Unwrapping Silvia Gribaudi. La grazia e il corpo libero

Se non lo faccio adesso, davvero finisce che la promessa non la mantengo più. Avevo scritto, qualche mese fa, che sarei tornato a parlare del lavoro di Silvia Gribaudi. Lo faccio ora, alla fine dell’anno, scartando l’ultima grazia che il 2018 concede, prima del botto.

Silvia è la profetessa italiana del corpo libero. Non quello della ginnastica, che è molto legato anzi, alla forza e alla muscolatura. Ma il corpo davvero libero, quello che si è affrancato dagli obblighi e dai doveri a cui le culture lo costringono.

Perché oggi, più che in altre epoche, più che in altre società, il corpo è prigioniero.

Il corpo, un mito d’oggi

Prigioniero di un’idea o – secondo pagine mai tramontate di Roland Barthes – di un mito d’oggi che lo vorrebbe sempre tonico e dinamico, armonioso, proporzionato, e magro. Insomma bello, toccato dalla grazia.

Antonio Canova, Le tre Grazie (copia in gesso conservata a Possagno)

All’opposto di quelli mitici, i corpi veri non sempre sono giovani, tonici, proporzionati, scattanti, flessibili. Quasi mai asciutti. Ma è questa la loro bellezza. Il Vero e il Bello vanno assieme da millenni.

La storia personale di Slivia Gribaudi racconta proprio questa sua scoperta. A dieci anni era la tipica bambina che sognava di fare la ballerina classica. A vent’anni coronava il suo sogno, lavorando con il linguaggio d’école per il Teatro Regio di Torino (la sua città d’origine) e la Fenice di Venezia, e con il contemporaneo per numerose altre compagnie.

Ma il corpo ha le sue vie, e bisogna assecondarne le trasformazioni. Quando, a trent’anni, anche il corpo di Silvia ha cominciato a modificarsi, allontanandosi sempre di più dal mito della ballerina, sono cominciati i guai. Però – come insegna il buddismo – debolezze e limiti possono essere trasformati in punti di forza. Così il suo corpo mitico ha lasciato il posto a un corpo politico.

What age are you acting? / Le età relative

Ho capito che, per restare performer, dovevo far lavorare le parti grasse” dice. “Rido sempre quando penso a queste parti del corpo che, quando cammini hanno una loro danza, a prescindere dal tuo controllo“. In altre parole, un’estetica curvy.

Da quella decisione, maturata nel tempo, sono nati progetti e spettacoli che hanno scavalcato l’anonimato e l’omologazione del corpo classico, per andare a costruire la personalità coreografica di Silvia Gribaudi.

A corpo libero, del 2009, appunto. E soprattutto la coreografia di R.osa – Dieci esercizi per nuovi virtuosismi con Claudia Marsicano (Premio Ubu 2017). Accanto a laboratori con persone over 60, confluiti poi nei progetti pluriennali What age are you acting? / Le età relative e Oggi è il mio giorno e numerosi corsi e esperienze seminariali condotti in Italia e all’estero.

I temi della danza partecipata e della danza di comunità, diffuse, sottratte ai recinti del professionismo, sono sempre più sentiti in ambito coreografico (alcuni nomi soltanto: Virgilio Sieni, Jérôme Bel, Sharon Fridman, Marco Chenevier). Il che non significa che queste declinazioni coreografiche non incrocino la Bellezza.

Tre uomini, il Canova, la grazia

È il pensiero che Silvia Gribaudi sta coltivando oggi e che – con il coinvolgimento di tre danzatori professionisti – guarda a giugno 2019. Il momento in cui a Castiglioncello debutterà ufficialmente Graces: un lavoro che dalla bellezza neoclassica di Antonio Canova prende le mosse. Per indagare come l’idea del Bello, oltre che culturalmente relativa, sia un principio vitale e salubre. Splendore, gioia, prosperità, questo spandono le Tre Grazie, tre punti cardinali fissati tra il 1812 e il 1817 da Canova nel marmo, che Gribaudi libera dagli stereotipi di tempo e di genere, e svela con il balsamo dell’ironia.

residenza per Graces – Gradisca d’Isonzo, dicembre 2018

Tre uomini (Siro Guglielmi, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo) e la stessa Gribaudi stanno lavorando fin dal dicembre 2017 a questa creazione, prodotta da Zebra e vincitrice del progetto CollaborAction XL 2018/19. Un lavoro di ricerca, paziente, che ha li ha visti e li vedrà lavorare a tappe in numerose residenze: al Danstationeen Danscentrum Skånes Dansteater di Malmö in Svezia, ad Armunia a Castiglioncello, alla Fondazione Piemonte dal Vivo, a L’Arboreto di Mondaino, e nelle scorse settimana ad Artefici, progetto residenziale attivato da a.ArtistiAssociati di Gorizia.

È qui – più esattamente nel teatro di una cittadina piccola e accogliente, Gradisca d’Isonzo – che ho intercettato il loro lavoro. Che in questa fase, ancora preparatoria, mette assieme procedimenti di alto virtuosismo, intrecciati al graffio di una dissacrazione piena di grazia.

Come fermare, per un momento almeno, la sfuggente idea di Bello? Come modellarne il simulacro contemporaneo, eternamente fluidificato da pulsazioni di moda e oscillazioni del gusto? Come interrogare la cultura, le culture, per scoprire sotto il velo che le tre divinità sorreggono, il ruolo della natura? Ma sopratutto come far spazio nella nostra vita, oggi, alla Bellezza e alla Grazia?

A chi li considera concetti astratti, sorpassati oggi, bisognerebbe sussurrare all’orecchio che sono indispensabili. E salutari, prima di tutto.

Vanno in scena The Quipps, gli acceleratori di poesia

Venerdì 14 dicembre, Trieste Contemporanea presenta dal vivo giovani autori internazionali alle prese con nuovi formati di poesia. Ore 19.30, Studio Tommaseo di Trieste, via del Monte 2/1. Ingresso gratuito.

Farete fatica a trovare The Quipps su Internet: è un espressione che non esiste ancora. Ma è stata scelta proprio per questo. Per dare un nome a qualcosa di nuovo.

The Quipps è un progetto che ha impegnato Trieste Contemporanea per parecchi mesi. Ma alla fine è nato. E venerdì sera, il 14 dicembre, farà la sua entrata in scena.

The Quipps è poesia contemporanea. E anche qualcosa di più. Seguitemi.

Ritmo e velocità che accelerano la poesia

Cerniera d’arte e di cultura verso il Centro Europa, Trieste Contemporanea è un attivatore di dialoghi che si snodano lungo parecchi fronti. Mancava questo: l’incontro con i poeti di una generazione che, superata la superficie della carta, pensa e fa poesia in una diversa dimensione. Non solo libri, volumi, plaquette, non solo componimenti affidati ai siti internet.

Poesia performata invece, interpretata dal vivo dagli stessi autori. Lavoro di parole, che diventano materiale per azioni d’arte: scolpite con la voce, la lingua, il corpo, suoni e visioni nella performance live degli stessi poeti creatori, scelti con cura per rafforzare il dialogo creativo con i Paesi confinanti. Dall’Austria viene la rapper Yasmo. Dalla Slovenia viene Eva Kodalj, perfomer e regista. Sono invece italiani Marco Gorgoglione e il duo Gabriele Stera + Martina Stella.

Ecco The Quipps, tutti under 30, un giovane gruppo di scultori di parole che Trieste Contemporanea chiama acceleratori di poesia. Perché è con loro che la scrittura acquista una velocità e un ritmo diversi da quelli che siamo abituati a incontrare sulla carta. Una nuova oralità, la presenza fisica dell’autore, la forza dello performance davanti al pubblico.

Le loro esibizioni potrebbero somigliare a quelle dei tanti autori che gareggiano negli slam di poesia, competizioni diffuse di qua e di là dell’Atlantico, e da quasi vent’anni anche in Italia. Ma in quel format, oramai classico, a prevalere è piuttosto il senso della competizione, sono le regole su cui si basa, è il giudizio pop di una giuria scelta tra il pubblico.

The Quipps è altro. Distante dalla gara, vive di poche, forse di una sola regola. Il valore dei performer, selezionati da un esperto, Christian Sinicco, anche lui poeta. “Si tratta di scritture praticate tra il suono – dice – immagini create degli strumenti tecnologici e la voce degli stessi autori: insieme si assumono la responsabilità di innovare il linguaggio”.

The Quipps si accorda con gli intenti del concorso Squeeze It, un’altra iniziativa di Trieste Contemporanea, rivolta a giovani under 30, che abbiano interessi nei media e nei linguaggi della contemporaneità (ne parlavo in un precedente articolo). Entrambi i progetti culminano in questi giorni di dicembre: venerdì 14 (ore 19.30) con la prima edizione di The Quipps e il giorno successivo (ore 19.30) con la finale del concorso biennale Squeeze It – Premio Franco Jesurun, giunto invece alla terza edizione.

Tocca a Christian Sinicco, ora, presentare gli autori che ha selezionato. Sentiamolo.

MARCO GORGOGLIONE
Ultima Aestate

La performance, intitolata “alla fine dell’estate”, è un’elaborazione del lutto, del trauma della separazione e della perdita. È un percorso che esplora il senso delle cose che passano, come la fine, il senso di vuoto, l’assenza. È un dialogo con chi non c’è più e allo stesso tempo con se stessi, voci diverse e distanti che riaffiorano e diventano compresenti, per recuperare quello che è perso e quello che resta.

Marco Gorgoglione nasce nel 1995 in Basilicata. Vive a Pisa dove studia Lettere moderne. Nel 2017 fonda gli Yawpisti, movimento che si occupa della diffusione di poesia contemporanea sul territorio toscano e italiano. Nel 2018 è a Genova tra i finalisti nazionali di poetry slam. Ha collaborato con poeti e festival italiani e internazionali come il Pisa Book Festival.

EVA KOKALJ
Svet pripada hrabrim (Il mondo è di chi ha coraggio)

Nei suoi gesti di poesia, il soggetto viene sempre per primo. Quando la poetessa tocca il proprio mondo interiore, cerca un porto dei sogni che è stato demolito. Esplora il suo modello per la transizione del mondo esterno nell’esistenza umana e descrive la caduta e il rialzarsi, l’amarezza e la solitudine, il proprio scorrere dall’interno verso il mondo e viceversa – il mondo che entra. Esplora l’amara ma coraggiosa verità di chi siamo, qual è lo scopo, qual è il nostro silenzio, quando il silenzio diventa assenza di parole. Come parlare di qualcosa in quel silenzio? La risposta è: parla dell’amore.

Eva Kokalj (1989) è una poetessa slovena, performer e regista teatrale. Spesso mette la propria poesia in musica e / o video. Si è esibita anche come cantautrice, esibendosi finora per tre volte. Inoltre ha scritto e diretto due spettacoli che sono stati presentati a Glej, a Lubiana e, nella sua città natale, Celje. Ha partecipato alla finale del Poetry Slam Nazionale Sloveno due volte.

YASMIN HAFEDH (YASMO)
What more can I say?!(Cos’altro posso dire?!)

Hafedh cercherà di tracciare il ponte tra la poesia della parola e il rap. Il femminismo arriva sempre quando si esibisce, anche i grandi anti: antifascismo, antirazzismo, antisessismo. Per il rispetto e la pace, parola per parola, e il tutto per dire qualcosa.

Yasmin Hafedh (1990) vive a Vienna, dove ha frequentato i palcoscenici dall’età di 15 anni e ha cominciato a lavorare come poeta. Ha iniziato a frequentare gli slam di poesia a Vienna (dal 2007), mentre andava a scuola. A quel tempo, è diventata redattrice della rivista Literaturzeitschrift & Radieschen e membro della 1MM Freestyle Session, una sessione di freestyle bisettimanale. Nel 2009 è stata la prima donna nella finale dell’Ö-Slam (Austrian Poetry Slam Championship), che ha vinto poi nel 2013. Hafedh è uno dei più noti slampoets austriaci.

GABRIELE STERA e MARTINA STELLA
Dorso Mondo

È una performance di poesia, musica elettronica e video-arte, estratta da un libro-disco di prossima uscita per l’editore Squi(libri). Nel paesaggio di geometrie astratte prodotto dalle proiezioni video di Martina Stella, Gabriele Stera unisce il ronzio dei campi elettromagnetici presenti in sala e le parole per raccontare un’insonnia, un viaggio interspaziale, un naufragio, una giornata.

Gabriele Stera (Trieste, 1993), poeta e artista sonoro e Martina Stella (Trieste, 1992), artista visiva, vivono a Parigi dove studiano rispettivamente Estetica e Fotografia e arte contemporanea. Il loro primo lavoro collettivo, Dorso Mondo, unisce poesia, musica, illustrazione e performance multimediale, e sarà edito da Squi(libri) nel 2019.

Lik sveikas, Nekrošius. Addio al maestro dagli occhi di neve

È ormai sera quando scrivo questo post, mentre fin dal mattino la notizia della morte di Eimuntas Nekrošius è volata veloce sulle ali dell’informazione globale. 

