano allodole e usignoli, dove la luce erompe da est) e l’aggressivo vocabolario di una treccani aggiornata. Nella quale daspo (che poi sarebbe l’esilio) e troia rifulgono alla luce blu delle sirene dei carabinieri. I Capuleti e i Montecchi di uno Shakespeare alcolico, sboccato, sballato, scurrile. 

Credo che la scena boschiva e strepitosa di Margherita Palli e la traduzione di Chiara Lagani a cui Martone aggiunge il propio carico di slang, sapranno rendere Shakespeare digeribile anche al pubblico delle scuole. Che di Capuleti e Montecchi ignora – per quella che è la mia esperienza – persino il nome

Grintosi, ribelli, delicati

Dentro al cast sornione, nel reparto genitoriale, Martone dispiega alcuni tra i nomi pop della scena italiana oggi, fra i più capaci di caricare di colore quei personaggi che edizioni banali di Romeo e Giulietta avevano ingrigito, per puntare al plot romantico.

Qui invece c’è grinta di Licia Lanera (che da balia si svela audace zia), di Michele Di Mauro, (festaiolo e irascibile boss dei Capuleti), di Gabriele Benedetti (che si fa frate condiscendente e parlaccione), di Letizia Guidone (una madre Capuleti avvolta in vestaglie di seta da dark lady). 

Gabriele Benedetti in Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Atletico e fumantino è poi il reparto adolescenziale. Ribelli senza causa, attaccabrighe selvatici pronti per un niente a venire alle mani e alle lame. Velocissimi ad arrampicarsi sugli alberi o a improvvisare una band canterina, basso, chitarra, percussioni. Capaci anche di esaltanti performance orali. Al monologo della regina Mab, Alessandro Bay Rossi, assicura l’impeto di uno poetry slam di scatenata fantasia. E non gli sono da meno Leonardo Castellani (Tebaldo) e Edoardo Sabato (Benvolio). Persino a Paride, insipido e sfortunato promesso sposo, Emanuele Maria Di Stefano dà una sua drammatica dignità.

Francesco Gheghi e Anita Serafini - Romeo e Giulietta - Piccolo Teatro Milano
ph Masiar Pasquali

Ma a fissarsi nella memoria degli spettatori saranno – ne sono sicuro – la delicatezza e la sicurezza con cui i giovanissimi Francesco Gheghi (19 anni) e Anita Serafini (15 anni) affrontano parti che, da quando Shakespeare le ha messe su carta, mettono i brividi a qualsiasi attore, con ben più esperienza.

Il suo Romeo timidino, la sua Giulietta imbronciata, sono gli assi vincenti di questa produzione allestimento. Sembra davvero che incontrino quell’amore che si incontra per la prima volta. Sembra che bevano davvero il veleno fiabesco che li uccide. Ma che da più di quattro secoli li rende anche immortali.

In scena al Piccolo Teatro di Milano, fino al 6 aprile

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ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
traduzione Chiara Lagani
adattamento e regia Mario Martone
scene Margherita Palli
costumi Giada Masi
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
video Alessandro Papa
regista assistente Raffaele Di Florio

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani

e con Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino
e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano: Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Pasolini mission impossible. 2) Pilade

Due giorni fa ho scritto un post su Comizi d’amore. Oggi è la volta di Pilade. Tanto per dire quanto – secondo me – il teatro di Pier Paolo Pasolini non si possa redimere dal suo tempo. Nonostante un anno di celebrazioni e ripetizioni dello stesso, consumato mantra. Che ne farebbe un nostro contemporaneo.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Pilade – regia Giorgina Pi (2023) – ph Guido Mencari

Non era cosa sua…

Lo giuro. Ci ho provato per anni a farmelo piacere. A leggere e ascoltare di chi ne sapeva più di me. Ad andare a vedere chi lo metteva in scena. Niente. Non c’è stato verso. 

Valoroso regista di cinema, Pier Paolo Pasolini. Chi potrebbe negarlo. Intellettuale lucido. Certo. Spregiudicato opinionista. Ma il teatro proprio no, non era cosa sua. Eppure…

Lo dico dopo che un’ennesima accensione di buona volontà mi ha portato ad assistere a Pilade, all’Arena del Sole a Bologna. Città nella quale peraltro Pasolini era nato, 101 anni fa. Non in Friuli come pensano e scrivono molti. 

Pilade è uno dei sei testi, “le tragedie borghesi” che Pasolini, a letto, convalescente per un’ulcera, scrive in una manciata di mesi, attorno al 1966, e poi variamente rimette a posto, fino alle soglie del 1974. Orgia, Bestia da stile, Pilade, Porcile, Affabulazione, Calderon.

Lui stesso aveva provato a portarne in scena una (Orgia, nel 1968) con esiti – dice chi l’ha vista – disastrosi. Pilade invece, soprattutto per l’impegno dell’autore in una inedita reinvenzione del mito, è sicuramente quella che ha conosciuto più allestimenti.

Pilade - Luca Ronconi - Teatro Stabile Torino
Pilade – regia Luca Ronconi (1993) – ph Marcello Norberth

Come devi immaginarmi

La nuova occasione bolognese viene dal progetto che Valter Malosti (direttore di Ert – Emilia Romagna Teatro fondazione) e Giovanni Agosti si sono proposti di varare, in coda a 12 mesi di reiterate celebrazioni pasoliniane in tutta Italia (i 100 anni dalla nascita), che parevano dover concludersi a dicembre. 

Invece sarà fino a maggio 2023 che le sei tragedie verranno riproposte al pubblico, affidate a una serie di registi e di interpreti, che si sono affermati sulla scena italiana in tempi recentissimi. In modo che lo scarto generazionale possa “fornire una risposta alla attualità inesausta delle sua lezione etica e politica“. Così almeno sta scritto nella presentazione. 

Il titolo del progetto è “Come devi immaginarmi”. L’intenzione dovrebbe essere appunto quella di ri-immaginarlo, e di scavalcare una lettura scolastica e logora del Pasolini etichettato ancora oggi come corsaro cantore di scomparse lucciole. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Aurora Peres è Elettra – ph Guido Mencari

Affrontare Pilade

Lo giuro, di nuovo. Prima di affrontarlo, Pilade me lo sono ristudiato, forte del poderoso volume che i Meridiani Mondadori hanno dedicato al teatro pasoliniano, e degli indispensabili contributi saggistici sviluppati in almeno due decenni da Stefano Casi.

