Tandem di donne al timone dell’impresa che da più di 40 anni, in questa Regione è sinonimo di innovazione in campo culturale e di spettacolo dal vivo. In questa immagine la notizia apparsa oggi sul quotidiano Messaggero Veneto di Udine.
Ad entrambe, buon lavoro e gli auguri di QuanteScene!
Il Circuito regionale teatrale del Friuli Venezia Giulia ha un nuovo direttore. Il Consiglio di Amministrazione di ERT FVG ha indicato Alberto Bevilacqua come successore di Renato Manzoni, che dal 2004 ha diretto l’Ente . Al neo-direttore Bevilacqua vanno gli auguri di QuanteScene!
Alberto Bevilacqua
È ufficiale
L’annuncio ha tardato un po’ a diventare pubblico. Incrementando così l’attesa. Ma alla fine, la notizia è stata ufficializzata. Sessantadue anni, esperto nella gestione e nella direzione di imprese culturali, dal mese di novembre 2022 Alberto Bevilacqua è il nuovo direttore ERT FVG.
Il CdA lo ha scelto entro una rosa di otto nomi, ristretta poi a tre, che si sono candidati al bando pubblico dello scorso giugno.
Bevilacqua succede a Renato Manzoni che negli scorsi 18 anni, in particolare nel passato biennio di difficoltà e restrizioni sanitarie, ha retto l’Ente. E ne passa adesso le redini, dopo averlo consolidato istituzionalmente, portando da 15 a 28 le sale del Circuito e festeggiando nel 2019 anche i cinquant’anni dalla fondazione.
Da CSS a ERT FVG
Fondatore nel 1984, e fino a questo momento presidente del CSS teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia – Alberto Bevilacqua vanta una conoscenza del sistema teatrale italiano e internazionale che ne fanno una delle figure più note del settore. Ha attivato, assieme al suo team, tutte le iniziative che hanno visto il CSS udinese imporsi tra i centri di produzione più attivi in Italia, vicepresidente Agis Tre Venezie e figura chiave nei percorsi che hanno permesso al FVG di diventare regione leader nel campo dell’innovazione nello spettacolo dal vivo.
Nel territorio il suo impegno si è sviluppato a 360 gradi (dal Mittelfest di Cividale alle Residenze artistiche di Villa Manin, dal Teatro Pasolini di Cervignano alle attività regionali di inclusione sociale). A incrementare le sue competenze sono stati anche incarichi nazionali, per ItaliaFestival per esempio, e progetti internazionali, primo fra tanti il percorso di alta specializzazione per attori, oramai trentennale, Ecole des Maîtres.
Prosa, musica, danza
Sarà adesso chiamato ad assolvere le principali missioni di cui è investito l’ERT FVG. Curare e gestire, in sintonia le amministrazioni e le comunità locali, una trentina stagioni di prosa, musica e danza che nei Comuni del Fvg fanno capo al circuito. Sviluppare progetti rivolti alla diffusione della cultura teatrale nelle scuole. Sovraintendere all’edilizia teatrale nell’ambito della manutenzione e della ristrutturazione delle sale aderenti all’Ente.
[questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano di Trieste IL PICCOLO, in data 1 novembre 2022]
le 28 stagioni teatrali 2022-23 di ERT FVG
Al neo-direttore Bevilacqua, QuanteScene! fa i migliori auguri di buon lavoro.
Ve li voglio presentare. Si chiamano L’Amalgama. Sono dieci e fanno teatro. Sei anni fa hanno formato un collettivo. E da allora girano. Ma tanto. Con un bel progetto, che si intitola Lost in Macondo. Domani, domenica 30 ottobre, saranno a Genova, a conclusione di una settimana che li ha visti lavorare con la gente del quartiere di San Fruttuoso. Se siete da quelle parti, andate a vederli (o guardatevi almeno il loro sito).
Lost in Macondo (ph. Cristina Modonutti)
A fisarmonica
Li avevo persi di vista, da quando sono usciti tutti e dieci, vittoriosi, dal diploma finale alla “Nico Pepe” di Udine, accademia di teatro. Li ho ritrovati alcuni anni più tardi, sempre in dieci. Crescere e formarsi assieme vuol dire molto. Ma lo spirito di coesione che è alla base di L’Amalgama è davvero inconsueto.
Non che siano sempre là, uno appiccicato all’altra. Ognuno sviluppa progetti personali. Chi come attrice, o attore, o performer. Chi come regista. Oppure progettista, ideatore di iniziative, creatrice di testi…
Ma quando Macondo chiama, tornano di nuovo assieme, compatti, forti del proprio progetto collettivo. Che inevitabilmente raccoglie attorno a sé altre forze: collaboratori, stabili o occasionali, supporter, istituzioni e associazionismo, follower e amici.
È un lavoro che funziona a fisarmonica. Momenti di forte concentrazione collettiva, alternati a spazi di lavoro personale. Mi piace. Così come mi piace lo stile che mettono nel loro fare teatro.
Lost in Macondo (ph. Mara Giammattei)
Va detto che per un bel po’ di tempo, in accademia, hanno lavorato con Giuliano Scabia. E quell’incontro ha sicuramente modellato la loro idea di spettacolo dal vivo. Un teatro che attraversa la vita quotidiana. Si insinua nelle case, invade gli spazi aperti, i parchi, i cortili. Acchiappa gli spettatori e li trascina con sé in piazza. Racconta storie, strappa risate, prepara sorprese e diverte. Ecco perché mi piace.
Perdersi a Macondo
C’è un romanzo che buona parte di noi ha letto, molti hanno amato, e tutti conoscono anche solo per il titolo. Cent’anni solitudine di Gabriel García Márquez. Dal realismo magico dell’autore sudamericano, da quella saga famigliare, dall’epica che in quel paesino leggendario avvolge l’albero genealogico della famiglia Buendía, Lost in Macondo prende solo spunto.
E con piglio contemporaneo e coraggio performativo, prendendosi gioco delle mitologie letterarie, abbraccia certe piccole comunità, che possono essere isolati paesi di montagna, cittadine di pianura ricche di storia, o rioni di città, come sta succedendo adesso a Genova. È la formula, sempre più praticata, delle Residenze Teatrali.
Lost in Macondo (ph. Mara Giammattei)
In dieci, all’unisono, dicono: “L’Amalgama vuole recuperare la componente magica presente nelle storie dei Comuni italiani per mostrare quanto di meraviglioso si nasconde nel reale. Ci faremo influenzare dai fatti reali e miracolosi che ci racconteranno gli abitanti, da ciò che vedremo in paese, da leggende, dal romanzo stesso e dalle nostre esperienze personali per costruire così i vari capitoli. Vorremmo riscrivere la storia di questi paesi come fossero nuove Macondo: luoghi rappresentativi di un immaginario collettivo, in cui tanti Comuni italiani possano riconoscersi“.
Per una settimana, i dieci di Macondo vivono dunque assieme a una comunità urbana, ne raccolgono l’identità e le storie, intervistano e filmano chi ha piacere di parlare con loro, lavorano con chi si mette in sintonia: magari una minuscola banda locale, o un coro di non professionisti. Scoprono ciò che di irrazionale, leggendario, alchemico, si nasconde nella memoria della gente. Ricordi, episodi, figure.
Le comunità urbane partecipano a Lost in Macondo (ph. Cristina Modonutti)
Tutti assieme, costruiscono ciò che alla fine della settimana sarà lo spettacolo, il finale momento, il botto. In una economia di scambio (come nelle antiche formule di Eugenio Barba e dell’Odin) con coloro che li hanno accolti.
Sulle tracce di Aureliano Buendía, dal Fvg alla Liguria
È successo già parecchie volte nella regione dove hanno piantato la loro sede, il FriuliVenezia Giulia. Sono stati a Porpetto, a Marano Lagunare, a Prato Carnico, a Mossa, a Arta Terme. A Turriaco e a Muggia, centri più popolosi. Adesso la sfida è una città ancora più grande. Teatralmente più esigente. Genova.
Hanno scelto (e sono stati scelti) dal quartiere di San Fruttuoso, sulla riva destra del torrente Bisagno. E l’episodio che portano per le strade e in piazza si intitola I gringos e le banane del progresso.
Non resta che andarli a vedere, domani.
Ecco il comunicato stampa:
Genova. Domenica 30 ottobre dalle ore 15:30 nel quartiere San Fruttuoso (da via G. De Paoli, traversa di via Paolo Giacometti, a Villa Imperiale) andrà in scena lo spettacolo itinerante che concluderà la residenza artistica e teatrale in Bassa Val Bisagno “Lost in Macondo”, ideata e realizzata dal collettivo L’Amalgama. La pièce è liberamente ispirata al romanzo “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez.
L’obiettivo del progetto è recuperare la componente magica presente nelle storie dei diversi Comuni italiani e rappresentare le tradizioni dei singoli luoghi che caratterizzano l’Italia. La regia è firmata da Andrea Collavino, la drammaturgia da Valentina Diana, i tecnici luci e suono sono Théo Longuemare e Alberto de Felice, i costumi sono curati da Lucia de Monte e Corinne Giunti. Lo spettacolo sarà interpretato da Caterina Bernardi, Angelica Bifano, Jacopo Bottani, Federica Di Cesare, Massimiliano Di Corato, Gilberto Innocenti, Clara Roberta Mori, Davide Pachera, Stefano Pettenella e Miriam Russo.
L’evento fa parte del progetto “QuartierArte – Percorsi spettacolari in Bassa Val Bisagno”, ideato e realizzato dal Teatro Garage e dall’associazione La Chascona con lo scopo di valorizzare il territorio, la storia e la cittadinanza del luogo attraverso attività artistiche e didattico formative. Il progetto è finanziato dal Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo in accordo con il Comune e a sostegno di attività di spettacolo dal vivo nelle aree periferiche della città.
In caso di forte pioggia lo spettacolo sarà rappresentato a Villa Piantelli, in corso De Stefanis 8.
– – – – – – – – – – – – – – – – – LOST IN MACONDO un progetto del Collettivo L’Amalgama regia, ideazione e coordinamento artistico Andrea Collavino drammaturgia Valentina Diana tecnici luci e suono Théo Longuemare – Alberto de Felice costumi Lucia de Monte – Corinne Giunti video Stefano Giacomuzzi progetto fotografico Mara Giammattei con le attrici e gli attori del Collettivo L’Amalgama: Caterina Bernardi, Angelica Bifano, Jacopo Bottani, Federica Di Cesare, Massimiliano Di Corato, Gilberto Innocenti, Clara Roberta Mori, Davide Pachera, Stefano Pettenella e Miriam Russo produzione Collettivo L’Amalgama co-produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
L’impatto che uno spettacolo, una stagione teatrale, un festival, hanno sul pubblico si valuta anche dai posti rimasti liberi e dai posti occupati. A volte, più che l’allestimento, più che il programma, conta in quanti siamo, là, seduti in sala. Un invito a pensarci.
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto
Due premesse
Premessa indispensabile. Una sala da 1000 posti è un fatto. Una da 200, un fatto di tutt’altro tipo. Per chi gestisce un teatro, per chi programma un’iniziativa, per chi ha un naturale bisogno di pubblico, la seconda è più facile da riempire. Ovviamente. La sfida è la prima. La tradizione storico-operistica dei teatri italiani ha dotato le principali città di sale grandi, storiche, importanti. Molte superano i 1000 posti. Purtroppo, o per fortuna.
Seconda premessa. Ci sono spettacoli, anche belli, che in una sala grande muoiono, annegati dall’ampiezza del palcoscenico, sterminati dal numero dei posti rimasti vuoti.
Allo stesso modo, ci sono spettacoli che in una sala piccola non possono proprio stare. Vuoi perché sono pensati in grande, dal punto di vista scenografico, o per la numerosità di chi ci lavora. Vuoi perché il loro costo non consente di limitarli a un pubblico di poche centinaia di spettatori. Certo, si possono programmare più repliche, ma ogni replica moltiplica il costo.
Ci pensavo mentre…
Scrivo ciò anche per condividere delle riflessioni che mi passavano per la testa, mentre vedevo alcuni spettacoli al Festival Vie, una delle principali iniziative di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Fedele a una storia trentennale, il festival si tiene in alcuni teatri emiliani (Bologna, Modena, Vignola) e della Romagna (Cesena). Quindi in diverse sale: alcune più ampie, altre meno.
Imagine, di Krystian Lupa
Il grande e storico edificio del Teatro Storchi a Modena, per esempio, ha circa mille posti. Vederli vuoti per una buona metà, insieme a gallerie desolate, è stato una specie di amplificatore della delusione per chi ha assistito a Imagine, la produzione dei Teatr Powszechny di Varsavia e Łódź, con la regia del polacco Krystian Lupa.
È il polpettone di rimpianti generazionali e di aspirazioni fuori tempo di un artista che presto compirà 80 anni e che, comunque, ha un magistrale passato alle spalle. Ma sembra qui accontentarsi di accarezzare (problematicamente) i figuranti di un’epoca passata. In scena ci sono personaggi chiamati Janis, Joan, Susan (cioè Joplin, Baez, Sontag…), tanto per dirne alcuni, convocati da un certo Antonin (si suppone Artaud) in uno slabbrato salotto per discutere del come eravamo e come siamo.
Imagine di Krystian Lupa – ph NK
A sedere nel titolo è Image di John Lennon (e la iconica clip girata nella white room della sua villa a Tittenhurst Park), e tutto il portato di comunismo utopico della canzone. Quella brigata di reduci si attarda invece a chiacchierare, anche violentemente, stravaccata sulle poltrone e a fare autocoscienza sulle proprie sconfitte. Per ben due ore. Faticose, sul serio. Tralascio le tre ore successive, più faticose ancora, in cui la tensione dello spettacolo e le situazioni sceniche si mostrano inversamente proporzionali alle ambizioni della regia.
Audience Amplification
Amplificatore in senso positivo è invece la sala piccola del Arena del Sole, intitolata allo scomparso regista Thierry Salmon. Là sì soli 200 spettatori, che occupano tutte le sedute, qualcuno perfino in piedi, hanno potuto creare quell’elettricità, quella tensione tra palcoscenico e pubblico, che certo ha portato fortuna al debutto di titoli come Gli anni di Marco D’Agostin e Marta Ciappina (ne ho parlato in un post precedente). O come Il Capitale – un libro che ancora non abbiamo letto, della compagnia Kepler-452.
Il Capitale, di Kepler-452
C’erano, soprattutto in questa proposta, motivi anche emozionali e di solidarietà. I tre lavoratori di un’azienda messa in liquidazione (la GKN di Campi Bisenzio) e il loro rappresentante sindacale raccontavano la propria storia di mobilitazione e occupazione dello stabilimento toscano che produce (produceva, anzi) semiassi per veicoli. La GKN è stata messa in liquidazione, nel luglio 2021, dalla multinazionale proprietaria, con il contestuale licenziamento via mail dei 422 dipendenti. Oggi gli operai sono ancora in presidio, all’interno dello stabilimento, a macchinari fermi (qui è riassunta la vicenda).
Un impatto – la presenza in questo spettacolo di persone, i tre operai, non di personaggi – che ha avuto la capacità di squarciare il tran tran teatrale (per dire, la drammaturgia contemporanea).
Tanto più nella serata ad alto voltaggio che ha visto in platea anche compagni di lavoro dei tre – Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – promossi perfomer dalla poetica politica di NicolaBorghesi e del coautore, Enrico Baraldi.
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi
Va detto che alcuni precedenti titoli di Kepler-452 (dedicati agli espropri eseguiti in nome del parco alimentare Fico, alle sorti dei rider in tempo di pandemia, all’annullamento di identità sociale degli immigrati senza dimora, allo hate speech in Rete) hanno avuto, su di me almeno, impatto più forte.
Agivano più da vicino e con maggior consapevolezza di classe – o di ciò che un tempo era lotta di classe – rispetto a questo reportage di fabbrica, emozionale certo, condiviso certo. Però anche viziato dal paradosso di una critica del capitalismo globale, dello sfruttamento del capitale umano, della mercificazione del tempo che ci consegna la vita (e non son mica bazzecole), esercitata attraverso uno strumento supremamente mercantile come è uno spettacolo teatrale, prodotto da uno dei più finanziati stabili italiani. Rispolverando Marx, uno spettacolo possiede un questionabile valore d’uso, ma nasce e vive in una elitaria economia di scambio.
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi
Però il respiro di quella sala piena, la partecipazione, la condivisione, la vicinanza stretta di un sentimento solidale, hanno certo minimizzato il problema economico-filosofico. E decretato la standing ovation di un pubblico toccato profondamente. Funziona così.
Ecloga XI, di Anagoor
Era un punto di riflessione che mi pareva utile esportare, magari sul piano estetico, quando mi è apparso davanti, al Teatro Fabbri di Vignola, il nuovo lavoro della compagnia Anagoor. Concentrato sulla rilettura teatrale dell’opera poetica (più precisamente della raccolta di versi IX Ecloghe, 1962) di uno dei grandi del ‘900 letterario italiano: Andrea Zanzotto.
La sala di Vignola che conta 450 posti, abbastanza vuota anch’essa, era tuttavia popolata da operatori stranieri (programmatori, direttori di teatro, curator, selector…). Giustamente invitati al nuovo debutto dal gruppo che, in anni non lontani, ci ha dato titoli sapienti come Virgilio brucia e Socrate, il sopravvissuto.
Peccato che la poesia di Zanzotto – per il quale personalmente nutro stima – sia ostica sul serio. Al 93% degli italiani (il calcolo è mio) riuscirebbe incomprensibile, anche per il lessico che il poeta adotta. Nello spettacolo non veniva tradotta in altre lingue.
Capisco la difficoltà di tradurre poesia, ma non veniva tradotta nemmeno la lunga conversazione dei due attori, Leda Kreider e Marco Menegoni. Davanti alla riproduzione della Tempesta di Giorgione, da cui erano state abolite le due figure umane, i loro Adamo e Eva riflettevano sull’emergere del paesaggio naturale della pittura umanistica: un piccolo saggio di storia dell’arte.
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto
Mi domandavo: se faccio fatica io, italofono, a seguire il dettato poetico di Zanzotto, come mai faranno gli stranieri, senza traduzione, a comprendere il principale veicolo dello spettacolo che, in sostanza, era linguistico. Poetico, anzi.
Bella domanda: tanto più decisiva dopo, quando ho scoperto che buona parte di quel pubblico internazionale ha avuto parole di apprezzamento per Ecloga XI. A colpirli dev’essere stato l’annerimento totale della Tempesta giorgionesca, a forza di rullate di vernice scura. Oppure le strane forme al neon e luce di Wood che pendevano dall’alto nella seconda parte.
Chissà che a motivare la mia perplessità – mi sono detto allora – non sia l’effetto sala: solo poche decine di persone per 450 posti, capaci di annientare questo “omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto“, come dice il sottotitolo.
Ripensandoci ora, non credo sia esattamente così: non era solo l’effetto di una sala vuota. Ma perciò, se vi capitasse di vedere Ecloga XI da qualche altra parte, ne riparliamo assieme.
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IMAGINE regia e scenografia Krystian Lupa testo Krystian Lupa e creazione collettiva degli attori musica Bogumił Misala costumi Piotr Skiba con Karolina Adamczyk, Grzegorz Artman, Michał Czachor, