Pasolini mission impossible. 2) Pilade

Due giorni fa ho scritto un post su Comizi d’amore. Oggi è la volta di Pilade. Tanto per dire quanto – secondo me – il teatro di Pier Paolo Pasolini non si possa redimere dal suo tempo. Nonostante un anno di celebrazioni e ripetizioni dello stesso, consumato mantra. Che ne farebbe un nostro contemporaneo.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Pilade – regia Giorgina Pi (2023) – ph Guido Mencari

Non era cosa sua…

Lo giuro. Ci ho provato per anni a farmelo piacere. A leggere e ascoltare di chi ne sapeva più di me. Ad andare a vedere chi lo metteva in scena. Niente. Non c’è stato verso. 

Valoroso regista di cinema, Pier Paolo Pasolini. Chi potrebbe negarlo. Intellettuale lucido. Certo. Spregiudicato opinionista. Ma il teatro proprio no, non era cosa sua. Eppure…

Lo dico dopo che un’ennesima accensione di buona volontà mi ha portato ad assistere a Pilade, all’Arena del Sole a Bologna. Città nella quale peraltro Pasolini era nato, 101 anni fa. Non in Friuli come pensano e scrivono molti. 

Pilade è uno dei sei testi, “le tragedie borghesi” che Pasolini, a letto, convalescente per un’ulcera, scrive in una manciata di mesi, attorno al 1966, e poi variamente rimette a posto, fino alle soglie del 1974. Orgia, Bestia da stile, Pilade, Porcile, Affabulazione, Calderon.

Lui stesso aveva provato a portarne in scena una (Orgia, nel 1968) con esiti – dice chi l’ha vista – disastrosi. Pilade invece, soprattutto per l’impegno dell’autore in una inedita reinvenzione del mito, è sicuramente quella che ha conosciuto più allestimenti.

Pilade - Luca Ronconi - Teatro Stabile Torino
Pilade – regia Luca Ronconi (1993) – ph Marcello Norberth

Come devi immaginarmi

La nuova occasione bolognese viene dal progetto che Valter Malosti (direttore di Ert – Emilia Romagna Teatro fondazione) e Giovanni Agosti si sono proposti di varare, in coda a 12 mesi di reiterate celebrazioni pasoliniane in tutta Italia (i 100 anni dalla nascita), che parevano dover concludersi a dicembre. 

Invece sarà fino a maggio 2023 che le sei tragedie verranno riproposte al pubblico, affidate a una serie di registi e di interpreti, che si sono affermati sulla scena italiana in tempi recentissimi. In modo che lo scarto generazionale possa “fornire una risposta alla attualità inesausta delle sua lezione etica e politica“. Così almeno sta scritto nella presentazione. 

Il titolo del progetto è “Come devi immaginarmi”. L’intenzione dovrebbe essere appunto quella di ri-immaginarlo, e di scavalcare una lettura scolastica e logora del Pasolini etichettato ancora oggi come corsaro cantore di scomparse lucciole. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Aurora Peres è Elettra – ph Guido Mencari

Affrontare Pilade

Lo giuro, di nuovo. Prima di affrontarlo, Pilade me lo sono ristudiato, forte del poderoso volume che i Meridiani Mondadori hanno dedicato al teatro pasoliniano, e degli indispensabili contributi saggistici sviluppati in almeno due decenni da Stefano Casi.

Mi sono pure letto, con attenzione, le note scritte per lo spettacolo dal dramaturg Massimo Fusillo e quelle di Giorgina Pi, che ne è regista. Di lei avevo apprezzato molto, tre anni fa, la scelta di lavorare su un’altra re-invenzione del mito, Tiresias, nella scrittura rap e poetica di Kae Tempest. Che ci fosse ancora lei a lavorare su Pilade, immaginaria prosecuzione dell’Orestea di Eschilo, ci poteva stare.

A Bologna sono davvero arrivato senza pregiudizi. Eppure… anche in questo caso il teatro di Pasolini mi è precipitato addosso. E continua a farmi pensare che meglio è lasciarlo al suo posto, quell’esperimento fatto in tempo di ulcera, in quei formidabili anni Sessanta, quando politica e scrittura d’arte si fronteggiavano in una lotta corpo a corpo, quando consegnare al teatro una profezia civile era probabilmente possibile.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Gabriele Portoghese e Valentino Mannias sono Oreste e Pilade – ph Guido Mencari

Narcisismo

Anche se il Manifesto per un Nuovo Teatro (la sua ambiziosa proposta di un Teatro di Parola) era già fuori dal tempo. Anche se era già insopportabile il suo narcisismo. Luca Ronconi spiegava con un guizzo ironico che a Pasolini a piaceva molto “pisciare nel contenitore del personaggio qualcosa di se stesso, che con il personaggio, in quel momento, non ha nulla a che vedere”.

E proprio su Pilade, a Torino, nel 1993, Ronconi ci aveva passato parecchi mesi. E ricordo che nemmeno Antonio Latella in una dismessa fabbrica di pneumatici (2002), nemmeno Archivio Zeta (2015) al cimitero germanico della Futa, ne avevano tirato fuori qualcosa di memorabile.

Anche stavolta, a dispetto delle buone intenzioni che Giorgina Pi e i suoi attori ci mettono, Pilade resta – a mio modo di vedere almeno – un reperto, un po’ mummificato persino, delle speranze e dei tradimenti di quella Storia: un testo inattuale, in certi passaggi poco comprensibile. Francamente tedioso. La verbosità, l’insistenza della disputa e della dialettica, la smania profetica, a teatro procurano ampi sbadigli. A tutti. 

Anche se ci si sforza di trasformare operai, studenti, contadini, rivoluzionari, che popolavano allora quel paesaggio, in un’umanità africana, migrante, mutante, di adesso. 

Anche se la scenografia di bidoni arrugginiti, carcasse d’auto, roulotte di nomadi o prostitute, strizza l’occhio alle ristrutturazioni che degli stessi miti ha fatto Milo Rau. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Il quale aveva portato in scena qualche anno fa, non già il teatro di Pasolini, ma Salò, o le 120 giornate di Sodoma. “Soprattutto – aveva detto il regista svizzero – mi interessa il carattere ibrido della sua arte. Per un verso è molto popolare, per un altro possiede una pendenza intellettuale e politica molto potente”.

I dubbi di Pilade

E scusate se mi è venuto da ridere, pensando a un Pasolini “molto popolare”, sentire Atena (la bella Sylvia De Fanti, tacco 12, acconciatura intrigante, un po’ Giuni Russo prima maniera) mentre rimprovera il dubbioso Pilade (bravo e convincente Valentino Mannias, e sempre bravo Gabriele Portoghese che fa Oreste). A lui, e a noi, l’elegante Atena spiffera che “Ogni euristica è consolatoria“. Chiaro, no? Anche no.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Altro che popolo: il Pasolini del teatro si rivolge (si rivolgeva anzi) a una ristretta élite intellettuale, “i gruppi avanzati della borghesia“. Lo diceva lui stesso nel Manifesto. Tutta gente studiatissima, i soli che forse potevano capirlo nell’Italia del boom e delle Fiat Seicento. Elite di cui oggi non c’è nemmeno l’ombra. Nemmeno nella dotta, giovane, fluida, prismatica, teatrante Bologna. Figurarsi altrove.

– – – – – – – – – – – – – – – – 
PILADE 
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Bluemotion
regia, scene, videoGiorgina Pi
con Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese
e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai

dramaturg Massimo Fusillo
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar
disegno luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion

Pasolini mission impossible. 1) Comizi d’amore

Comizi d’amore è il titolo di un laboratorio e di una produzione di teatro partecipato, da poco presentata a Udine nel cartellone di Teatro Contatto, all’interno del progetto 100 x 100 Pasolini. Si intitolava allo stesso modo – Comizi d’amore – anche il film-reportage che Pier Paolo Pasolini realizzò all’inizio degli anni Sessanta.