Mi sono pure letto, con attenzione, le note scritte per lo spettacolo dal dramaturg Massimo Fusillo e quelle di Giorgina Pi, che ne è regista. Di lei avevo apprezzato molto, tre anni fa, la scelta di lavorare su un’altra re-invenzione del mito, Tiresias, nella scrittura rap e poetica di Kae Tempest. Che ci fosse ancora lei a lavorare su Pilade, immaginaria prosecuzione dell’Orestea di Eschilo, ci poteva stare.

A Bologna sono davvero arrivato senza pregiudizi. Eppure… anche in questo caso il teatro di Pasolini mi è precipitato addosso. E continua a farmi pensare che meglio è lasciarlo al suo posto, quell’esperimento fatto in tempo di ulcera, in quei formidabili anni Sessanta, quando politica e scrittura d’arte si fronteggiavano in una lotta corpo a corpo, quando consegnare al teatro una profezia civile era probabilmente possibile.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Gabriele Portoghese e Valentino Mannias sono Oreste e Pilade – ph Guido Mencari

Narcisismo

Anche se il Manifesto per un Nuovo Teatro (la sua ambiziosa proposta di un Teatro di Parola) era già fuori dal tempo. Anche se era già insopportabile il suo narcisismo. Luca Ronconi spiegava con un guizzo ironico che a Pasolini a piaceva molto “pisciare nel contenitore del personaggio qualcosa di se stesso, che con il personaggio, in quel momento, non ha nulla a che vedere”.

E proprio su Pilade, a Torino, nel 1993, Ronconi ci aveva passato parecchi mesi. E ricordo che nemmeno Antonio Latella in una dismessa fabbrica di pneumatici (2002), nemmeno Archivio Zeta (2015) al cimitero germanico della Futa, ne avevano tirato fuori qualcosa di memorabile.

Anche stavolta, a dispetto delle buone intenzioni che Giorgina Pi e i suoi attori ci mettono, Pilade resta – a mio modo di vedere almeno – un reperto, un po’ mummificato persino, delle speranze e dei tradimenti di quella Storia: un testo inattuale, in certi passaggi poco comprensibile. Francamente tedioso. La verbosità, l’insistenza della disputa e della dialettica, la smania profetica, a teatro procurano ampi sbadigli. A tutti. 

Anche se ci si sforza di trasformare operai, studenti, contadini, rivoluzionari, che popolavano allora quel paesaggio, in un’umanità africana, migrante, mutante, di adesso. 

Anche se la scenografia di bidoni arrugginiti, carcasse d’auto, roulotte di nomadi o prostitute, strizza l’occhio alle ristrutturazioni che degli stessi miti ha fatto Milo Rau. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Il quale aveva portato in scena qualche anno fa, non già il teatro di Pasolini, ma Salò, o le 120 giornate di Sodoma. “Soprattutto – aveva detto il regista svizzero – mi interessa il carattere ibrido della sua arte. Per un verso è molto popolare, per un altro possiede una pendenza intellettuale e politica molto potente”.

I dubbi di Pilade

E scusate se mi è venuto da ridere, pensando a un Pasolini “molto popolare”, sentire Atena (la bella Sylvia De Fanti, tacco 12, acconciatura intrigante, un po’ Giuni Russo prima maniera) mentre rimprovera il dubbioso Pilade (bravo e convincente Valentino Mannias, e sempre bravo Gabriele Portoghese che fa Oreste). A lui, e a noi, l’elegante Atena spiffera che “Ogni euristica è consolatoria“. Chiaro, no? Anche no.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Altro che popolo: il Pasolini del teatro si rivolge (si rivolgeva anzi) a una ristretta élite intellettuale, “i gruppi avanzati della borghesia“. Lo diceva lui stesso nel Manifesto. Tutta gente studiatissima, i soli che forse potevano capirlo nell’Italia del boom e delle Fiat Seicento. Elite di cui oggi non c’è nemmeno l’ombra. Nemmeno nella dotta, giovane, fluida, prismatica, teatrante Bologna. Figurarsi altrove.

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PILADE 
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Bluemotion
regia, scene, videoGiorgina Pi
con Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese
e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai

dramaturg Massimo Fusillo
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar
disegno luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion

Pasolini mission impossible. 1) Comizi d’amore

Comizi d’amore è il titolo di un laboratorio e di una produzione di teatro partecipato, da poco presentata a Udine nel cartellone di Teatro Contatto, all’interno del progetto 100 x 100 Pasolini. Si intitolava allo stesso modo – Comizi d’amore – anche il film-reportage che Pier Paolo Pasolini realizzò all’inizio degli anni Sessanta.

Comizi d’amore laboratorio viene ripreso in questi giorni anche ai Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce.

Comizi d'amore  1 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

Italia 1963 

Con una cinepresa alle spalle e il microfono in mano, Pier Paolo Pasolini interroga uomini e donne in costume da bagno su una spiaggia italiana battuta dal sole. “Signora, lei cosa pensa del divorzio?”. A una coppia chiede: “Pensate che il matrimonio risolva i problemi sessuali?”. 

Davanti a una fabbrica, si rivolge poi a un gruppo di operai, tutti maschi. “Volevo sapere la vostra opinione sulla legge Merlin”. La legge Merlin aveva fatto chiudere, cinque anni prima, le case di tolleranza. ”Per me è una gran boiata” risponde uno di loro. “Perché?”. “Perché girano molte malattie di Venere, e i brutti hanno diritto anche loro di trovare le donne”.

Il gruppo di ragazzini, ai quali ha appena chiesto se sanno come sono nati, gli dà risposte ovvie – “la cicogna” – ma a volte strabilianti. ”Lo zio, mi ha portato lo zio!”. Oppure “La lavatrice”. Lui, lo sbarbatello più svelto, voleva dire levatrice, ma la piena alfabetizzazione, allora nel nostro Paese, è di là da venire.

Pier Paolo Pasolini - Comizi d'amore (1964)
Comizi d’amore (1964)

Cinema inchiesta

Comizi d’amore è il titolo del film-reportage che Pasolini realizza in un’Italia anni Sessanta, prossima al traguardo del benessere. E che però, a sentire le risposte, le battute, i ragionamenti raccolti dalla gente per strada e nei quartieri, risulta incredibilmente arretrata sui temi della sessualità, della condizione femminile, della prostituzione. I tabù di una nazione. La pellicola è un luminoso esempio di giornalismo d’inchiesta. Per questo rimane tra i 100 film italiani che, in ogni caso, si dovrebbero salvare.

Comizi d'amore  2 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

Teatro partecipato

Ha lo stesso titolo, Comizi d’amore, anche l’esperienza che la regista Rita Maffei ha voluto quest’anno proporre a un gruppo di uomini e di donne, persone di diverse età e provenienza, che da parecchio tempo lavorano con lei in progetti di laboratorio e teatro partecipato. Formula che in Italia si è sviluppata negli scorsi vent’anni, ed è ormai accreditata tra i modi di produzione delle imprese creative.

Grazie al gruppo dei suoi non-attori, non-interpreti, non-personaggi, anche questi Comizi d’amore, prodotti da Css – Udine, si propongono d’indagare temi che hanno a che fare con la sessualità. E oggi, in particolare, con le questioni e la percezione di genere. La vituperata cultura del gender.

Teatro e cinema documentario sono però fattispecie diverse. Se il secondo può ambire a una visione panoramica della società, dei suoi comportamenti, delle percezioni collettive, inevitabilmente il primo riporta a esperienze singole, storie, racconti che sembrano possedere tanta più forza quanto più si innestano nella verità di coloro che le raccontano. Come succede spesso nel teatro partecipato, la coralità è un effetto, più che un principio. 

Comizi d'amore  3 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
Ph Alice BL Durigatto

Specialisti del sé

Così, rispetto al lavoro da cui riprende il titolo, questi teatrali Comizi d’amore – l’amore dei nostri Anni Venti – imboccano la strada di una rievocazione affettuosa, moderatamente nostalgica, delle esperienze che ciascuno dei partecipanti ha vissuto in prima persona

Di quella che, ad esempio, è stata “la prima volta”. Oppure di quale sia stata l’educazione al sesso e al sentimento ricevuta in casa. Di cosa sia la gelosia. Quali ansietà susciti, in famiglia, una transizione di genere.

Esperti della propria vita, si potrebbe dire di questi performer, adottando l’etichetta usata da Rimini Protokoll, il gruppo tedesco che più ha praticato il modello partecipativo.

Specialisti del sé, e perciò convincenti, schietti, ironici o drammatici, giovani o più avanti nelle esperienze, posati o esuberanti, a seconda dei casi. Qualcuno metropolitano, qualcuno più rurale. Siamo in Friuli, del resto, e la campagna è lì, a due passi. 

Comizi d'amore  4 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

A lezione d’amore

Noi spettatori, appena la serata comincia, siamo invitati a sedere in minuscoli banchi di scuola, e più che a un comizio, più che al discorso pubblico, partecipiamo alla loro lezione d’amore. Ripercorriamo l’educazione sentimentale di almeno tre generazioni. Sentiamo il battito dei loro affetti, in sintonia con la musica. La cura di Franco Battiato è il pezzo naturalmente più giusto. Ma alla fine a vincere è The power of Love dei Frankie goes to Hollywood.

E visto che siamo a scuola, capiterà anche a noi spettatori di essere invitati a un compito in classe. Sul foglio che ci viene dato insieme alla penna c’è scritto “Io amo…”. Sta a noi aggiungere che cosa. 

“Il cosmo”. “I miei figli”. “Aver cura della bellezza”. “I gatti”.” Le parole che ho sentito questa sera”. “Amo l’amore”. “Mia mamma”.

Per pudore, non vi dico che cosa ho scritto io.

Comizi d'amore  5 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

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COMIZI D’AMORE
un progetto di Teatro Partecipato
ideato e curato da Rita Maffei

con i partecipanti al progetto di Teatro Partecipato: Pepa Balaguer, Mauro Cantarutti, Umiliana Caposassi, Emanuela Colombino, Martino Mattia Cumini, Elisabetta Englaro, Laura Ercoli, Marco Gennaro, Marzia Gentili, Giuliana Grippari, Stella Martin, Donatella Mazzone, Fedra Modesto, Elisa Modonutti, Emanuela Moro, Paola Moro, Ludwig Pellegrinon, Rita Peresani, Marco Petris, Arianna Romano, Nadia Scarpini, Patrizia Volpe

scena e cura immagini Luigina Tusini
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG

STORIE – Massimo Castri regista. Dieci anni dopo

Nel mese un po’ trafelato che si conclude oggi, penso ci debba essere, qui su QuanteScene!, un pensiero rivolto a Massimo Castri, regista.

Massimo Castri

L’ispido Castri

Regista e intellettuale, nel senso più positivo della parola, Massimo Castri era nato nel 1943 ed è scomparso nel 2013, dieci anni fa, in gennaio, il 23 per essere esatti, senza nemmeno sfiorare la soglia dei 70 anni.

Personalità d’artista perfetta per le mie Storie, nelle quali racconto incontri con uomini (e donne) straordinari. A volte capaci di dare una svolta alla mia vita. Perlomeno a quella nel teatro.

È stato così anche per Massimo Castri. L’ho incontrato più volte. Spesso per intervistarlo. Oppure per chiacchierare. E sono stato testimone di alcuni siparietti che gli piaceva recitare in pubblico – se ho inteso bene il suo carattere – per confermare l’immagine burbera e di misantropo che ci teneva a dare di sé.

Chi lo ha conosciuto meglio, sa quanto gli fosse congeniale questa fisionomia. L’ispido Castri – diceva Anna Maria Guarnieri, ricordandolo affettuosamente dieci anni fa.

MassimoCastri -Costa Ovest 1989
Castri con gli allievi del master 1989 a Castiglioncello – Atelier Costa Ovest

Questa immagine: segui il link per saperne di più.

I rusteghi

Lo ricordo a Treviso, per esempio, nel 1992, febbraio, al debutto di I rusteghi, il primo testo di Goldoni che – nolente più che volente – lui aveva messo in scena. Del resto era l’anno del Bicentenario e un Goldoni, un qualsiasi Goldoni, anche lui lo doveva fare. Aveva scelto quello, perché rustego, tutto sommato, era anche lui: toscano, non di fiorentini modi cortesi, ma di Cortona. E a volte senza garbo, pure.

A quella ‘prima’, in platea poco distante da me, per buona parte del suo spettacolo Castri aveva sbuffato e rumoreggiato, insoddisfatto, masticando tra i denti la sigaretta spenta. A un certo punto una spettatrice, seduta davanti a lui, esasperata da quel tipo che non la smetteva di agitarsi, si era voltata e lo aveva zittito. “Guardi che sono il regista” aveva risposto piccato.

Lo sapevo, infatti, che il lieto fine goldoniano lui non lo sopportava proprio. Lo incuriosiva il Goldoni nero, acre nei confronti della rampante borghesia veneziana, ma ne vedeva l’ipocrisia quando era necessario portare a termine, col sorriso, le sue commedie.

Me lo aveva detto poco prima, in camerino, dove facevano bella mostra di sé, ad asciugare, le bianche magliette della salute che consumava in quantità spropositate. Soprattutto nell’imminenza di un debutto.

Massimo Castri, la regia critica

Spigolosità e traspirazione che non offuscano nemmeno per un attimo, il suo contributo al teatro del secondo Novecento e a quel fenomeno tutto italiano che va sotto il nome di regia critica: Strehler (che era del ’21), Ronconi (che era del ’33), e poi lui (del ’43).

Come Mariangela Melato, scomparsa dieci giorni prima, Castri era della generazione degli artisti nati durante la guerra e partecipi, ancora bambini, dell’esperienza della ricostruzione, delle trasformazioni sociali, del peso diverso della cultura e dello spettacolo che la nuova Italia cominciava a scoprire. Fatti ed esperienze che avrebbero modellato, in entrambi, il carattere, i pensieri, le scelte personali e quelle politiche.

Massimo Castri giovane
Massimo Castri giovane attore alla Loggetta di Brescia

Un corpo a corpo con gli autori

Ma l’anticonformismo della Melato, nella storia e nel carattere di Massimo Castri si era declinato molto diversamente: un ruvido corpo a corpo con gli autori che intendeva allestire. Diceva di non amare Pirandello, trovava detestabile Pasolini. E appunto ipocrita Goldoni. Ma li distendeva sul suo lettino da psicoanalista, e li metteva davanti alle loro contraddizioni. Poi li portava in scena.

Ancora trentenne, questo trattamento analitico, Castri lo aveva riservato a Pirandello, di cui aveva inizialmente messo in scena tre lavori. I quali – molto più di libri e studi specialistici – studiano, illuminano, e addirittura smascherano le segrete inconfessabili pulsioni dello scrittore siciliano.

Massimo Castri e Valeria Moriconi
Massimo Castri e Valeria Moriconi

Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi e l’ancora più disturbante Così è (se vi pare), erano stati poi raccolti nel volume Pirandello Ottanta di Ubulibri. Fu per questo che gli eredi – e per prima Marta Abba, musa pirandelliana – gli proibirono da allora in poi di lavorare su quei copioni. Avrebbe potuto metterci mano solo in anni successivi, trovando la propria strada dentro la complicata questione dei diritti d’autore.

Ma appunto per questo, era un piacere per lo spettatore assistere ai suoi spettacoli, scoprire negli autori versanti prima mai visti, abbracciare la complessità dei testi, incantarsi davanti alle immagini che con l’aiuto di collaboratori fedeli (da Marco Plini, assistente al suo fianco, a Maurizio Balò, Antonio Fiorentino, Claudia Calvaresi per la scenografia, a Gigi Saccomandi al disegno delle luci) Castri riusciva a far sbocciare. 

Diana Hoebel e Rosario Lisma in Così è (se vi pare) 2007 ph Diana Hoebel
Diana Hoebel e Rosario Lisma nell’edizione 2007 di Così è (se vi pare) ph. Diana Hoebel

Misantropo

Anche quando – in Ibsen, Schnitzler, Marivaux – trovava sintonie maggiori, o addirittura si rispecchiava. Come nel Misantropo di Molière, per il quale aveva voluto, appunto, centinaia di cornici e di specchi.

Rivedere il finale di Così è (se vi pare), così facile da trovare su YouTube, è assistere a una approfondita e convincente lezione su Pirandello. Ma anche scoprire, nel riso beffardo di Eros Pagni (Laudisi), nell’ansietà genitoriale di Valeria Moriconi e Omero Antonutti, alcuni tratti che l’ispido Castri non lasciava mai trasparire in pubblico.

Valeria Moriconi, Omero Antonutti e Giovanna Bozzolo nell’edizione tv 1990 di Così è (se vi pare)

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Le STORIE di QuanteScene!
Ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, e tanti altri.

Lasciati portare in giro dai link di QuanteScene!

Le Aquile randagie di Alex Cendron. Quando scoutismo voleva dire Resistenza

Aquile randagie. Credere, disobbedire, resistere è lo spettacolo scritto e interpretato da Alex Cendron. La ricostruzione del contributo dato alla Resistenza italiana, tra gli anni ’30 e ’40, dallo scoutismo, l’associazionismo giovanile , ispirato ai principi educativi di Robert Baden-Powell, i cosiddetti boy scout.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
(ph Laila Pozzo)

Vicende in massima parte sconosciute. Ma anche pagine di storia del nostro Paese. Circostanze ben documentate. Eppure raccontate raramente. 

“È una storia bella e motivante. Ci lavoro sopra da anni, studiando, scrivendo, mettendola in scena” spiega l’attore, autore e interprete dello spettacolo realizzato con la regia di Massimiliano Cividati.

Il progetto si muove su un doppio binario. Portare il pubblico a conoscenza di questo movimento di resistenza giovanile italiana: storicamente forse il primo, perché nato già nel 1928 e operante in clandestinità fino alla fine del fascismo. E al tempo stesso, mettere le doti interpretative di Cendron al servizio di episodio, avvincente, documentato, che ha avuto per protagonisti alcuni membri delle ‘Aquile randagie‘.

Gruppo scout
Immagine di repertorio

Chi erano le Aquile randagie? 

Nel 1928 Mussolini scioglie per legge le associazioni scoutistiche per convogliare tutte le loro attività di educazione e formazione nell’Opera Nazionale Balilla alle dirette dipendenze del governo. Soprattutto in Lombardia e in Emilia prende allora corpo una forma di ‘diserzione’ che spinge alcuni giovani gruppi a perseguire in clandestinità i valori e le pratiche dello scoutismo, in una forma di opposizione disarmata, periodo che verrà definito “giungla silente“.  Tra questi nuclei, uno importante è stato quello che si era dato il nome di Aquile randagie, e raggruppava ragazzi tra gli 11 e i 17 anni.

Dopo l’8 settembre ’43, usciti dalla clandestinità, i suoi membri cominciarono a impegnarsi in un’opera di salvataggio di perseguitati e ricercati di diversa nazione, razza, religione, favorendo anche numerosi e avventurosi gli espatri in Svizzera.