Oggi, 21 novembre, il più importante regista lituano vivente, avrebbe compiuto 66 anni. È morto invece d’infarto nella notte di ieri, lasciando in chi ha visto anche soltanto alcuni dei suoi spettacoli una scia di immagini che è impossibile dimenticare.

Lik sveikas in lituano significa addio, e a me pare del tutto inutile, a quest’ora, ripercorrere i quarant’anni esatti del suo rapporto con il teatro. Lo hanno fatto oggi, anche assai bene, molti dei miei colleghi mettendo in fila i trenta spettacoli che in una sola arcata disegnano, adesso, per noi, il suo definitivo ritratto d’artista.

Meglio mettere a fuoco qui solo tre immagini: quelle sbalzate nette dalla memoria, appena mi è giunta, di primo mattino, la notizia.

Fotografia di famiglia

Aprile 1989. Il muro più famoso d’Europa deve ancora cadere, ma la glasnost’ gorbaceviana ha cominciato già a sciogliere il piccolo paese baltico dalla rigida tutela sovietica (accadrà nel marzo ’90, e solo nel ’91 l’indipendenza lituana verrà riconosciuta). Sul palcoscenico di Parma Teatro Festival, in quell’aprile di trasformazioni, attori in silenzio attendono emozionati il lampo di un vecchio apparecchio fotografico.

È la scena della fotografia di famiglia di Zio Vanja, la prima regia di Nekrošius che assieme a Pirosmani Pirosmani, arriva in Italia. Il groppo dell’emozione coglie invece noi spettatori, quando dalle bocche dei servi accosciati a terra si solleva il Va’ pensiero verdiano. E di lato si srotola d’improvviso la bandiera nazionale lituana. Giallo, verde e rosso è il pensiero di quella patria «sì bella e perduta» che solo un anno dopo i lituani avrebbero ritrovato.

Tenere le distanze

Agosto 2000. Fa caldo fuori, nella pianura friulana, ma l’antica casa contadina che ospita Nekrošius garantisce il clima che meglio si adatta al maestro, che ha occhi chiari, di neve, se non di ghiaccio. Occhi diamante in cui sembra riflettersi un’anima baltica: taciturna, introversa. Nekrošius è qui come maestro per una sessione dell’Ecole des Maitres, il corso di alta specializzazione per attori, ideato da Franco Quadri e organizzato dal CSS di Udine. Da due settimane lavora con una ventina di giovani attori. Con loro prova Il Gabbiano.

Un po’ discosto, quasi nascosto, riesco a seguire qualche prova. Non ho mai visto un regista di così poche parole. In due, un pomeriggio, otteniamo di intervistarlo, ma è un’intervista per modo di dire: risponde con un sì o con un no a domande che durano ore. Azzardo un mezzo punto interrogativo su una sua futura regia lirica, forse il Macbeth di Verdi . “La musica mi piace molto, la amo. Ma su questo progetto non vorrei dire niente. Sono certo stato incauto nel confessarlo a qualcuno. E’ anche per questo che tengo le distanze, soprattutto coi giornalisti“. Capisco l’uomo e la sua lezione.

Una scena da Il Gabbiano, regia di Eimuntas Nekrošius, 2000

Nella fortezza dell’arte

Maggio 2018. La delegazione italiana che è arrivata a Vilnius in occasione del centenario della prima dichiarazione di indipendenza lituana (quella dall’Impero russo, nel 1918) è rumorosa e allegra. Scherziamo sui nomi dei piatti che abbiamo appena mangiato. Arrivati però davanti alla porta di legno con la scritta Meno Fortas ci zittiamo tutti. Meno Fortas (La fortezza dell’arte) è il nome della compagnia con cui Nekrošius lavora da decenni. Quasi in punta di piedi saliamo le scale. Sembra una cerimonia quella che ci conduce davanti al piccolo palcoscenico, dove immaginiamo sia nata la  maggior parte dei suoi spettacoli.

C’è tanto legno, ma il regista non c’è. Ad accoglierci, a parlare con noi, a mostrarci i video delle più recenti produzioni di Meno Fortas, è un suo collaboratore. Di colpo, ricordo una frase dell’intervista di diciotto anni fa. “Dei miei lavori preferisco non parlare mai”. Ricordo anche il volto severo: un’espressione di ritrosia che allora mi  sembrò un broncio e ora interpreto come un velo di solitudine. Vado a cercare su Google una traccia di quella intervista: “No, non mi sento vicino a nessuno degli artisti che solitamente si citano quando si parla di teatro, o di arte. Mi fido solo della mia opinione e del mio punto di vista. Del mio sguardo sul mondo. Non cerco la vicinanza di nessuno“.

Lik sveikas, addio, Eimuntas.

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Su questo stesso blog, nello scorso aprile e poi a maggio, due post in cui si parla di Lituania e di uno spettacolo di Nekrošius, Il digiunatore.


Quel che appare sulla scena slovena, oggi

Il finto contadinotto, che ci fa da guida, dice di essere discendente da una storica famiglia di Maribor, i Celigij, fondatori del più antico birrificio locale.

Lassù, nei distretti settentrionali della Slovenia, il luppolo è una delle coltivazioni predominanti e questa passeggiata culturale – organizzata dall’Azienda regionale del Turismo – si rivela alla fine una gustosa scorribanda tra storia della birra, birrerie, bottiglie, boccali.

Però, la ragione che mi ha portato a Maribor – città che vanta pure, chiuso in una preziosa ampolla, il vino più antico del mondo – è assai meno alcolica.

Concorrenti e concorrenza

Da parecchi decenni il festival di teatro di Maribor – Festival Borštnikovo srečanje – è uno dei punti di riferimento della scena slovena, poiché mette in concorso, e in concorrenza, i più importanti teatri nazionali. Proprio come succede in Germania, ai Theatertreffen berlinesi. In anni recenti la manifestazione di Maribor ha però cambiato stile. Messe da parte le formule più ufficiali, si è aperta a spettacoli, iniziative, incontri più orientati all’innovazione (lo raccontavo in un precedente post).

Lo stesso manifesto del festival, con quel volto leggibile da due punti di vista diversi, racconta la trasformazione: il convivere di spettacoli di tradizione (con prevalenza, molto novecentesca, di drammaturgia e qualità interpretative degli attori) accanto a esperienze più contemporanee (centrate sui linguaggi del corpo, a volte intrise dal gusto della provocazione: tentazione spiccata, ma arma oramai spuntata).

Tradizione e innovazione

Provo a spiegarmi meglio, grazie a due spettacoli che ho osservato con più attenzione. Da una parte Il muro, il lago (produzione del Teatro nazionale Drama di Ljubljana). Un tipico testo con i sapori del secondo ‘900, centrato su dinamiche di coppia e sulla diversa versione che un uomo e sua moglie possono dare dello stesso evento. Squilibrato lui, attrice lei, vivono nello stesso appartamento, separati da una parete. Non siamo tra gente normale, sembra dirci l’autore, Dušan Jovanović, classe 1939. E quindi ci sta, quella punta di assurdo, o meglio quel vago mistero pinteriano, che rende meno banale la storia di una coppia banalmente male assortita.

Muro, lago – ph. Peter Uhan

Sull’altro versante, c’è uno spettacolo senza parole e senza una storia da poter riassumere, in quanto mette in fila una successione di eventi, i più disparati, ciascuno risolto in una caduta. Dalle mani dei performer cominciano a cadere fogli di giornale, poi è la volta delle cornici di alcuni quadri, poi una sedia, un ferro da stiro… Il titolo – 365 cadute – è un contatore che va ritroso.  E man mano che il numero dei crolli previsti diminuisce, si innalza il loro valore metaforico. Cadono le speranze. Crolla la fiducia negli amici. Cadono i veli del pudore.

Via Negativa – ph: Marcandrea

I componenti di Via Negativa, formazione tra le più avanzate della scena slovena, amano mostrarsi spesso in mutande, meglio ancora, senza niente addosso. Ma i brividi che fino a qualche decennio fa immaginavamo scorrere lungo la schiena di un pubblico cresciuto nella “socialista e cattolicissima” Slovenia, hanno lasciato il passo – oggi, che anche qua va forte la managerialità – a un segno calligrafico, che fa parte della storia di Via Negativa.

Un teatro autoriale

Tra i poli un po’ sorpassati di tradizione e sperimentazione, la direzione più appropriata, oggi, forse sarebbe quella di mettersi sulle piste, già ben battute in Italia e altrove, di un teatro autoriale. Così come questa formula è intesa adesso e ancora ben rappresentata da una generazione cinquantenne che trova in Emma Dante, Romeo Castellucci, Antonio Latella, i campioni della post-regia, o da Pippo Delbono, che fa spettacolo di sé e della propria straordinarietà. Delbono era infatti ospite di riguardo, in questa edizione 2018 del festival, con due spettacoli (Vangelo e La gioia) .

La gioia – ph. Luca Dal Pia

L’ostacolo, per una nazione geograficamente e linguisticamente non molto estesa, com’è la Slovenia, sta nel fatto che la maggior parte delle forze teatrali – registi e attori – provengono tutti dalla stessa accademia, l’AGRFT di Ljubljana, che con la sua didattica, i suoi docenti, e in definitiva il suo stile, ha sostanzialmente uniformato i modi del fare teatro.

Quando il corpo conta

Penso che alternative verso le quali orientare lo sguardo, ci siano. Una, personalmente, l’avrei trovata.  È nella figura, davvero insolita, fuori dal tracciato, di Marko Mandić, attore 44enne dall’intenso, se non straripante, carisma corporeo. Uno che ha già interpretato i più importanti protagonisti del teatro classico e shakespeariano, e li ha trasformati tutti in qualcosa di radicalmente personale. Uno che vanta una filmografia e una teatrografia lunghissime, ma continua a impegnarsi in sfide e si dedica a imprese che hanno qualcosa di titanico.

Come le sei ore ininterrotte di un duello fisico di scena, intrapreso con Leja Jurišić (entrambi performer e coautori di Skupaj, forse l’appuntamento più interessante di questa edizione del festival).

Skupaj – ph. Matija Lukić

O come si vede in un altro suo spettacolo Viva Mandić e nei due film autobiografici che lo accompagnano. Con le interpretazioni di una carriera, e opportuni sacchi di nylon, l’attore distilla l’essenza del teatro. Che non è un modo di dire, ma un bel bicchiere di sudore, che via via si riempie in un’ora di performance, dando un significato liquido e credibile a quell’espressione – a volte invece astratta e consumata – che è il lavoro dell’attore.

Viva Mandić
Viva Mandić

Ecco infine l’elenco dei premi assegnati dalla giuria.

La pagina Facebook del Festival, con i video, giorno per giorno.

A Maribor, il miglior teatro sloveno contemporaneo

Si è avviata oggi in Slovenia, la 53esima edizione del Maribor Theatre Festival (Festival Borštnikovo Srečanje), il più importante appuntamento della scena slovena contemporanea.

In oltre cinquant’anni di vita la manifestazione – con i suoi  Premi Borštnik, che vengono assegnati agli spettacoli migliori – è diventata lo show-case delle produzioni annuali di quel Paese.

Ma soprattutto nel decennio scorso, il Festival si è trasformato: ha acquisito un ruolo internazionale, ha stretto nuovi rapporti, ha arricchito e diversificato il cartellone, che non si limita solo agli spettacoli nazionali. Diretta da Aleš Novak, questa edizione 2018 comprende anche produzioni invitate dall’estero, workshop e attività di formazione e di sviluppo del pubblico, con una particolare attenzione per gli studenti – Maribor ospita una affollata Università – che potranno partecipare a convegni, tavole rotonde, eventi professionali realizzati in collaborazione tra partner sloveni e stranieri. O portare in scena gli allestimenti realizzati nei numerosi corsi di teatro .

Non manca, come è oramai indispensabile, un percorso di valorizzazione turistica e eno-gastronomica per accreditare Maribor, seconda città dopo Lubiana, capitale della Stira slovena e capitale europea della Cultura nel 2012, al ruolo di Città degli Eventi.

Tra i quali appunto questo Festival, già dedicato a Ignacij Borštnik (1858 – 1919), la figura che più ha contribuito allo sviluppo della scena nazionale tra ‘800 e ‘900. Di lui conserva memoria il Premio più ambito: l’Anello Borštnik, che va alla carriera teatrale.

Ma superato di un balzo il secolo che ci separa da allora, il Maribor Theatre Festival rappresenta un’occasione di confronto internazionale oggi. In diverse lingue, inglese, tedesco, italiano, oltre che sloveno, qui si misura anche il clima teatrale europeo.

Se l’anello di Borštnik andrà quest’anno a un attore del Teatro nazionale Drama di Lubiana, Janez Škof,  il cartellone squaderna spettacoli che arricchiranno lo spazio teatrale internazionale nei prossimi giorni.

 Pippo Delbono, La gioia

Va ricordata ad esempio la presenza italiana di Pippo Delbono (con due titoli: Vangelo e la più recente creazione, La gioia), o quella sempre spiazzante del gruppo Via Negativa che assieme al Freies Theater di Duesseldorf presenta 365fall

Via Negativa, 365fall (ph. Marcandrea)

Parecchie produzioni slovene concorrono invece all’assegnazione dei Premi Borštnik. Si va da Odilo.Oscuration.Oratorio (diretto da Dragan Živadinov, per il Mladinsko Gledališče) un colpi di teatro sulla spietata carriera nazi di Odilo Globočnik a The Wall, The Lake (del Drama di Lubiana). Dalle sei ore da passare (a piacere) con Leja Jurišić e Marko Mandičin Together, al classico Ivan Cankar di Scandalo nella valle di San Floriano (regia di Eduard Miler), fino a Our Class che mette insieme la cordata formata dai teatri di Ptuj, Kranj e dal MiniTeater di Lubiana. Ma non dovrebbero mancare altre sorprese durante la premiazione finale.

Together (ph. Matija Lukić)

Premiazione he si svolgerà il 28 ottobre, data in cui il festival si conclude. Il programma completo si può leggere sul sito ufficiale, da dove è anche possibile scaricare il catalogo pdf.

Marionette e salute. Check-up per i Piccoli di Podrecca

Anche le teste di legno parlano. Se poi, come marionette, hanno avuto la fortuna di far parte di quella grande famiglia che Vittorio Podrecca aveva fondato e chiamato “I Piccoli”, tanto più importante è la loro voce. O meglio, quella dei loro marionettisti.

I Piccoli (ph. Eugenio Spagnol)

Fenomeno tra i più clamorosi dello spettacolo italiano di cento anni fa, I Piccoli di Podrecca ne avrebbero di storie e di racconti. “A rappresentare l’Italia nel mondo erano, in quel periodo, Arturo Toscanini e i Piccoli – spiega Alfonso Cipolla, uno dei massimi esperti di teatro di figura – in altre parole: l’opera lirica rappresentata tradizionalmente, e la bellezza della modernità che Podrecca vi aggiungeva”.

Un’infinita storia di bauli

Dagli anni ’10 (la compagnia venne fondata a Roma, nel 1914) la storia delle marionette Podrecca è anche una storia infinita di bauli che hanno fatto più volte il giro del mondo. “Quando partivano, era un treno che partiva… una compagnia di 40 persone, tra marionettisti e orchestrali fissi, tecnici e macchinisti, più un’enorme quantità di materiale” ricorda ancora Faustina Braga, marionettista quasi 90enne, restituendo i vividi ricordi di quei viaggi e le decine di casse, all’imbarco nelle stive dei transatlantici che a cominciare dagli anni ’30 trasportarono anche oltre oceano l’arte canora e gestuale di quegli straordinari pupazzi.

Marionettisti sul ponte e marionette dello spettacolo Varietà

Pupazzi che per decenni, dopo lo scioglimento della compagnia, hanno dormito là, dentro i loro bauli. E che adesso, tutti assieme, possono tornare a mostrarsi.

Si è infatti concluso il progetto di inventario, catalogazione (e in parte di restauro), avviato su bando del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che ha visto in prima fila il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia (dal 1979 proprietario di quelle marionette) e la Cooperativa Cassiopea, che da decenni si dedica al restauro e alla manutenzione viva di questo patrimonio d’arte. (Leggi quanto scrivevo tre anni fa sullo spettacolo Una meravigliosa invenzione).

Alla Centrale Idrodinamica del Porto Vecchio di Trieste, giovedì 11 ottobre, è stata perciò annunciata la conclusione del lavoro di inventario e catalogazione. Alle quale hanno partecipato, oltre al personale dello Stabile Fvg, anche Barbara Della Polla e Ennio Guerrato della Cooperativa Cassiopea, e una ventina di studenti liceali che hanno incluso questa attività nei progetti di alternanza scuola – lavoro (in particolare i ragazzi della IV H, del Liceo Petrarca, coordinati da Patrizia Picamus).

Una carta d’identità per le marionette

Si è trattato di aprire bauli che non venivano aperti da decenni, più di 50, riportare alla luce quelle antiche marionette (alcune risalgono agli anni ’20), valutarne lo stato …di salute, e infine  attribuire loro un’identità, provando a capire a che spettacolo della Compagnia Podrecca appartenessero.

Varietà, i toreri (ph. Roberto Canziani)

Dunque un check-up in piena regola, finalizzato alla compilazione di una carta d’identità marionettesca per ciascuno degli oltre 500 pezzi di cui si compone la collezione. (Altri pezzi appartengono invece alla collezione di Maria Signorelli, ospiti del Centro Internazionale Podrecca -Signorelli, inaugurato nel 2016 a Cividale Del Friuli, città d’origine dei Podrecca).

Dai bauli sono scaturite sorprese. “È stato un lavoro meticoloso – spiega Barbara Della Polla – perché già in passato erano stati avviati alcuni inventari, mai completi però. Ora quei contenitori hanno svelato i loro segreti, e in qualche caso ci hanno entusiasmato”.

Varietà, i mariachi (ph. Roberto Canziani)

Nel dare respiro alle antiche teste di legno, oltre a immancabili segni del tempo (e a tarli e tarme), gli specialisti e gli studenti hanno trovato pezzi di altissimo artigianato. Ad esempio: la marionetta della Scimmia fumatrice, che grazie a un ingegnoso sistema di fili e tubicini permetteva al pupazzo i tipici movimenti scimmieschi. Ma anche di godersi davanti al pubblico una fumigante sigaretta (a fumare e a soffiare nei tubi, dall’alto del ponte di manovra, era ovviamente il marionettista).

Inedito e di gran bella fattura (“quasi un’opera scultorea”) il Formichiere, appartenuto a chissà quale spettacolo. Bella e ben conservata anche la marionetta “tropicale” di Carmen Miranda, regina delle lunghe tournée mondiali dei Piccoli.

Varietà, Carmen Miranda (ph. Roberto Canziani)

“Dopo aver allestito opere musicali in tutta Europa – spiega Della Polla – i Podrecca capirono di dover varcare l’oceano e si misero in viaggio per Nord e Sudamerica. Ma dall’altra parte dei mari i gusti del pubblico erano differenti. Ecco allora l’idea di concentrarsi sulle meraviglie visive di uno spettacolo intitolato Varietà in cui confluivano i più disparati generi musicali e i più incredibili virtuosismi tecnici”.

Varietà diventa un’attrazione  mondiale

Con quel carosello di numeri, Varietà e i suoi pupazzi divennero un’attrazione mondiale – ciò che appunto ricordava Cipolla. Esemplare in questo senso la storia di una marionetta in abito di Arlecchino, diventata famosa negli Stati Uniti, come “presentatore” di show serali.

Varietà, il coro jazz (ph. Roberto Canziani)

La scoperta più curiosa è quella di un pezzo risalente forse agli anni ’20. Catalogato come “giovane giullare”, il corpo della marionetta è privo della testa, ma alle estremità spuntano incomprensibili zampe d’uccello. “È stata una bella sorpresa ritrovare, però in un altro baule, una testa di pappagallo che combacia perfettamente con quel corpo. Una figura antropomorfa, con caratteri animali” segnala infine Della Polla.

Dai pezzi storici, il catalogo della collezione si estende a creazioni più recenti. Sono inventariate anche le marionette che registi come Francesco Macedonio, Furio Bordon, Roberto Piaggio, Giulio Ciabatti hanno fatto costruire ex novo per i loro spettacoli: Flauti Magici, Belle Addormentate, o le favole di Carlo Goldoni e Carlo Gozzi. Che sono andati a comporre, a cominciare dagli anni ’80, il nuovo teatro di figura in Fvg, eredità della tradizione “mondiale” dei gloriosi marionettisti Podrecca.

L’Arcadia in Brenta, di Goldoni e Galuppi, regia Francesco Macedonio, 1985

Una versione ridotta di questo post è appara sull’edizione cartacea del quotidiano IL PICCOLO, venerdì 12 ottobre 2018.

A Prato, Contemporanea 18. Ma io direi futura

A Prato, torno sempre volentieri. Qualcuno sostiene che lo faccio per i biscotti, che in effetti sono un motivo forte di attrazione. Un pacco da un chilo di mattonelle del biscottificio Mattei, a casa mia, si vaporizza in mezza giornata. Sostengono altresì che lo faccio per un ristorante di tradizione, Soldano vicino a piazza del Duomo, un posto da cui esci sempre soddisfatto.

La verità sta da un’altra parte. A Prato, in autunno, ci vado per Contemporanea.

La scena futura

Contemporanea, a cui sovraintende Edoardo Donatini, è una delle iniziative che costellano le attività del toscano Teatro Metastasio, ed è un festival della scena teatrale appunto contemporanea. Che come i biscotti e i menu succulenti esercita un fortissimo potere di attrazione.

Fosse per me, più che Contemporanea, lo chiamerei Futura. Frequentandolo in questi anni, mi è sempre capitato di scoprire – e tra i primi – artisti che due o dieci stagioni dopo sarebbero diventati di dominio pubblico. Nomi allora quasi sconosciuti in Italia, con un futuro poi da star delle premiazioni.

Metti Rodrigo Garcia, del quale avevo visto qui, anni fa, lo “scandaloso” Matar para comer (e il suo controverso astice “torturato”). Metti Rimini Protokoll, o Anagoor: un decennio dopo, Leoni alla Biennale.

Nelle sale a disco volante del Centro per l’arte contemporanea Pecci, nello storico spazio neutro del Fabbricone, o nelle stanzette dell’Istituto Magnolfi, ritorno perciò volentieri, con la certezza che magari una soltanto delle creazioni che vedo, la locandina nella quale non riconosco alcun nome, avrà un futuro radioso, del quale riparlare e scrivere tra qualche anno.

Questa volta sono riuscito a seguire Contemporanea solo nei giorni finali. Accanto a un incontro-seminario intitolato Il ruolo culturale dei festival (di cui si possono immaginare portata e estensione degli interventi, oltre che degli intervenuti), il cartellone in quei giorni ha messo in fila soprattutto episodi di danza.

Holistic Strata, Hiroaki Umeda, ph. de_buurman

Gira la testa e via

Ho visto Holistic Strata del giapponese Hiroaki Umeda, gli short italiani di Barbara Berti, Claudia Caldarano, Siro Guglielmi, i lavori di Davide Valrosso e Silvia Gribaudi. Perlopiù formati corti, come piacciono a me, occasioni da arraffare al volo, venti minuti di visione intensa. Poi, come accadeva nelle sale del Pecci, si ruota la testa di 180 gradi e via: un altro titolo e un altro creatore.

Siro Guglielmi, Pink Elephant, ph. Roberto Cinconze

Posso dirlo. Non sempre ne sono uscito soddisfatto. Non è sbagliato il formato, anzi. In venti minuti, un buon coreografo, una danzatrice eccellente, possono davvero tenere alta l’attenzione, che in creazioni più lunghe – i canonici 50 o 60 minuti – magari si allenta. Qui, in alcuni episodi, si leggeva il lavoro sviluppato dal coreografo. Ma veniva a mancare poi, per lo spettatore, la soddisfazione di trovarsi davanti a un risultato. Mentre il tempo passava – testimoniando esercizi, ricerche, tentativi onesti – mancava alla fine il piacere dell’opera finita, per quanto short.

Così la ricerca di Caldarano (che si faceva leggere solo di spalle, con una maschera indossata sulla nuca, e gli arti curiosamente rovesciati “all’indietro”) non mi è sembrata andare oltre la dimostrazione di un’idea (Sul vedere). Né le capacità fisiche di Siro Guglielmi e il suo sgargiante mutandone da mare (Pink Elephant) hanno saputo lasciare in me un segno di memoria più forte. Davide Valrosso giocava sulla propria nudità tutte le carte (Biografia di un corpo), e maneggiava pile e lumini per mostrarla o per schermarla, ma il senso di estenuazione era predominante.

Sempre al Pecci, Silvia Gribaudi ha presentato un estratto da uno dei suoi titoli già noti, What age are you acting? L’ha intitolato, Primavera Contemporanea, un po’ pensando al Festival, un po’ perché la primavera, nel segno quasi di Botticelli, è nelle corde e nei tendini di questa coreografa, di cui preferirò però parlare tra alcune settimane in un post più ampio.

Silvia Gribaudi, Primavera contemporanea

I piumaggi di un emisfero esotico

Alla fine la mia soddisfazione l’ho trovata. Stava nell’ultimo degli spettacoli del programma: 45 minuti di teatro fisico, di colore e riflessi smaglianti, di crescendo sonoro, che porterò abbastanza a lungo nella memoria. Combattimento, ideato dalla regista Claudia Sorace per Muta Imago, mette di fronte due donne. Ma io c’ho visto due creature animali, due esseri mossi da una biologia antica, che li spinge attraverso il rituale bellico del corteggiamento, a trovare un’unione, un patto finale.

Dal gym gear delle palestre – braghetta e vogatore nero – la scena si colora via via di piumaggi, stringhe, creste e code fantastiche, armature da uccello e attrezzi da sciamano, che raccontano combattimenti in un emisfero meridionale e esotico. Un fisico poderoso, sul filo del body building, per Sara Leghissa. Linee più morbide e caparbietà per Annamaria Ajmone. Sono due nomi che i bene informati della danza già conoscono, ma che trovano qui, sotto l’egida di una regista teatrale, e una colonna sonora che trascina, il modo per rievocare iconografie e letterature enciclopediche. Da Tancredi e Clorinda a Pentesilea e Achille. Su cui domina l’immaginario western dei combattimenti al tramonto di Ennio Morricone, l’impetuoso sound del duello.

Combattimento, Muta Imago, ph. Claudia Pajewski

COMBATTIMENTO
regia Claudia Sorace, con Annamaria Ajmone, Sara Leghissa
drammaturgia e suono Riccardo Fazi, costumi Fiamma Benvignati
produzione Muta Imago

Squeeze It in Trieste. An international contest squeezes creative people out into the open

An international call is touring Europe. Its name is Squeeze It and it calls young European artists under 30 years old: those who create and give shape to contemporary ideas at the crossroads of visual arts, theatre and communication technologies.

   

The launcher of Squeeze It (for a new international edition, the third one) is Trieste Contemporanea, a think-tank based at the eastern margin of Italy, but working on the horizon of Europe for decades. The deadline for submitting applications is November 12th.

    

Conceived in 2014 as a sustainable, low cost, small size project, Squeeze It features its title as a motto. If a lack of resources prevents young people from emerging, Squeeze It’s recommendation is to move on by developing new formats and skills: i.e. squeezing them.

Fluidity as a relationship between the arts

The biennial contest is aimed at a new generation of international artists and encourages future professionals to create new projects characterized by “the dynamic meeting between the new creativity of the Theatre, the languages of the Visual Arts and Information Technology integrated into the New Media”. A contemporary focus for the arts, that increasingly leans toward fluidity in performance, dance, poetry, sound engineering and video mapping, interweaving stimuli and mutually reinforcing signals.

Previous editions were promising. In 2014 and 2016 Squeeze It winners were a Croatian team (Komična Hunta) and a performer from Belgium (Bastien Poncelet). Both under 30, of course.

Dedicated to that activist of culture Franco Jesurun, in the past two editions Squeeze It has defined its peculiar profile. The basic proposal, aimed at young European creatives, is to build a low budget live project in small format, which lasts no more than 16 minutes and can be placed in a space of 4m x 4m x 4m. The competition does not involve registration fees, but the sending of a video clip which is an abstract of the project (maximum duration 4 mins.).

Side by side with video-makers

The goal is also a sustainable and low-cost award. In addition to a few days’ workshop in Trieste with professionals of the individual sectors, Squeeze It’s prize consists of a collaboration with a video-maker and international director.

Alongside the winner (or winners), this director will be in charge of creating an artistic video product of professional quality and impact. In the first edition the award consisted of the days that Komična Hunta spent side by side with the Italian-Albanian artist Adrian Paci. For the second edition, the director assigned to Poncelet was the Croatian Dalibor Martinis (www.dalibormartinis.com). The 2018 edition foresees as the ‘prize’ the Polish Mirosław Bałka (www.miroslaw-balka.com), who will conduct the videoproduction workshop.

Workshop 2014 with Adrian Paci
Workshop 2016 with Dalibor Martinis

The final stages of the 2018 edition will take place in Trieste, in the second week of December. Final evening with the proclamation of the winner will be Saturday December 15th, at Studio Tommaseo, where Trieste Contemporanea is based.

The call, in Italian and English, can be viewed at this address. 

The Squeeze It site also features a gallery with videos sent by all the finalists : an excellent atlas on which one can draw today a route for young European creativity.

Squeeze It. Il concorso che spreme i giovani creativi


Un bando sta facendo il giro dell’Europa. Si intitola Squeeze It e chiama a concorso gli artisti under 30 del continente. Quelli che creano e danno forma a idee contemporanee situate sul crocevia di arti visive, teatro e nuove tecnologie di comunicazione.

A lanciare Squeeze It, per una nuova edizione internazionale – la terza – è Trieste Contemporanea, think tank che ha sede all’estremità orientale dell’Italia, ma da decenni lavora sull’orizzonte d’Europa. La scadenza per la presentazione delle candidature è il 12 novembre 2018.

   

Nato nel 2014 come progetto sostenibile, a basso costo e di piccole dimensioni (low cost & small format contest), Squeeze It prende le mosse dal verbo inglese che significa spremere. Ma diventa in questo caso un motto: se la mancanza di risorse impedisce ai giovani una agile emersione, l’indicazione è di muoversi elaborando formati e competenze nuove. Spremile! raccomanda il titolo.

Fluidità come rapporto tra le arti

Il concorso biennale si rivolge a questa nuova generazioni di artisti internazionali e incentiva i futuri professionisti a realizzare progetti inediti che si caratterizzino per “l’incontro dinamico tra la nuova creatività del Teatro, i linguaggi delle Arti Visive e l’Information Technology integrata nei Nuovi Media”. Un territorio oramai centrale per le arti che sempre di più tendono alla fluidità dei linguaggi – performance, danza, poesia, sound engineering e video mapping – nell’intreccio degli stimoli e dei segnali che si amplificano reciprocamente.

Promettenti sono già state le edizioni che hanno messo in luce – nel 2014 e nel 2016 – un collettivo croato (Komična Hunta) e un performer proveniente dal Belgio (Bastien Poncelet). Naturalmente under 30.

Dedicato a quell’attivatore di culture che è stato Franco Jesurun, già nelle due edizioni passate Squeeze It ha definito il suo profilo originale. La proposta di base, rivolta ai giovani creativi europei, è di ideare un progetto dal vivo, low budget e in formato small, che duri non più di 16 minuti e possa trovare posto in uno spazio di 4m x 4m x 4m. Il concorso non comporta spese di iscrizione, ma l’invio di un videoclip di presentazione del progetto (durata massima 4′).

Fianco a fianco con i video-maker

Sostenibile e a basso costo è anche il traguardo della vittoria.  Oltre a un workshop di alcuni giorni a Trieste con professionisti dei singoli settori, Squeeze It mette in palio ogni due anni la collaborazione con un video-maker e regista internazionale a fianco del quale il vincitore o i vincitori elaboreranno un prodotto video artistico di impatto e qualità professionale. Nella prima edizione il premio consisteva nelle giornate che Komična Hunta ha trascorso fianco a fianco con l’artista italo-albanese Adrian Paci. Per la seconda, il premio assegnato a Poncelet, ovvero il regista, è stato il croato Dalibor Martinis (www.dalibormartinis.com). L’edizione 2018 prevede che a condurre il workshop di videoproduzione sia il polacco Mirosław Bałka (miroslaw-balka.com).

Workshop 2014 con Adrian Paci
Workshop 2016 con Dalibor Martinis

Le fasi conclusive dell’edizione 2018 si svolgeranno a Trieste, nella seconda settimana di dicembre. La serata finale con proclamazione del vincitore, sabato 15 dicembre, allo Studio Tommaseo, dove ha sede Trieste Contemporanea.

   

Il bando, in lingua italiana e in lingua inglese si trova a questo indirizzo.

Nel sito di Squeeze It esiste anche una galleria con i video di presentazione inviati da tutti i finalisti. Ottimo atlante sul quale disegnare oggi una rotta per la giovane creatività europea.

Kleine Berlin, la zona. Nel cuore di tenebra di Tarkovskij

Fino al 9 settembre, nei tunnel sotterranei della Kleine Berlin, a Trieste, uno spettacolo permette al pubblico di rivivere gli stati d’animo del film Stalker, capolavoro del regista russo. È l’ultimo appuntamento del festival Approdi.

“La Zona è un sistema molto complesso di trabocchetti, che sono tutti mortali. Non so cosa succeda qui in assenza dell’uomo, ma non appena arriva qualcuno, tutto, tutto si comincia a muovere… le vecchie trappole scompaiono, ne appaiono di nuove… posti prima sicuri, diventano impraticabili. Il cammino si fa ora semplice e facile, ora intricato fino all’inverosimile”. (Stalker, Andrej Tarkovskij, 1979)

Sotto una delle colline sulle quali poggia la città di Trieste si estende un sistema di cunicoli, tunnel, pozzi, condotti scavati durante la seconda guerra mondiale: una architettura sotterranea conosciuta ancora oggi con il nome di Kleine Berlin.

Questa piccola Berlino era uno dei tanti ricoveri antiaerei fatti costruire in città subito dopo l’inizio del conflitto: il più complesso tra i rifugi in cui trovare posto durante i bombardamenti.

Una parte di questa cittadella ipogea era inaccessibile alla popolazione civile. Le milizie tedesche che occuparono Trieste nel ’43 l’avevano riservata a sé e poi collegata, attraverso passaggi tenuti nascosti a tutti, con punti strategici: il quartier generale, il palazzo di giustizia. Nel pieno centro della città, una zona off-limits, proibita, aliena.

La Zona

È  in questo labirinto umido, scandito dall’aprirsi di oscure gallerie laterali, polvere e reperti bellici, lastre arrugginite, che in questi giorni Lorenzo Acquaviva, Giovanni Boni, Lorenzo Zuffi, fanno rivivere La Zona, l’area aliena attorno a cui Andrej Tarkowskij aveva costruito un capolavoro della cinematografia anni Settanta: Stalker.

un’immagine dal film (1979)

Nel film, lo stalker è la guida clandestina, l’esperto del territorio, colui che a pagamento accompagna due visitatori, uno scienziato e uno scrittore, verso un luogo dove, corre voce, potrebbero verificarsi fatti straordinari, la Stanza.

“Vent’anni fa, circa, sembra che proprio qui sia caduto un meteorite che rase al suolo il villaggio. Cercarono questo meteorite, ma naturalmente non trovarono nulla. Poi la gente cominciò a sparire. Venivano qui, ma non tornavano indietro… Alla fine decisero che il cosiddetto meteorite non era proprio un meteorite e per cominciare misero tutto intorno del filo spinato, per evitare che i curiosi corressero rischi. Così cominciò a correre voce che ci fosse un posto, la Stanza, nella Zona, dove si esaudivano i desideri, e così decisero di proteggerla come la pupilla degli occhi. Chissà quali desideri potevano venire in mente a qualcuno!”.

Immergersi nella Zona

Lo spettacolo è un evento immersivo, che sollecita i sensi del pubblico – non più di 45 persone per replica – condotte, come i personaggi del film, attraverso gli ambienti sotterranei. Il contatto con le pareti, il buio, l’umidità, la pavimentazione impervia, trasformano in sensazioni fisiche ciò che la pellicola restituiva visivamente. Un disagio emotivo, un nodo enigmatico, entro cui scivolano i dialoghi, fedeli alla sceneggiatura originale, per mantenere la tensione con cui Tarkovskij esplorava le sabbie mobili di un pensiero non-razionale, la dimensione mistica verso cui può incamminarsi una diversa vita.

Lo scrittore è Giovanni Boni, irascibile, scettico, fatalmente deluso dall’inefficacia della scrittura. Lorenzo Zuffi è il fisico, scienziato ambizioso, in apparenza cinico: se ne scopre piano piano la fragilità, cui non viene in soccorso alcuna meccanica. Figure scelte per rappresentare due sguardi che scrutano insoddisfatti la superficie della vita. Incapaci entrambi di penetrarla nella profondità che dovrebbe essere il loro traguardo, Quello dell’artista, o per altro verso, quello dello scienziato.

Scrittore e Professore incarnano l’arroganza e il limite dei processi conoscitivi. Lo stalker (che è Lorenzo Acquaviva) possiede invece la ritrosia degli uomini segnati dal destino. La sofferta capacità della fede, che accetta il mistero contro il quale i suoi due clienti si accaniscono.

Stalattiti e un velo d’acqua

Giunti in prossimità della Stanza, davanti agli spettatori si dirama il tunnel che conduce nella tenebra della terra. La meraviglia inquieta della volta in cemento, ricamata da stalattiti e concrezioni calcaree. Sotto i piedi corre un velo d’acqua. È qui che Diana Höbel,  convincentissima nel filmato che suggella La zona, dà voce alla moglie dello stalker e ne disegna in controluce il profilo amaro, l’infelicità necessaria.

Sapete… mamma era molto contraria. Forse l’avrete già capito: non è normale! La gente rideva di lui e lui era così smarrito, poverino. Mamma mi diceva: “È uno stalker, un condannato a morte, un eterno carcerato, e i bambini? Pensa ai bambini degli stalker!” e io… io non volevo… non volevo nemmeno discutere. Ma io lo sapevo benissimo che era un condannato a morte, un eterno carcerato e anche dei bambini… ma che cosa potevo farci io? Ero sicura che insieme a lui sarei stata… bene! Sapevo che avrei avuto tante amarezze, ma è meglio una felicità amara che una vita grigia e noiosa. Be’, questo devo essermelo immaginato dopo. Allora egli si avvicinò a me e disse semplicemente queste parole: “Ti prego, vieni con me!”. Andai… e non me ne sono pentita, e non ho mai invidiato nessuno, mai, in nessun momento della mia esistenza. Il destino è fatto così. Così è la vita, così siamo noi. E se nella nostra vita non ci fosse dolore non sarebbe meglio, sarebbe peggio: perché allora non ci sarebbe la felicità né la speranza… ecco”.

un’altra immagine dal film

LA ZONA
con Giovanni Boni, Lorenzo Acquaviva, Lorenzo Zuffi. Nel filmato Diana Höbel. Regia di Giovanni Boni e Lorenzo Acquaviva. Per Approdi Festival, fino al 9 settembre.