Comizi d’amore laboratorio viene ripreso in questi giorni anche ai Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce.

Comizi d'amore  1 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

Italia 1963 

Con una cinepresa alle spalle e il microfono in mano, Pier Paolo Pasolini interroga uomini e donne in costume da bagno su una spiaggia italiana battuta dal sole. “Signora, lei cosa pensa del divorzio?”. A una coppia chiede: “Pensate che il matrimonio risolva i problemi sessuali?”. 

Davanti a una fabbrica, si rivolge poi a un gruppo di operai, tutti maschi. “Volevo sapere la vostra opinione sulla legge Merlin”. La legge Merlin aveva fatto chiudere, cinque anni prima, le case di tolleranza. ”Per me è una gran boiata” risponde uno di loro. “Perché?”. “Perché girano molte malattie di Venere, e i brutti hanno diritto anche loro di trovare le donne”.

Il gruppo di ragazzini, ai quali ha appena chiesto se sanno come sono nati, gli dà risposte ovvie – “la cicogna” – ma a volte strabilianti. ”Lo zio, mi ha portato lo zio!”. Oppure “La lavatrice”. Lui, lo sbarbatello più svelto, voleva dire levatrice, ma la piena alfabetizzazione, allora nel nostro Paese, è di là da venire.

Pier Paolo Pasolini - Comizi d'amore (1964)
Comizi d’amore (1964)

Cinema inchiesta

Comizi d’amore è il titolo del film-reportage che Pasolini realizza in un’Italia anni Sessanta, prossima al traguardo del benessere. E che però, a sentire le risposte, le battute, i ragionamenti raccolti dalla gente per strada e nei quartieri, risulta incredibilmente arretrata sui temi della sessualità, della condizione femminile, della prostituzione. I tabù di una nazione. La pellicola è un luminoso esempio di giornalismo d’inchiesta. Per questo rimane tra i 100 film italiani che, in ogni caso, si dovrebbero salvare.

Comizi d'amore  2 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

Teatro partecipato

Ha lo stesso titolo, Comizi d’amore, anche l’esperienza che la regista Rita Maffei ha voluto quest’anno proporre a un gruppo di uomini e di donne, persone di diverse età e provenienza, che da parecchio tempo lavorano con lei in progetti di laboratorio e teatro partecipato. Formula che in Italia si è sviluppata negli scorsi vent’anni, ed è ormai accreditata tra i modi di produzione delle imprese creative.

Grazie al gruppo dei suoi non-attori, non-interpreti, non-personaggi, anche questi Comizi d’amore, prodotti da Css – Udine, si propongono d’indagare temi che hanno a che fare con la sessualità. E oggi, in particolare, con le questioni e la percezione di genere. La vituperata cultura del gender.

Teatro e cinema documentario sono però fattispecie diverse. Se il secondo può ambire a una visione panoramica della società, dei suoi comportamenti, delle percezioni collettive, inevitabilmente il primo riporta a esperienze singole, storie, racconti che sembrano possedere tanta più forza quanto più si innestano nella verità di coloro che le raccontano. Come succede spesso nel teatro partecipato, la coralità è un effetto, più che un principio. 

Comizi d'amore  3 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
Ph Alice BL Durigatto

Specialisti del sé

Così, rispetto al lavoro da cui riprende il titolo, questi teatrali Comizi d’amore – l’amore dei nostri Anni Venti – imboccano la strada di una rievocazione affettuosa, moderatamente nostalgica, delle esperienze che ciascuno dei partecipanti ha vissuto in prima persona

Di quella che, ad esempio, è stata “la prima volta”. Oppure di quale sia stata l’educazione al sesso e al sentimento ricevuta in casa. Di cosa sia la gelosia. Quali ansietà susciti, in famiglia, una transizione di genere.

Esperti della propria vita, si potrebbe dire di questi performer, adottando l’etichetta usata da Rimini Protokoll, il gruppo tedesco che più ha praticato il modello partecipativo.

Specialisti del sé, e perciò convincenti, schietti, ironici o drammatici, giovani o più avanti nelle esperienze, posati o esuberanti, a seconda dei casi. Qualcuno metropolitano, qualcuno più rurale. Siamo in Friuli, del resto, e la campagna è lì, a due passi. 

Comizi d'amore  4 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

A lezione d’amore

Noi spettatori, appena la serata comincia, siamo invitati a sedere in minuscoli banchi di scuola, e più che a un comizio, più che al discorso pubblico, partecipiamo alla loro lezione d’amore. Ripercorriamo l’educazione sentimentale di almeno tre generazioni. Sentiamo il battito dei loro affetti, in sintonia con la musica. La cura di Franco Battiato è il pezzo naturalmente più giusto. Ma alla fine a vincere è The power of Love dei Frankie goes to Hollywood.

E visto che siamo a scuola, capiterà anche a noi spettatori di essere invitati a un compito in classe. Sul foglio che ci viene dato insieme alla penna c’è scritto “Io amo…”. Sta a noi aggiungere che cosa. 

“Il cosmo”. “I miei figli”. “Aver cura della bellezza”. “I gatti”.” Le parole che ho sentito questa sera”. “Amo l’amore”. “Mia mamma”.

Per pudore, non vi dico che cosa ho scritto io.

Comizi d'amore  5 -  CSS Udine ph Alice BL Durigatto
ph Alice BL Durigatto

– – – – – – – – – – – – – – – –
COMIZI D’AMORE
un progetto di Teatro Partecipato
ideato e curato da Rita Maffei

con i partecipanti al progetto di Teatro Partecipato: Pepa Balaguer, Mauro Cantarutti, Umiliana Caposassi, Emanuela Colombino, Martino Mattia Cumini, Elisabetta Englaro, Laura Ercoli, Marco Gennaro, Marzia Gentili, Giuliana Grippari, Stella Martin, Donatella Mazzone, Fedra Modesto, Elisa Modonutti, Emanuela Moro, Paola Moro, Ludwig Pellegrinon, Rita Peresani, Marco Petris, Arianna Romano, Nadia Scarpini, Patrizia Volpe

scena e cura immagini Luigina Tusini
produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG

Maurizio Scaparro. Nato a Roma, inventò il Carnevale a Venezia

È scomparso oggi, a novant’anni compiuti da poco, Maurizio Scaparro. L’ultimo, probabilmente, di una generazione di artisti che nella seconda metà del ‘900, ha segnato i decenni dorati della regia in Italia. 

Maurizio Scaparro (ph. Fondazione Cini)
(ph. Fondazione Cini)

L’immagine che mi rimane è quella di lui, in posa, sorridente, sul pontile di Ca’ Giustinian, quello che si affaccia sul Canal Grande. Alle sue spalle la Punta della Dogana.

Quell’estremità veneziana era l’ormeggio del suo sogno più grande, il più esagerato: il Teatro del Mondo. Un teatro galleggiante che avrebbe solcato le acque della laguna. Un progetto fantastico che negli anni ’80, a Venezia, Scaparro trasformò in realtà. Grazie alla fantasia di un grande dell’architettura, suo contemporaneo, Aldo Rossi

“Io ho bei ricordi – aveva detto Scaparro lo scorso settembre, nel compiere 90 anni – credo di aver fatto molto, di aver costruito progetti dove la cultura è andata incontro al pubblico, è diventata qualcosa di organico alla partecipazione della gente. Sa la cosa di cui vado più orgoglioso? Dei miei Carnevali”.

La parata dei catalani Els Comediants al Carnevale di Venezia
La parata dei catalani Els Comediants al Carnevale di Venezia

Pensare in grande

Difficile separare il Carnevale di Venezia, sontuosamente rinato nel 1980, dall’immaginario di Scaparro.

Se adesso, in questa settimana, in calli e campielli si addensa una folla infinita di tipi mascherati e di turisti curiosi, buona parte del merito è suo. Che all’inizio degli anni Ottanta inventò il Carnevale così come lo si vive oggi, e ne fece l’epicentro della sua idea di teatro. Pensava in grande, sempre, Maurizio Scaparro

In grande, quando a Parigi diede vita al Théâtre des Italiens, e conquistò al teatro Claudia Cardinale. In grande, quando a villa Adriana a Tivoli volle mettere in scena Memorie di Adriano dei Marguerite Yourcenar, e vestì Giorgio Albertazzi con una tunichetta bianca.

In grande, quando nel 1992 diresse il settore teatrale dell’Expo di Siviglia, e quando per il centenario dell’Unità d’Italia, una decina di anni fa, congegnò un progetto teatrale che metteva assieme Eleonora Duse e Carlo Emilio Gadda, l’Accademia della Crusca e Pellegrino Artusi, i garibaldini e Pasolini.

Le tante tracce lasciate da Scaparro nel teatro europeo, le potete certo leggere oggi, sui giornali e in decine e decine di siti. Non starò qui a ripetere. Il segno più forte, per me, resta quello di un’utopia che si realizza. Il Teatro del Mondo, il mondo del teatro.

Il Teatro del Mondo (ph Archivio Storico della Biennale di Venezia)
Il Teatro del Mondo (ph Archivio Storico della Biennale di Venezia)

Scaparro sorridente in posa

Era un uomo colto, educato, sorridente, Maurizio Scaparro. Mai visto in lui un gesto di insofferenza, o uno scatto di rabbia, com’è invece nella tradizione dei registi italiani. Strehler insegna. 

Del lungo lavoro che avevo fatto con lui a Venezia, alla Biennale, oltre ai libri, ai cataloghi, ai programmi di sala, ai tanti apertivi nella hall del suo albergo, ricordo soprattutto i sorrisi che dispensava nelle fotografie, o a favore di cinepresa, assicurandosi sempre che alle sue spalle ci fosse uno scorcio del Canal grande, una cupola della Salute, il profilo dell’isola di San Giorgio, il bacino di San Marco.

Maurizio Scaparro (ph. Fondazione Cini)
(ph. Fondazione Cini)

Era nato, ed è scomparso a Roma, Scaparro. Ma è Venezia la città dove ha lasciato il suo più forte segno. “Sono trascorsi più di quarant’anni dal mio primo Carnevale – aveva finito col dire – ma ancora oggi ho ben nitide davanti a me le tante immagini che costituiscono la memoria di qualcosa di unico, se non di irripetibile. I pulcinella che, con le loro maschere, invadevano una Venezia incantata nel 1982, o l’elefante che, nel Carnevale del 1981, percorreva le calli come se fosse un passante abituale. Sono alcuni dei momenti più forti che riecheggiano nella memoria collettiva di chi partecipò a quelle giornate di cultura”.

volume Il Carnevale del Teatro - La Biennale

Appunto per questo, prima che ci lasciasse, in occasione del suo 90esimo compleanno, lo scorso anno, La Biennale gli aveva dedicato a palazzo Giustinian una mostra: ‘Il Carnevale squarcia la nebbia. Venezia, Scaparro, La Biennale 1980, 1981, 1982, 2006 dall’Archivio della Biennale di Venezia”. Mostra realizzata anche grazie a fotografie conservate alle Fondazione Giorgio Cini, cui il regista aveva affidato nel 2017, tutto il suo archivio.

Mostra che adesso, di nuovo in tempo di Carnevale, sarebbe bello poter rivedere.

la mostra a palazzo Giustinian (2022)

Teste di legno, corpi spericolati. Il nuovo Varietà dei Piccoli di Podrecca

Potrebbe sembrare un ritaglio del secolo passato. Un’immagine sbiadita tra le memorie dei teatri. Tutt’altro. Anche nel 2023, le marionette se la passano bene. Il loro talento, le acrobazie, il ritmo dello spettacolo, acchiappano il pubblico, nonostante il mondo corra dietro a Netflix e alla realtà virtuale. Proviamo a capire perché.

Venite con me. Vediamo assieme il nuovo allestimento dei Piccoli di Podrecca.

Piccoli di Podrecca - Varietà - il ponte

Domenica mattina

La platea della domenica mattina è mista. Bambini piccolissimi, scolari saputelli, genitori a coppie, qualche singolo adulto. In altre giornate le sedie, e anche tutti i cuscini per terra, sono occupati da classi intere, di scuola elementare perlopiù. Con una grande voglia di chiacchiere e di scoperte.

Il nuovo spettacolo dei Piccoli di Podrecca si intitola Come and Go Varietà.

Dello storico e glorioso Varietà – il titolo con il quale Vittorio Podrecca e le sue “teste di legno” avevano girato il mondo intero, per treno e per nave, da Parigi a Hollywood, dalla Turchia all’Argentina – è un’edizione rimodernata, più agile, leggera, portatile. 

Piccoli di Podrecca - Varietà - toreri - ph Roberto Canziani
Varietà – Toreri spagnoli – ph Roberto Canziani

Agile, leggero, portatile

È fatta apposta per ambientarsi in spazi molto più piccoli degli enormi teatri sudamericani, delle sale londinesi e statunitensi, dove la produzione originale, cento anni fa, suscitava l’ammirazione di Diaghilev, di Eleonora Duse, di Charlie Chaplin. Persino quella di Walt Disney.

Per chi l’avesse dimenticato, bisogna in questo momento specificare che marionetta è la figura che viene mossa dall’alto, con i fili. Burattino è invece quello animato dal basso, dalla mano che infila le dita in un corpo di stracci. Povero e popolare il burattino, raffinata e tecnicamente complessa la marionetta.

Piccoli di Podrecca - Varietà - Ballerina

Intuire i segreti

Il ponte di Come and Go Varietà – il ballatoio sul quale si muovono i marionettisti – è largo meno di cinque metri. Ma va bene così. La maggior parte dei vecchi numeri delle marionette riesce ugualmente, e anzi, permette agli spettatorini delle prime file di stare più vicini al ponte e di intuire un po’ i segreti di queste figure che, mosse dai loro fili, sembrano davvero vive.

Stavolta non ci sono soltanto loro, i Piccoli. Il nuovo allestimento porta sul palco anche creature umane, quattro attrici (ma anche marionettiste) che con questi legnosi compari stringono amicizia, e insegnano loro come stare al mondo, come comportarsi davanti a un pubblico venuto là per ammirarli, e non per i loro capricci.

Il più capriccioso è Arlecchino. Appena uscito dal suo baule, dalla sacca di tela che lo custodisce nei viaggi, mostra subito quel carattere spavaldo e indolente che è tipico della più famosa maschera italiana. Cinquant’anni fa, era diventato l’ambasciatore del nostro teatro in uno dei più seguiti show televisivi americani.

Se Arlecchino ha temperamento, e ci tiene a stare e sotto i riflettori, tutti i suoi compagni d’avventura sono capaci di mostrare altrettanto ritmo, atletismo, bravura. I ballerini cubani che si esibiscono in una rumba irresistibile. Le scimmiette salterine. I dinoccolati solisti, con il frac di lustrini e il cilindro. L’equilibrista in bilico sulla palla.

Figure umane e creature animali. Di tutti i tipi e di tutti i colori. Spilungoni, nani, belle donne. Caucasici, afro-americani, mulatti. Cani e struzzi. Abituato a girare il mondo, Varietà conosceva la parola inclusività ben prima che diventasse di moda. 

Piccoli di Podrecca - Varietà - jazz

E poi ci sono i virtuosi: personaggi che strappano gridolini di ammirazione.

Il trapezista dalla pelle color cioccolata ne fa mille sulla sua corda. Numeri davvero rischiosi e spericolati. Il rischio, se sei marionetta, è che i fili si impiglino e il numero vada a farsi benedire.

Oppure il violinista, che col suo strumento coinvolge tutto il pubblico in una travolgente czarda. Chissà come fanno i suoi ciuffi a sollevarsi a ogni colpo d’archetto.

Il look smagliante del nuovo Varietà

Qualcosa mi dice che sto spoilerando un po’ troppo. Come and Go Varietà è fatto soprattutto di sorprese, e svelarle non sembra mica giusto. 

Questa nuova edizione nasce da un corso di specializzazione per marionettisti, promosso nel 2022 dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, che è anche il custode dei Piccoli di Podrecca. E che si era impegnato qualche anno fa, assieme alla cooperativa Cassiopea, in un importante lavoro di restauro.

Piccoli di Podrecca - Varietà - Violinista - ph Eugenio Spagnol
ph Eugenio Spagnol

Ne sono venuti fuori il nuovo look smagliante dei Piccoli e un’ardita schiera di giovani professionisti (anzi professioniste) a cui due marionettisti di antica scuola, Barbara Della Polla e Ennio Guerrato, hanno passato le tecniche del mestiere. Ma, rimboccate le maniche, stanno anche loro sul ponte a tendere “i fili che muovono sogni”, come diceva un antico slogan.

Le repliche 

Prossimamente, Come and Go Varietà prevede ben 10 repliche: da venerdì 17 febbraio a mercoledì 1 marzo (a volte al mattino a volte al pomeriggio). Lo spazio questa volta è la sala Rovis, nello storico edificio di via della Ginnastica a Trieste. È su parquet, dove una volta si tirava di scherma, che i Piccoli aspettano il loro pubblico: una meravigliosa invenzione, senza distinzioni, dai 3 ai 93. 

– – – – – – – – – – – – – – – – – – –
COME AND GO – VARIETÀ
regia Barbara Della Polla e Ennio Guerrato
marionettisti Barbara Della Polla, Ennio Guerrato, Roberta Colacino, Gaia Mencagli, Giada Bigot, Silvia Ponton
produzione il Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
in collaborazione con Società Ginnastica Triestina

STORIE – Massimo Castri regista. Dieci anni dopo

Nel mese un po’ trafelato che si conclude oggi, penso ci debba essere, qui su QuanteScene!, un pensiero rivolto a Massimo Castri, regista.

Massimo Castri

L’ispido Castri

Regista e intellettuale, nel senso più positivo della parola, Massimo Castri era nato nel 1943 ed è scomparso nel 2013, dieci anni fa, in gennaio, il 23 per essere esatti, senza nemmeno sfiorare la soglia dei 70 anni.

Personalità d’artista perfetta per le mie Storie, nelle quali racconto incontri con uomini (e donne) straordinari. A volte capaci di dare una svolta alla mia vita. Perlomeno a quella nel teatro.

È stato così anche per Massimo Castri. L’ho incontrato più volte. Spesso per intervistarlo. Oppure per chiacchierare. E sono stato testimone di alcuni siparietti che gli piaceva recitare in pubblico – se ho inteso bene il suo carattere – per confermare l’immagine burbera e di misantropo che ci teneva a dare di sé.

Chi lo ha conosciuto meglio, sa quanto gli fosse congeniale questa fisionomia. L’ispido Castri – diceva Anna Maria Guarnieri, ricordandolo affettuosamente dieci anni fa.

MassimoCastri -Costa Ovest 1989
Castri con gli allievi del master 1989 a Castiglioncello – Atelier Costa Ovest

Questa immagine: segui il link per saperne di più.

I rusteghi

Lo ricordo a Treviso, per esempio, nel 1992, febbraio, al debutto di I rusteghi, il primo testo di Goldoni che – nolente più che volente – lui aveva messo in scena. Del resto era l’anno del Bicentenario e un Goldoni, un qualsiasi Goldoni, anche lui lo doveva fare. Aveva scelto quello, perché rustego, tutto sommato, era anche lui: toscano, non di fiorentini modi cortesi, ma di Cortona. E a volte senza garbo, pure.

A quella ‘prima’, in platea poco distante da me, per buona parte del suo spettacolo Castri aveva sbuffato e rumoreggiato, insoddisfatto, masticando tra i denti la sigaretta spenta. A un certo punto una spettatrice, seduta davanti a lui, esasperata da quel tipo che non la smetteva di agitarsi, si era voltata e lo aveva zittito. “Guardi che sono il regista” aveva risposto piccato.

Lo sapevo, infatti, che il lieto fine goldoniano lui non lo sopportava proprio. Lo incuriosiva il Goldoni nero, acre nei confronti della rampante borghesia veneziana, ma ne vedeva l’ipocrisia quando era necessario portare a termine, col sorriso, le sue commedie.

Me lo aveva detto poco prima, in camerino, dove facevano bella mostra di sé, ad asciugare, le bianche magliette della salute che consumava in quantità spropositate. Soprattutto nell’imminenza di un debutto.

Massimo Castri, la regia critica

Spigolosità e traspirazione che non offuscano nemmeno per un attimo, il suo contributo al teatro del secondo Novecento e a quel fenomeno tutto italiano che va sotto il nome di regia critica: Strehler (che era del ’21), Ronconi (che era del ’33), e poi lui (del ’43).

Come Mariangela Melato, scomparsa dieci giorni prima, Castri era della generazione degli artisti nati durante la guerra e partecipi, ancora bambini, dell’esperienza della ricostruzione, delle trasformazioni sociali, del peso diverso della cultura e dello spettacolo che la nuova Italia cominciava a scoprire. Fatti ed esperienze che avrebbero modellato, in entrambi, il carattere, i pensieri, le scelte personali e quelle politiche.

Massimo Castri giovane
Massimo Castri giovane attore alla Loggetta di Brescia

Un corpo a corpo con gli autori

Ma l’anticonformismo della Melato, nella storia e nel carattere di Massimo Castri si era declinato molto diversamente: un ruvido corpo a corpo con gli autori che intendeva allestire. Diceva di non amare Pirandello, trovava detestabile Pasolini. E appunto ipocrita Goldoni. Ma li distendeva sul suo lettino da psicoanalista, e li metteva davanti alle loro contraddizioni. Poi li portava in scena.

Ancora trentenne, questo trattamento analitico, Castri lo aveva riservato a Pirandello, di cui aveva inizialmente messo in scena tre lavori. I quali – molto più di libri e studi specialistici – studiano, illuminano, e addirittura smascherano le segrete inconfessabili pulsioni dello scrittore siciliano.

Massimo Castri e Valeria Moriconi
Massimo Castri e Valeria Moriconi

Vestire gli ignudi, La vita che ti diedi e l’ancora più disturbante Così è (se vi pare), erano stati poi raccolti nel volume Pirandello Ottanta di Ubulibri. Fu per questo che gli eredi – e per prima Marta Abba, musa pirandelliana – gli proibirono da allora in poi di lavorare su quei copioni. Avrebbe potuto metterci mano solo in anni successivi, trovando la propria strada dentro la complicata questione dei diritti d’autore.

Ma appunto per questo, era un piacere per lo spettatore assistere ai suoi spettacoli, scoprire negli autori versanti prima mai visti, abbracciare la complessità dei testi, incantarsi davanti alle immagini che con l’aiuto di collaboratori fedeli (da Marco Plini, assistente al suo fianco, a Maurizio Balò, Antonio Fiorentino, Claudia Calvaresi per la scenografia, a Gigi Saccomandi al disegno delle luci) Castri riusciva a far sbocciare. 

Diana Hoebel e Rosario Lisma in Così è (se vi pare) 2007 ph Diana Hoebel
Diana Hoebel e Rosario Lisma nell’edizione 2007 di Così è (se vi pare) ph. Diana Hoebel

Misantropo

Anche quando – in Ibsen, Schnitzler, Marivaux – trovava sintonie maggiori, o addirittura si rispecchiava. Come nel Misantropo di Molière, per il quale aveva voluto, appunto, centinaia di cornici e di specchi.

Rivedere il finale di Così è (se vi pare), così facile da trovare su YouTube, è assistere a una approfondita e convincente lezione su Pirandello. Ma anche scoprire, nel riso beffardo di Eros Pagni (Laudisi), nell’ansietà genitoriale di Valeria Moriconi e Omero Antonutti, alcuni tratti che l’ispido Castri non lasciava mai trasparire in pubblico.

Valeria Moriconi, Omero Antonutti e Giovanna Bozzolo nell’edizione tv 1990 di Così è (se vi pare)

– – – – – – – – – – – – –
Le STORIE di QuanteScene!
Ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, e tanti altri.

Lasciati portare in giro dai link di QuanteScene!

Le Aquile randagie di Alex Cendron. Quando scoutismo voleva dire Resistenza

Aquile randagie. Credere, disobbedire, resistere è lo spettacolo scritto e interpretato da Alex Cendron. La ricostruzione del contributo dato alla Resistenza italiana, tra gli anni ’30 e ’40, dallo scoutismo, l’associazionismo giovanile , ispirato ai principi educativi di Robert Baden-Powell, i cosiddetti boy scout.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
(ph Laila Pozzo)

Vicende in massima parte sconosciute. Ma anche pagine di storia del nostro Paese. Circostanze ben documentate. Eppure raccontate raramente. 

“È una storia bella e motivante. Ci lavoro sopra da anni, studiando, scrivendo, mettendola in scena” spiega l’attore, autore e interprete dello spettacolo realizzato con la regia di Massimiliano Cividati.

Il progetto si muove su un doppio binario. Portare il pubblico a conoscenza di questo movimento di resistenza giovanile italiana: storicamente forse il primo, perché nato già nel 1928 e operante in clandestinità fino alla fine del fascismo. E al tempo stesso, mettere le doti interpretative di Cendron al servizio di episodio, avvincente, documentato, che ha avuto per protagonisti alcuni membri delle ‘Aquile randagie‘.

Gruppo scout
Immagine di repertorio

Chi erano le Aquile randagie? 

Nel 1928 Mussolini scioglie per legge le associazioni scoutistiche per convogliare tutte le loro attività di educazione e formazione nell’Opera Nazionale Balilla alle dirette dipendenze del governo. Soprattutto in Lombardia e in Emilia prende allora corpo una forma di ‘diserzione’ che spinge alcuni giovani gruppi a perseguire in clandestinità i valori e le pratiche dello scoutismo, in una forma di opposizione disarmata, periodo che verrà definito “giungla silente“.  Tra questi nuclei, uno importante è stato quello che si era dato il nome di Aquile randagie, e raggruppava ragazzi tra gli 11 e i 17 anni.

Dopo l’8 settembre ’43, usciti dalla clandestinità, i suoi membri cominciarono a impegnarsi in un’opera di salvataggio di perseguitati e ricercati di diversa nazione, razza, religione, favorendo anche numerosi e avventurosi gli espatri in Svizzera.

Da queste vicende, il regista Gianni Aureli ha tratto nel 2019, un film proiettato l’anno successivo anche all’Europarlamento a Bruxelles.

Agile, intenso

“Era un mio desiderio forte recuperare una parte sommersa di ciò che è stata la Resistenza giovanile nel nostro Paese” prosegue Cendron, attore di teatro, di cinema e di tv, che in un decennio si è conquistato la stima del pubblico e della critica.

A volte lavorando con Massimo Popolizio (John Gabriel Borkman di Ibsen), Luca Zingaretti (The Pride di Alexi Kaye Campell), Amanda Sandrelli (La locandiera). Ma anche in ruoli da protagonista: grandi apprezzamenti ha avuto il risultato a cui è giunto nell’interpretare Don Milani in Il Vangelo secondo Lorenzo, con la regia di Leo Muscato. Impegnato anche nella scrittura, da due anni Cendron porta avanti il suo progetto di riscoperta storica. 

“Con Aquile randagie sono riuscito a costruire uno spettacolo intenso, questo almeno mi dice la reazione del pubblico, ma anche di grande agilità. Praticamente faccio tutto da solo, compresa la tecnica, anche perché, come scout, ne ho imparate molte. Le repliche dello spettacolo si stanno infatti moltiplicando. Non solo nell’ambito delle associazioni che si occupano di scoutismo, ma anche per il più vasto pubblico dei teatri, colpito dall’intensità emotiva del racconto e da vicende perlopiù sconosciute”.

Alex Cendron  - Aquile randagie - ph Laila Pozzo
ph Laila Pozzo

Controcorrente

C’è infatti nell’opinione pubblica contemporanea, in particolare tra gli adolescenti, una posizione di distanza, se non diffidenza, rispetto alle pratiche scout, intese come una forma di militarizzazione o di catechesi, che appare di retroguardia.

“È proprio questa la ragione che mi ha indotto a costruire Aquile randagie, rivolto soprattutto per chi non ha una conoscenza diretta di ciò che è stato, e oggi è, lo scoutismo” precisa Cendron.

“I principi su cui si fonda sono dichiaratamente anti-militaristi: non è associazionismo filo-conservatore, né di destra. Certo, in un tempo come questo odierno, dove le tentazioni del virtuale sono quotidiane, lo sforzo richiesto dalle pratiche scout e l’impegno all’aria aperta vanno controcorrente. E l’attrazione di questa esperienza, che ha giocato un ruolo importante della mia vita, è diminuita. È giusto conoscerla meglio”.

Lo spettacolo è in scena lunedì 16 gennaio 2023 alla Sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste

[pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste il 15 gennaio 2023]

– – – – – – – – – – – –
AQUILE RANDAGIE 
Credere Disobbedire Resistere

di e con Alex Cendron
regia Massimiliano Cividati
musiche Paolo Coletta
produzione Arca Azzurra

Europeana. Lino Guanciale e un continente diverso, scontroso

Torna in scena Europeana, il reading che Lino Guanciale ha tratto da un libro pubblicato nel 2001 dallo scrittore praghese Patrik Ourednik. Nel luglio 2021 lo spettacolo era al debutto al Mittelfest di Cividale del Friuli. Riprende ora il proprio percorso, con repliche in Friuli Venezia Giulia (13 gennaio al Verdi di Gorizia, 14 e 15 al Rossetti a Trieste) per approdare poi a marzo 2023 al Piccolo di Milano.

Lino Guanciale in Europeana al debutto a Mittelfest
Lino Guanciale in Europeana

Come eravamo: diversi

In questo anno e mezzo, l’Europa è cambiata. È una diversa Europa. Il perdurare dell’emergenza sanitaria e il prolungarsi del conflitto ai suoi confini orientali sono i motivi più espliciti. Quelli più visibili. Ma tanti altri elementi, tanti comportamenti, anche individuali, ci fanno diversi da come eravamo. Prime fra tutti, la polarizzazione delle opinioni e la semplificazione dei ragionamenti. Che ci fanno più scontrosi. Letteralmente.

In questo senso, rileggere assieme a Lino Guanciale Europeana – libro che mette nel frullatore la storia europea del XX secolo – può aiutarci a mantenere una distanza sana dal presente, a non drammatizzarlo. A capire che l’ironia è uno dei tanti modi, uno dei tanti filtri che abbiamo a disposizione.

Patrick Ourednik - Europeana

Ho pensato: posso dare un contorno agli appuntamenti di questo gennaio, in cui Guanciale è tornato a fare strage di spettatori con una nuova stagione di La Porta Rossa e un’altra di Il commissario Ricciardi. E nella vita reale – che è quel che più conta – dallo scorso novembre nel ruolo di padre.

Vi propongo perciò qui sotto un’intervista a tutto campo fatta allora e pubblicata sulla rivista Hystrio. Anche per le considerazioni che Guanciale fa a proposito della serialità televisiva, quella nostra conversazione mantiene una autorevole attualità. 🙂

Lino Guanciale

L’intervista

È uno degli attori a più alta visibilità seriale. Dodici serie tv negli ultimi dieci anni. Di quelle importanti, e per lo più da protagonista. Poi cinema, corti, radio, spot, libri, clip musicali.

Eppure, nato 42 anni fa [ndr: 44 il prossimo maggio] , tra Toro e Gemelli, in Abruzzo, Lino Guanciale non si è mai sottratto al teatro.

In palcoscenico ci torna ogni volta volentieri. Con fiducia inflessibile in ogni declinazione teatrale. Dai titoloni (esordio in Romeo e Giulietta, regia di Proietti) alle variazioni enigmatiche del post-drammatico (La classe operaia va in Paradiso e molti altri titoli sollecitati da Claudio Longhi) a monologhi e reading che lui stesso confeziona (tra i più recenti quello di devozione al corregionale Ennio Flaiano: Non svegliate lo spettatore).

Chiunque scorra la vasta costellazione web che lo ritrae in forma di interviste, fotografie, backstage, news, curiosità, indiscrezioni, scoprirà però che la definizione che ricorre più spesso è quella di sex simbol. 

“Mammamia – mi dice – mi ha fatto sempre paura essere identificato come sex symbol. Ma mi diverte pure, perché quella ‘qualifica’ l’ho guardata sempre dall’esterno e so che non mi riguarda da un punto di vista personale. Riguarda l’immagine dei personaggi che ho interpretato. L’ho capito leggendo Walter Benjamin: nel prodotto che va finire sullo schermo, l’immagine subisce tante di quelle manipolazioni che alla fine non ci si siamo più noi, gli interpreti. All’inverso, ciò che un attore fa su un palcoscenico è sempre e soltanto suo, e dei colleghi con cui a lavora assieme. Per questo il teatro è la vera casa degli attori”.

Però essere sex symbol aiuta.

“La storia dello spettacolo ci parla di attori o attrici sex symbol anche un po’ improbabili. Io sono convinto che la seduttività sia uno strumento tra gli altri per costruire relazioni con il pubblico. Ma bisogna aggiungervi un erotismo un po’ più raffinato, che passi attraverso il canale intellettuale, o una specifica grammatica d’attore, o la proposta di progetti interessanti. Insomma, da sola, la seduttività non basta per aprire le porte della storia del teatro. Tutt’al più si diventa fenomeni pop, nel Settecento come nel Duemila”.

Lino Guanciale set camerino
Guanciale sul set

Tanto per capire: il pubblico viene a teatro per vedere Guanciale, o per sentire ciò che Guanciale dice?

“Magari viene per me. Ma poi si appassiona a ciò che interpreto o leggo. Il mio tentativo è sempre quello di mettermi al servizio del testo”.

Nei fan e nelle fan, quelle che seguono il loro beniamino ovunque, c’è anche un surplus di innamoramento.

“Credo sia un problema di tutti quegli attori e attrici a cui è capitato di avere un largo seguito. Il lavoro nel cinema e in televisione accelera il rapporto di fidelizzazione, che magari ricade poi sul teatro, se uno lo fa. Ed è una specie di doping. Ma io non considero la popolarità come un fine. Per me è un mezzo per portare più gente a teatro, per farlo diventare, quello sì, popolare. Non nel senso di commerciale, ma nel senso nobile che a questa parola dava Jean Vilar, colui che aveva ideato il Festival di Avignone”. 

Con la recente moltiplicazione dei festival, che coprono oramai ogni forma di scibile umano, la formula dei reading e delle performance al leggio sta diventando infatti sempre più frequente.

“Più che un genere lo considero una dimensione interpretativa. È una formula che amo molto. Ha una sua lunga tradizione. Karl Kraus, per esempio, ci ha costruito sopra la propria fortuna. A me piace il leggio in scena, serve a mettere in evidenza la letterarietà di un libro. È un corpo a corpo con la carta, e provo un vero piacere nel lavorare con i fogli in scena. Alcune pagine invece le gestisco a memoria, impegnato in un altro corpo a corpo, quello con la musica”.

Lino Guanciale

A teatro, Guanciale lavora spesso con i musicisti, i compositori, gli ingegneri del suono. Meglio se dal vivo. 

“L’esperienza mi ha insegnato che la musica dal vivo è uno dei mezzi più potenti per mettersi in relazione con il pubblico. Certo non la devi trattare come un tappeto sonoro. Devi farne un impulso per arrivare più a fondo possibile nelle parole che porti sulla scena. Grazie alla musica, anche gli attori, oltre che il pubblico, possono sprofondare nelle parole. Per me è una specie di invasamento”.

Davide Cavuti, musicista e regista, ideatore di suoni, è sempre più spesso un compagno di scena, per esempio nel recente lavoro sulle pagine di Flaiano.

“Nel lavoro con i musicisti dal vivo, specie se improvvisano, ad emergere sono i contenuti tematici dello spettacolo. Lo spettatore è invitato a cogliere non la singola battuta, ma la struttura generativa di ciò che sta ascoltando”.

Vero. Ma poi finito lo spettacolo, uscendo da teatro, quegli stessi spettatori sono là a chiedere l’autografo non al Guanciale che si è impegnato sulle pagine di Lo spettatore addormentato, ma al protagonista di La porta rossa. Con questa serie tv, di grande successo peraltro, saremo alla terza stagione.

“Mi pare che la serialità televisiva sia un fenomeno destinato a perdurare. In fondo è l’erede di tradizioni di storytelling che risalgono all’epica più nobile, al feuilleton ottocentesco. Generi che hanno da sempre catalizzato l’attenzione del pubblico, con la messa in opera di elementi di suspence tra una puntata e l’altra”. 

Eggià, con ciò che oggi chiamiamo cliff hanger, Sherazade incantava il sultano delle Mille e una notte e così si salvava la vita.

“Grazie alla serialità, non solo televisiva, l’attenzione dello spettatore viene modulata diversamente. A teatro non è più necessario limitarsi al perimetro canonico dei 90-120 minuti. Ronconi, ma anche Fabre o Latella, sanno bene che l’attenzione non è un fatto legato al tempo, ma a come viene gestito il tempo”.

Però il binge watching, l’abbuffata di serie, il restare per ore e ore, giornate intere, incollati sugli schermi, sciroppando episodio dopo episodio, è devastante. Dal punto di vista della salute, dico.

“Concordo. Ma è una cosa sulla quale andrebbe fatta una riflessione più approfondita, e non solo in negativo. Certe forme di espansione dell’attenzione sono un orizzonte da raggiungere. Non c’è solo chi se ne sta rattrappito per un giorno a letto, c’è anche chi è capace di sprofondare dentro la narrazione, cullandosi in un altro mondo. È un nuovo stato di disposizione all’ascolto che andrebbe studiato. Perché è proprio là dentro che si nasconde il segreto millenario della narrazione”.