Da queste vicende, il regista Gianni Aureli ha tratto nel 2019, un film proiettato l’anno successivo anche all’Europarlamento a Bruxelles.

Agile, intenso

“Era un mio desiderio forte recuperare una parte sommersa di ciò che è stata la Resistenza giovanile nel nostro Paese” prosegue Cendron, attore di teatro, di cinema e di tv, che in un decennio si è conquistato la stima del pubblico e della critica.

A volte lavorando con Massimo Popolizio (John Gabriel Borkman di Ibsen), Luca Zingaretti (The Pride di Alexi Kaye Campell), Amanda Sandrelli (La locandiera). Ma anche in ruoli da protagonista: grandi apprezzamenti ha avuto il risultato a cui è giunto nell’interpretare Don Milani in Il Vangelo secondo Lorenzo, con la regia di Leo Muscato. Impegnato anche nella scrittura, da due anni Cendron porta avanti il suo progetto di riscoperta storica. 

“Con Aquile randagie sono riuscito a costruire uno spettacolo intenso, questo almeno mi dice la reazione del pubblico, ma anche di grande agilità. Praticamente faccio tutto da solo, compresa la tecnica, anche perché, come scout, ne ho imparate molte. Le repliche dello spettacolo si stanno infatti moltiplicando. Non solo nell’ambito delle associazioni che si occupano di scoutismo, ma anche per il più vasto pubblico dei teatri, colpito dall’intensità emotiva del racconto e da vicende perlopiù sconosciute”.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
ph Laila Pozzo

Controcorrente

C’è infatti nell’opinione pubblica contemporanea, in particolare tra gli adolescenti, una posizione di distanza, se non diffidenza, rispetto alle pratiche scout, intese come una forma di militarizzazione o di catechesi, che appare di retroguardia.

“È proprio questa la ragione che mi ha indotto a costruire Aquile randagie, rivolto soprattutto per chi non ha una conoscenza diretta di ciò che è stato, e oggi è, lo scoutismo” precisa Cendron.

“I principi su cui si fonda sono dichiaratamente anti-militaristi: non è associazionismo filo-conservatore, né di destra. Certo, in un tempo come questo odierno, dove le tentazioni del virtuale sono quotidiane, lo sforzo richiesto dalle pratiche scout e l’impegno all’aria aperta vanno controcorrente. E l’attrazione di questa esperienza, che ha giocato un ruolo importante della mia vita, è diminuita. È giusto conoscerla meglio”.

Lo spettacolo è in scena lunedì 16 gennaio 2023 alla Sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste

[pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste il 15 gennaio 2023]

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AQUILE RANDAGIE 
Credere Disobbedire Resistere

di e con Alex Cendron
regia Massimiliano Cividati
musiche Paolo Coletta
produzione Arca Azzurra

Anatomia dell’adolescenza. Quell’anno di scuola, nel banco con Giani Stuparich

Torna in scena per qualche giorno a Trieste Quell’anno di scuola. È l’allestimento teatrale che Alessandro Marinuzzi, regista, ha tratto da un romanzo di Giani Stuparich. Le irrequietezze e i turbamenti di una generazione, ieri come oggi

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG
ph. Serena Pea (anche le seguenti)

Sono tanti i motivi che si affacciano dalle pagine di Un anno di scuola, romanzo dello scrittore triestino Giani Stuparich, pubblicato nel 1929. 

Senza nascondere la traccia autobiografica, e trasfigurandola forse solo nei nomi, Stuparich rievoca quella manciata di mesi in cui lui stesso – studente vent’anni prima dell’ultima classe di un liceo – e i suoi compagni avevano vissuto il passaggio da una agiata e tranquilla adolescenza alle responsabilità adulte.

Bildungsroman, romanzo di formazione, sarebbe la semplice formula d’inventario. Se non che, a farne un’opera davvero particolare, sono il tempo e i luoghi che inquadrano proprio “quell’anno di scuola”.

Trieste nel 1909 e l’eccitato paesaggio storico che in queste zone preparava la prima guerra mondiale si intrecciano con l’irrequietezza di ragazzi non ancora ventenni, spinti a scoprire, in tempi difficili, l’attrazione del diventare adulti e le impazienze del sesso.

Un anno di scuola è così lo studio su uno snodo di esperienze che, molto più di altre, lasciano un segno profondo per tutto il resto della vita.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Un nuovo respiro per Stuparich

Negli anni Settanta Franco Giraldi, regista di cinema e di televisione ne aveva tratto per la Rai un film tv in due puntate. Con un leggero scivolamento temporale – il 1909 diventava il 1914, apposta per precipitare nella fatidica giornata del 28 giugno, quella dell’attentato di Sarajevo – Giraldi accentuava l’intreccio delle pulsioni: esaltazione politica, esuberanza giovanile, turbamenti ormonali.

Un nodo storico, ma anche emotivo, che aveva decretato il successo e l’interesse per quel titolo, che finalmente usciva dal pur interessante scaffale della letteratura triestina del primo Novecento. Riconoscendo a Stuparich un respiro non solo locale.

Di Un anno di scuola, anche per ragioni personali, si era innamorato molto tempo fa Alessandro Marinuzzi, regista e formatore teatrale. Lui stesso aveva partecipato, giovanissimo attore, alla realizzazione del film. E ora, con il supporto di due teatri stabili – quello del Veneto e quello del Friuli Venezia Giulia – ha tentato la traduzione teatrale del romanzo.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

La macchina del tempo

Impresa ambiziosa per diverse ragioni. Primo, per la matrice narrativa e anche psicologica del materiale di partenza. Secondo, perché non è facile trovare interpreti credibili, con i quali dar vita a una classe di studenti ingenui e baldanzosi quel che basta. E con la macchina del tempo spedirli indietro quasi di un secolo.

L’operazione è riuscita, molto bene anche, a giudicare soprattutto dalla risposta del pubblico. Le repliche previste nella sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste lo scorso autunno hanno registrato ogni sera il tutto esaurito. E si dovuto pensare ad aggiungerne altre, adesso a gennaio (fino a domenica 15).

Ai due impedimenti cui accennavo – la matrice letteraria del racconto, la scelta degli interpreti – Quell’anno di scuola oppone soluzioni eccellenti. La scrittura teatrale (elaborata dallo stesso Marinuzzi assieme a Davide Rossi) destruttura la pagina, i periodi, le frasi, e li ridistribuisce tra gli attori, in un eccitato accavallarsi di battute. La parola viva vince, modellata su una pratica che del Pasticciaccio di Gadda aveva fatto un capolavoro di palcoscenico (grazie a Luca Ronconi, certo) e che aveva fatto scoprire anche a teatro Ragazzi di vita di Pasolini (con la regia di Massimo Popolizio).

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Gli interpreti, provenienti dall’esperienza collettiva di Teseo, progetto di formazione del Teatro Stabile del Veneto, incarnano vivacemente quella minuscola comunità. Anche perché la regia e gli essenziali elementi scenici di Andrea Stanisci non li costringono a far rivivere un’epoca, ma ne liberano il potenziale contemporaneo di immediatezza, entusiasmi e disillusioni.

A loro, che sono otto, si aggiunge la perizia di due attori dello Stabile del Friuli Venezia Giulia (Ester Galazzi e Riccardo Maranzana) a cui la regia affida i ruoli maturi del professore e della madre di uno dei ragazzi.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Una femmina in una classe maschile

Va ricordato che in quell’anno, il 1909, a Trieste le porte degli istituti scolastici superiori si erano aperti anche alle ragazze. Tra i maschi rumoreggianti di quella ‘ottava ginnasio’ la scrittura di Stuparich mette a fuoco il fascino di Edda.

Bella, determinata, capace, Edda Marty è la prima a iscriversi a quella scuola, ben decisa ad affrontare l’esame di maturità e poi l’università.

È storia documentata: la ragazza in realtà si chiamava Maria Prebil e i suoi compagni di classe erano i giovani rappresentanti della classe agiata di una Trieste ancora austro-ungarica e emporiale. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Irredentismo

Nelle pagine dello scrittore, i trasalimenti sentimentali, nonché erotici della scolaresca maschile, si impastano con l’afflato politico di una generazione infatuata di irredentismo, pronta a immolarsi, come effettivamente succederà, per il ricongiungimento di Trieste alla patria Italia. Ne moriranno parecchi.

Nelle scene dello spettacolo di Marinuzzi, fedeli il più possibile al romanzo, si legge certo tutto questo. Il finale dipinge anzi la catastrofe della guerra imminente. 

Ma occhi contemporanei vi leggono molto di più.

Scostato il velo carducciano e nazionalista attraverso il quale Stuparich ritraeva alcuni dei suoi compagni, ciò che si vede è il naturale, biologico slancio di una generazione non ancora ventenne che vuole progettare il futuro, che prova a costruirlo nell’impazienza e nell’ansia. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Costruire il futuro

Proprio ciò che vediamo espresso oggi negli studenti che con le parole e i libri di Greta Thunberg, hanno provato a disegnare i loro Fridays for Future. E si slanciano avanti, maldestramente a volte, per dare la svolta a un percorso che, altrimenti, sembra di nuovo avviato alla catastrofe. Chissà se bellica, chissà se ambientale.

Su questa incertezza, sulle paure e sulle speranze, più che sulla rievocazione storica, mi pare che lo spettacolo di Alessandro Marinuzzi indirizzi i pensieri del suo pubblico. 

Che ogni sera lascia la sala emozionato, anche commosso, accompagnato da un valzerino che alcuni di voi, lettori scaltri, riconosceranno.

Perché proviene da uno spettacolo di Tadeusz Kantor. Che ha un titolo fatto apposta per ritrarre quegli studenti di ginnasio che cent’anni fa la Storia aveva maldestramente avviato verso il fronte: La classe morta.

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QUELL’ANNO DI SCUOLA

elaborazione drammaturgica Alessandro Marinuzzi, Davide Rossi
tratto da “Un anno di scuola” di Giani Stuparich
editore Quodlibet per gentile concessione di Nefertiti Film
progetto drammaturgico e regia Alessandro Marinuzzi
con gli attori della Compagnia Stabile del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Ester Galazzi e Riccardo Maranzana
e con gli attori e le attrici della Compagnia Giovani (progetto TeSeO) del Teatro Stabile del Veneto Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro
elementi scenici e costumi Andrea Stanisci
assistente alla regia Davide Rossi
fotografie di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

Befana in casa Cupiello

Un po’ per colpa mia, un po’ per merito loro, Natale in casa Cupiello, prodotto da Interno 5 e Teatri Associati di Napoli, conquista in questi giorni il premio di spettacolo più inconsueto a cavallo del cambio dell’anno. L’ho visto al Teatro Bellini nel giorno della Befana.

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo
ph Anna Camerlingo (anche le seguenti)

La colpa è mia perché a Napoli sono sbarcato con qualche giorno di ritardo e invece di far coincidere la commedia di Eduardo con i tre giorni di Natale, come la tradizione vorrebbe, me la sono vista nel pomeriggio dell’Epifania.

Il merito è loro perché questo classico del teatro napoletano, una volta tanto, non è stato allestito nella chiave di realismo dolceamaro alla quale Eduardo, i suoi figli, i pronipoti, ci hanno abituato. Ma viene affidato tutto a pupazzi. Ai quali dà voce un solo attore, Luca Saccoia.

Luca Saccoia in Natale in casa Cupiello - De Filippo- ph Anna Camerlingo

Luca Cupiello e il tutto esaurito

Due anomalie in una, pertanto, in questa Befana in casa Cupiello, che merita di essere segnalata, non fosse altro perché il Teatro Bellini (dove ha debuttato lo scorso 20 dicembre e andrà in scena fino all’8 gennaio 2023) registra ogni sera il tutto esaurito. Che suggerisce pure l’aggiunta di sedie ai lati della platea, per esaudire tutte le richieste.

La ragione è nella originalità dell’allestimento, che allontana la commedia dal registro basso-borghese e novecentesco dentro il quale Luca Cupiello e suoi famigliari erano nati (la commedia risale addirittura al 1931, e festeggia quindi adesso novant’anni di rappresentazioni).

Grazie invece alla scelta delle figuresupermarionette le chiamava Edward Gordon Craig – dà a quei personaggi la parvenza di creature che si elevano oltre la Storia, eroi di un canone universale, quali potrebbero essere per esempio Ulisse, don Chisciotte, Padre Ubu… Ai quali il teatro delle figure spesso si è interessato.

Fisse nelle espressioni del volto, astratte da ciò che è inesorabilmente umano, troppo umano, aliene alle emozioni e alla soggettività, siano pupazzi, fantocci, marionette, burattini… le figure sono essenze teatrali senza età né tempo. Divinità.

Natale in casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

Sulle proprie spalle

Lo spettacolo, diretto da Lello Serao, gioca inoltre sul filo del virtuosismo. La famiglia Cupiello è in questo caso affidata alla voce e alla presenza di colui che, si potrebbe dire, sostiene tutta l’opera sulle proprie spalle.

Il canto, le voci, la manipolazione a vista dei pupazzi, i primi piani in ribalta, si devono tutti a Luca Saccoia (che assieme Vincenzo Ambrosino ha ideato il progetto). Dietro a lui, comunque, nel buio di un meccanismo scenico animato con indubbia perizia, ci sono almeno sei abili movimentatori. Vestiti tutti di nero, per mimetizzarsi con lo sfondo, mentre fanno vivere sul palco i fantocci ideati e costruiti da Tiziano Fario.

La vicenda della famiglia Cupiello, suppongo, la conoscete. Le storiche edizioni televisive (1962 e 1977) interpretate dallo stesso Eduardo e il loro incipit promosso a icona (Lucariè, Lucariè, scètate, songh’ ‘e nnove…), ma anche una più recente versione con Sergio Castellitto (2020), hanno fatto di Natale in casa Cupiello uno dei classici della tv in tempo di festa. E non occorre dunque rammentare la vicenda.

Natale in Casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

La cena della vigilia

Si dovrà invece dire che, ogni sera al Bellini, nella sala piccola, a strappare a cascate gli applausi è proprio il secondo atto. 

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo

Quello che trasforma la già nervosa cena della vigilia di Natale in un dramma della gelosia, con il suo sottofinale di re magi, bengala scintillanti e canto natalizio (Tu scendi dalle stelle, o mia Concetta, e io t’aggiu portato questa burzetta) che è un topic del canone teatrale italiano, non solo natalizio.

Tant’è vero che fa piacere assistervi anche nel giorno della Befana.

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NATALE IN CASA CUPIELLO

spettacolo per attore cum figuris
di Eduardo De Filippo
da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia
con Luca Saccoia 
regia Lello Serao
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia
costumi Federica del Gaudio 
musiche originali Luca Toller
fotografie di Anna Camerlingo
un progetto a cura di Interno 5 e Teatri Associati di Napoli
in coproduzione con Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellinicon il sostegno della Fondazione De Filippo per i 90 anni di Natale in casa Cupiello

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il celebre finale del secondo atto, nella versione televisiva 1977 con Eduardo De Filippo (e Luca De Filippo, Gino Maringola, Pupella Maggio)

Uffici stampa. Come destreggiarsi in quelle splendide cornici

Da un po’ di tempo, l’ultimo post dell’anno, io lo dedico agli uffici stampa. Lo so che è una espressione che non si usa più. Comunicazione e Promozione ai Media, Press Department, Media Relations, sono definizioni più aggiornate. Come aggiornati sono strumenti, tecniche e stili che i giovani capitani (e le giovani capitane) della comunicazione sanno mettere in atto.

Ciò non toglie che se scrivo ufficio stampa, capiscono tutti. 

Ufficio Stampa

La temperanza

Nell’ultimo post del 2019 raccontavo un po’ la storia e l’evoluzione di questa professione. Nel post che concludeva il 2021, mi auguravo che la mia casella di posta vedesse diminuire mail pesanti, comunicati prolissi, foto indesiderate, almeno della metà. Non è successo. Anzi, le giovani leve della comunicazione sembrano propense ad abbondare, piuttosto che coltivare la virtù della temperanza

La temperanza

No pistolotto

Inutile aggiungere, pure quest’anno, l’ennesimo pistolotto. Il dio della Comunicazione ha già pronta per loro la penitenza. E per prenderli in giro, o forse per tendere un tranello, già qualche anno fa ha stilato un decalogo che gliene dice quattro (sono cinque, anzi).

Eccolo qua:

Ufficio Stampa - decalogo, no pentagolo
(grazie a Riccardo per averlo scoperto nelle sue scorribande su web)

Nella splendida cornice degli uffici stampa

Lo sottopongo anche a voi, esperti ed esperte delle mailing list, maghi e maghesse del comunicato, partner indispensabili del mio lavoro di giornalista, facilitatrici e facilitatori in questo spettacolare mondo di spettacoli dal vivo.

Senza di voi, questo settore che ha un peccato originale nel mondo dei mercati, non riuscirebbe a cavarsela. Perché – come dice un’amica mia – non c’è ufficio senza stampa.

Pertanto, nella splendida cornice della notte di San Silvestro, quella che precede, la kermesse del Capodanno, auguro a tutte e a tutti, a piccoli e grandi uffici stampa, trecentosessanta giorni migliori di quelli passati.

Che non sarà poi tanto improbabile.

Lodo tuttofare indipendente. “Ma in tutto quello che faccio sono solo un dilettante”

Musicista, opinionista, influencer, attore, scrittore, conduttore, giudice. Lodo Guenzi cambia cappello e mestiere così veloce come cambia le t-shirt. Almeno tre in un giorno.

Da una settimana in palcoscenico è interprete serio e posato, fino a un certo punto almeno. Protagonista addirittura, in uno dei titoli più noti e più longevi (dopo Shakespeare) del teatro inglese: Trappola per topi di Agatha Christie. Un thriller. Fino a domani al Rossetti di Trieste, poi in tournée.

Lodo Guenzi ritratto

Gli ho chiesto: come mai?

C’è chi lo conosce come frontman di Lo Stato Sociale, iconica band indipendente che sbancava a Sanremo 2018 con Una vita in vacanza. C’è chi lo ha visto più volte condurre dal palco di piazza San Giovanni a Roma i concertoni del Primo Maggio assieme a Ambra Angiolini. È stato giudice a X-Factor, subito dopo che si era resa vacante la poltrona di Asia Argento.

Sempre in tv, ogni settimana, ha parlato a ruota libera di web e social, ospite a Le parole di Massimo Gramellini. Da tre anni si aggira nei titoli di testa di alcuni film (Dittatura Last Minute, tra qualche giorno esce La California, un altro lo girerà tra poco) e firma libri assieme ai suoi compagni di band (L’orologio che ha fermato il tempo, sulla strage della stazione di Bologna). Come attore, ha lavorato con i bolognesi di Kepler-452 e si è raccontato in un monologo dal titolo lunghissimo. Vi basta?

No. Perché non ho ancora parlato dei 430k di follower – ma saranno presto mezzo milione – che il suo account @influguenzer totalizza su Instagram. Dove tra un selfie e un altro, distribuisce versi che migliaia di ventenni si tatueranno sulla pelle. “Eggià, siamo la band più tatuata di questo Paese” mi conferma. E la memoria va a uno di quei titoli pop che hanno fatto la storia di Lo stato Sociale: Mi sono rotto il cazzo.

Lodo Guenzi @influguenzer

Incontro Lodo Guenzi alla fine di una replica di Trappola per topi al Politeama Rossetti di Trieste. Lo spettacolo ha debuttato all’inizio di novembre a Carpi, provincia di Modena. Da là è partita la tournée che toccherà un bel po’ di teatroni importanti, storici, capienti, come questo a Nordest, e un sacco di altre sale di medie dimensioni.

Il vecchio copione della Christie, che dal 1952 si replica ininterrottamente (Covid a parte) in una teatro londinese, è stato rinfrescato dalla traduzione di Edoardo Erba e va in scena con la regia di Giorgio Gallione. In platea quasi tutto esaurito. Fifty fifty tra il pubblico maturo (venuto per Agatha Christie) e i ragazzi (venuti per Lodo Guenzi).

Lodo Guenzi in Trappola per topi di Agata Christie
una scena di Trappola per topi, regia di Giorgio Gallione

Una centrifuga di cose

“Qui al Rossetti ci sono stato una volta sola. Quando studiavo da attore all’accademia ‘Nico Pepe’ di Udine. A Trieste quella sera davano L’arlecchino servitore di due padroni. Così mi sono messo in macchina. Volevo partire proprio da là. Dalle basi”.

Voleva partire dalle basi, Lodo. In realtà, in pochi anni, la sua fortunata carriera si è sviluppata in altezza. Assodato che Lodo è abbreviazione per Lodovico (con la o), registrato 36 anni fa all’anagrafe di Bologna, è soprattutto nell’ultimo decennio che il giovane Guenzi, musicista prima che attore, ne ha infilate parecchie. Tutte quelle elencate prima, e chissà quante altre.”In tutto quello che faccio però resto sempre un dilettante“.

Ma non ci si stanca, Lodo, a fare così tante cose? A essere esposti 24/24?

“Ho dentro di me un ego ipertrofico, che si manifesta in una centrifuga di cose da fare. O forse ho solo un’ansia, alimentata sempre dall’orrore del vuoto. Sia come sia, l’ozio non fa per me. E al dormire preferisco di gran lunga il guardare basket in tv. Mi concilia”.

Come spiegare ai fan di Lo Stato Sociale la scelta di un tour nei teatroni, al posto dei palasport della tua band, quelli da decine di migliaia di spettatori?

“Ci sono cose che si innestano nella tua vita senza che te l’aspetti. Qualcosa che non hai mai fatto finora. Oppure un’emozione. O un titolo importante. Da pochissimi giorni ho debuttato con questo spettacolo e ha preso il via una tournée nei teatroni, che quando dici teatro ti viene in mente proprio quella cosa là. Me l’avevano proposto: mi sono detto ci provo. Perché mi piace proprio fare cose che non ho mai fatto. Per ora c’ho il carburante dell’entusiasmo. In seconda battuta capirò se c’era un motivo. In fondo, la mia strada è stata sempre quella dell’indipendenza”.

Lodo Guenzi concerto primo maggio

Prime sensazioni dopo il debutto?

“Qui sono un po’ il protagonista. Ma sono anche il più giovane della compagnia. Per questo ho studiato e ho fatto tutti i compiti per bene. Se la prendevo sottogamba, poteva venir fuori una gran brutta figura”.

Bisogna sempre essere all’altezza del ruolo.

“C’è sempre gioia nel sentirsi i più giovani in un locale. Ma nella vita, per continuare a sentirsi i più giovani, bisogna continuamente cambiare locale”.

A 36 anni si è già degli ometti.

“Quest’anno cade il decennale del primo album con Lo Stato Sociale, Turisti della democrazia. Quindi potremmo fare il nostro primo tour da anziani. Non sai che impressione vedere di fronte a te migliaia di ventenni che cantano a memoria i nostri pezzi di dieci anni prima. Ti chiedi: ma come li sanno? 

Lodo Guenzi cinema

Nel frattempo, Lodo…

Nel frattempo hai abbracciato il cinema.

“Nel cinema c’è una cosa che per me è contronatura: il risultato del tuo lavoro dipende da una quantità infinta di persone che non sei tu. Detto questo, ho avuto la tentazione di farlo, l’ho fatto, e credo di poter dire la mia. È chiaro che dopo dieci anni di totale indipendenza, lavorare in quell’ambiente, completamente monetizzato, fa un certo effetto”.

Stai rimpiangendo gli stadi e i palasport, la musica indie.

“Dieci anni fa, quando scendevo dal palco mi prendevano sotto braccio, mi dicevano vieni, ci ubriachiamo assieme. Adesso hanno il dubbio se darmi o non darmi del lei. È inquietante. Però è anche bello. Sentirli cantare le nostre canzoni mi dà la misura di aver lasciato, nel mio piccolo, un segno. Con ciò che facevo quando avevo poco più di vent’anni, e non sapevo nemmeno io quel che facevo”.

Lo Stato Sociale
Lo Stato Sociale

Quasi mezzo milione di follower su Instagram non sono già una bella misura?

“Penso che Internet impedisca di leggere la realtà per quello che è. Guardando solamente i social è difficile capire se una cosa funziona o no. Devi suonare dal vivo per capirlo, solo così ti accorgi di aver significato qualcosa per qualcuno”.

I versi delle vostre canzoni finiscono sulla pelle delle persone.

“Già, siamo il gruppo più tatuato. Nel senso che se le scrivono addosso, le nostre canzoni. Io, di tatuaggi non ne ho nemmeno uno. Ho paura di ciò che è imperituro. E restare sulla pelle delle persone mi pare un bel problema. Magari un giorno gli starò sulle palle. E a quel punto non vorrei proprio disturbare”.

[questa intervista è stata parzialmente pubblicata sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO, il 9 novembre 2022]

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TRAPPOLA PER TOPI 

di Agatha Christie
traduzione e adattamento Edoardo Erba
con Lodo Guenzi
e Claudia Campagnola, Dario Merlini, Stefano Annoni, Tommaso Cardarelli, Andrea Nicolini, Maria Lauria, Lisa Lendaro
scene Luigi Ferrigno
costumi Francesca Marsella
musiche Paolo Silvestri
regia di Giorgio Gallione
produzione La Pirandelliana