[intervista pubblicata sul numero 4/2021 del trimestrale Hystrio]

– – – – – – – – – – –
EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO

di Patrik Ouredik © 2001 Patrik Ourednik
traduzione Andrea Libero Carbone © 2017 Quodlibet srl
diretto e interpretato da Lino Guanciale
regia Lino Guanciale
costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca
musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica
luci Carlo Pediani
co-produzione Wrong Child Production e Mittelfest2021
in collaborazione con Ljubljana Festival

Anatomia dell’adolescenza. Quell’anno di scuola, nel banco con Giani Stuparich

Torna in scena per qualche giorno a Trieste Quell’anno di scuola. È l’allestimento teatrale che Alessandro Marinuzzi, regista, ha tratto da un romanzo di Giani Stuparich. Le irrequietezze e i turbamenti di una generazione, ieri come oggi

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG
ph. Serena Pea (anche le seguenti)

Sono tanti i motivi che si affacciano dalle pagine di Un anno di scuola, romanzo dello scrittore triestino Giani Stuparich, pubblicato nel 1929. 

Senza nascondere la traccia autobiografica, e trasfigurandola forse solo nei nomi, Stuparich rievoca quella manciata di mesi in cui lui stesso – studente vent’anni prima dell’ultima classe di un liceo – e i suoi compagni avevano vissuto il passaggio da una agiata e tranquilla adolescenza alle responsabilità adulte.

Bildungsroman, romanzo di formazione, sarebbe la semplice formula d’inventario. Se non che, a farne un’opera davvero particolare, sono il tempo e i luoghi che inquadrano proprio “quell’anno di scuola”.

Trieste nel 1909 e l’eccitato paesaggio storico che in queste zone preparava la prima guerra mondiale si intrecciano con l’irrequietezza di ragazzi non ancora ventenni, spinti a scoprire, in tempi difficili, l’attrazione del diventare adulti e le impazienze del sesso.

Un anno di scuola è così lo studio su uno snodo di esperienze che, molto più di altre, lasciano un segno profondo per tutto il resto della vita.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Un nuovo respiro per Stuparich

Negli anni Settanta Franco Giraldi, regista di cinema e di televisione ne aveva tratto per la Rai un film tv in due puntate. Con un leggero scivolamento temporale – il 1909 diventava il 1914, apposta per precipitare nella fatidica giornata del 28 giugno, quella dell’attentato di Sarajevo – Giraldi accentuava l’intreccio delle pulsioni: esaltazione politica, esuberanza giovanile, turbamenti ormonali.

Un nodo storico, ma anche emotivo, che aveva decretato il successo e l’interesse per quel titolo, che finalmente usciva dal pur interessante scaffale della letteratura triestina del primo Novecento. Riconoscendo a Stuparich un respiro non solo locale.

Di Un anno di scuola, anche per ragioni personali, si era innamorato molto tempo fa Alessandro Marinuzzi, regista e formatore teatrale. Lui stesso aveva partecipato, giovanissimo attore, alla realizzazione del film. E ora, con il supporto di due teatri stabili – quello del Veneto e quello del Friuli Venezia Giulia – ha tentato la traduzione teatrale del romanzo.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

La macchina del tempo

Impresa ambiziosa per diverse ragioni. Primo, per la matrice narrativa e anche psicologica del materiale di partenza. Secondo, perché non è facile trovare interpreti credibili, con i quali dar vita a una classe di studenti ingenui e baldanzosi quel che basta. E con la macchina del tempo spedirli indietro quasi di un secolo.

L’operazione è riuscita, molto bene anche, a giudicare soprattutto dalla risposta del pubblico. Le repliche previste nella sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste lo scorso autunno hanno registrato ogni sera il tutto esaurito. E si dovuto pensare ad aggiungerne altre, adesso a gennaio (fino a domenica 15).

Ai due impedimenti cui accennavo – la matrice letteraria del racconto, la scelta degli interpreti – Quell’anno di scuola oppone soluzioni eccellenti. La scrittura teatrale (elaborata dallo stesso Marinuzzi assieme a Davide Rossi) destruttura la pagina, i periodi, le frasi, e li ridistribuisce tra gli attori, in un eccitato accavallarsi di battute. La parola viva vince, modellata su una pratica che del Pasticciaccio di Gadda aveva fatto un capolavoro di palcoscenico (grazie a Luca Ronconi, certo) e che aveva fatto scoprire anche a teatro Ragazzi di vita di Pasolini (con la regia di Massimo Popolizio).

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Gli interpreti, provenienti dall’esperienza collettiva di Teseo, progetto di formazione del Teatro Stabile del Veneto, incarnano vivacemente quella minuscola comunità. Anche perché la regia e gli essenziali elementi scenici di Andrea Stanisci non li costringono a far rivivere un’epoca, ma ne liberano il potenziale contemporaneo di immediatezza, entusiasmi e disillusioni.

A loro, che sono otto, si aggiunge la perizia di due attori dello Stabile del Friuli Venezia Giulia (Ester Galazzi e Riccardo Maranzana) a cui la regia affida i ruoli maturi del professore e della madre di uno dei ragazzi.

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Una femmina in una classe maschile

Va ricordato che in quell’anno, il 1909, a Trieste le porte degli istituti scolastici superiori si erano aperti anche alle ragazze. Tra i maschi rumoreggianti di quella ‘ottava ginnasio’ la scrittura di Stuparich mette a fuoco il fascino di Edda.

Bella, determinata, capace, Edda Marty è la prima a iscriversi a quella scuola, ben decisa ad affrontare l’esame di maturità e poi l’università.

È storia documentata: la ragazza in realtà si chiamava Maria Prebil e i suoi compagni di classe erano i giovani rappresentanti della classe agiata di una Trieste ancora austro-ungarica e emporiale. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Irredentismo

Nelle pagine dello scrittore, i trasalimenti sentimentali, nonché erotici della scolaresca maschile, si impastano con l’afflato politico di una generazione infatuata di irredentismo, pronta a immolarsi, come effettivamente succederà, per il ricongiungimento di Trieste alla patria Italia. Ne moriranno parecchi.

Nelle scene dello spettacolo di Marinuzzi, fedeli il più possibile al romanzo, si legge certo tutto questo. Il finale dipinge anzi la catastrofe della guerra imminente. 

Ma occhi contemporanei vi leggono molto di più.

Scostato il velo carducciano e nazionalista attraverso il quale Stuparich ritraeva alcuni dei suoi compagni, ciò che si vede è il naturale, biologico slancio di una generazione non ancora ventenne che vuole progettare il futuro, che prova a costruirlo nell’impazienza e nell’ansia. 

Quell'anno di scuola - Stuparich - Marinuzzi - Stabile FVG

Costruire il futuro

Proprio ciò che vediamo espresso oggi negli studenti che con le parole e i libri di Greta Thunberg, hanno provato a disegnare i loro Fridays for Future. E si slanciano avanti, maldestramente a volte, per dare la svolta a un percorso che, altrimenti, sembra di nuovo avviato alla catastrofe. Chissà se bellica, chissà se ambientale.

Su questa incertezza, sulle paure e sulle speranze, più che sulla rievocazione storica, mi pare che lo spettacolo di Alessandro Marinuzzi indirizzi i pensieri del suo pubblico. 

Che ogni sera lascia la sala emozionato, anche commosso, accompagnato da un valzerino che alcuni di voi, lettori scaltri, riconosceranno.

Perché proviene da uno spettacolo di Tadeusz Kantor. Che ha un titolo fatto apposta per ritrarre quegli studenti di ginnasio che cent’anni fa la Storia aveva maldestramente avviato verso il fronte: La classe morta.

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – 
QUELL’ANNO DI SCUOLA

elaborazione drammaturgica Alessandro Marinuzzi, Davide Rossi
tratto da “Un anno di scuola” di Giani Stuparich
editore Quodlibet per gentile concessione di Nefertiti Film
progetto drammaturgico e regia Alessandro Marinuzzi
con gli attori della Compagnia Stabile del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Ester Galazzi e Riccardo Maranzana
e con gli attori e le attrici della Compagnia Giovani (progetto TeSeO) del Teatro Stabile del Veneto Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro
elementi scenici e costumi Andrea Stanisci
assistente alla regia Davide Rossi
fotografie di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

Befana in casa Cupiello

Un po’ per colpa mia, un po’ per merito loro, Natale in casa Cupiello, prodotto da Interno 5 e Teatri Associati di Napoli, conquista in questi giorni il premio di spettacolo più inconsueto a cavallo del cambio dell’anno. L’ho visto al Teatro Bellini nel giorno della Befana.

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo
ph Anna Camerlingo (anche le seguenti)

La colpa è mia perché a Napoli sono sbarcato con qualche giorno di ritardo e invece di far coincidere la commedia di Eduardo con i tre giorni di Natale, come la tradizione vorrebbe, me la sono vista nel pomeriggio dell’Epifania.

Il merito è loro perché questo classico del teatro napoletano, una volta tanto, non è stato allestito nella chiave di realismo dolceamaro alla quale Eduardo, i suoi figli, i pronipoti, ci hanno abituato. Ma viene affidato tutto a pupazzi. Ai quali dà voce un solo attore, Luca Saccoia.

Luca Saccoia in Natale in casa Cupiello - De Filippo- ph Anna Camerlingo

Luca Cupiello e il tutto esaurito

Due anomalie in una, pertanto, in questa Befana in casa Cupiello, che merita di essere segnalata, non fosse altro perché il Teatro Bellini (dove ha debuttato lo scorso 20 dicembre e andrà in scena fino all’8 gennaio 2023) registra ogni sera il tutto esaurito. Che suggerisce pure l’aggiunta di sedie ai lati della platea, per esaudire tutte le richieste.

La ragione è nella originalità dell’allestimento, che allontana la commedia dal registro basso-borghese e novecentesco dentro il quale Luca Cupiello e suoi famigliari erano nati (la commedia risale addirittura al 1931, e festeggia quindi adesso novant’anni di rappresentazioni).

Grazie invece alla scelta delle figuresupermarionette le chiamava Edward Gordon Craig – dà a quei personaggi la parvenza di creature che si elevano oltre la Storia, eroi di un canone universale, quali potrebbero essere per esempio Ulisse, don Chisciotte, Padre Ubu… Ai quali il teatro delle figure spesso si è interessato.

Fisse nelle espressioni del volto, astratte da ciò che è inesorabilmente umano, troppo umano, aliene alle emozioni e alla soggettività, siano pupazzi, fantocci, marionette, burattini… le figure sono essenze teatrali senza età né tempo. Divinità.

Natale in casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

Sulle proprie spalle

Lo spettacolo, diretto da Lello Serao, gioca inoltre sul filo del virtuosismo. La famiglia Cupiello è in questo caso affidata alla voce e alla presenza di colui che, si potrebbe dire, sostiene tutta l’opera sulle proprie spalle.

Il canto, le voci, la manipolazione a vista dei pupazzi, i primi piani in ribalta, si devono tutti a Luca Saccoia (che assieme Vincenzo Ambrosino ha ideato il progetto). Dietro a lui, comunque, nel buio di un meccanismo scenico animato con indubbia perizia, ci sono almeno sei abili movimentatori. Vestiti tutti di nero, per mimetizzarsi con lo sfondo, mentre fanno vivere sul palco i fantocci ideati e costruiti da Tiziano Fario.

La vicenda della famiglia Cupiello, suppongo, la conoscete. Le storiche edizioni televisive (1962 e 1977) interpretate dallo stesso Eduardo e il loro incipit promosso a icona (Lucariè, Lucariè, scètate, songh’ ‘e nnove…), ma anche una più recente versione con Sergio Castellitto (2020), hanno fatto di Natale in casa Cupiello uno dei classici della tv in tempo di festa. E non occorre dunque rammentare la vicenda.

Natale in Casa Cupiello - De Filippo - regia Lello Serrao - ph Anna Camerlingo

La cena della vigilia

Si dovrà invece dire che, ogni sera al Bellini, nella sala piccola, a strappare a cascate gli applausi è proprio il secondo atto. 

Luca Saccoia in Natale in Casa Cupiello - De filippo- ph Anna Camerlingo

Quello che trasforma la già nervosa cena della vigilia di Natale in un dramma della gelosia, con il suo sottofinale di re magi, bengala scintillanti e canto natalizio (Tu scendi dalle stelle, o mia Concetta, e io t’aggiu portato questa burzetta) che è un topic del canone teatrale italiano, non solo natalizio.

Tant’è vero che fa piacere assistervi anche nel giorno della Befana.

– – – – – – – – – – – – – – – 
NATALE IN CASA CUPIELLO

spettacolo per attore cum figuris
di Eduardo De Filippo
da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia
con Luca Saccoia 
regia Lello Serao
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario
manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia
costumi Federica del Gaudio 
musiche originali Luca Toller
fotografie di Anna Camerlingo
un progetto a cura di Interno 5 e Teatri Associati di Napoli
in coproduzione con Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellinicon il sostegno della Fondazione De Filippo per i 90 anni di Natale in casa Cupiello

– – – – – – – – – – – – – – – 

il celebre finale del secondo atto, nella versione televisiva 1977 con Eduardo De Filippo (e Luca De Filippo, Gino Maringola, Pupella Maggio)

Uffici stampa. Come destreggiarsi in quelle splendide cornici

Da un po’ di tempo, l’ultimo post dell’anno, io lo dedico agli uffici stampa. Lo so che è una espressione che non si usa più. Comunicazione e Promozione ai Media, Press Department, Media Relations, sono definizioni più aggiornate. Come aggiornati sono strumenti, tecniche e stili che i giovani capitani (e le giovani capitane) della comunicazione sanno mettere in atto.

Ciò non toglie che se scrivo ufficio stampa, capiscono tutti. 

Ufficio Stampa

La temperanza

Nell’ultimo post del 2019 raccontavo un po’ la storia e l’evoluzione di questa professione. Nel post che concludeva il 2021, mi auguravo che la mia casella di posta vedesse diminuire mail pesanti, comunicati prolissi, foto indesiderate, almeno della metà. Non è successo. Anzi, le giovani leve della comunicazione sembrano propense ad abbondare, piuttosto che coltivare la virtù della temperanza

La temperanza

No pistolotto

Inutile aggiungere, pure quest’anno, l’ennesimo pistolotto. Il dio della Comunicazione ha già pronta per loro la penitenza. E per prenderli in giro, o forse per tendere un tranello, già qualche anno fa ha stilato un decalogo che gliene dice quattro (sono cinque, anzi).

Eccolo qua:

Ufficio Stampa - decalogo, no pentagolo
(grazie a Riccardo per averlo scoperto nelle sue scorribande su web)

Nella splendida cornice degli uffici stampa

Lo sottopongo anche a voi, esperti ed esperte delle mailing list, maghi e maghesse del comunicato, partner indispensabili del mio lavoro di giornalista, facilitatrici e facilitatori in questo spettacolare mondo di spettacoli dal vivo.

Senza di voi, questo settore che ha un peccato originale nel mondo dei mercati, non riuscirebbe a cavarsela. Perché – come dice un’amica mia – non c’è ufficio senza stampa.

Pertanto, nella splendida cornice della notte di San Silvestro, quella che precede, la kermesse del Capodanno, auguro a tutte e a tutti, a piccoli e grandi uffici stampa, trecentosessanta giorni migliori di quelli passati.

Che non sarà poi tanto improbabile.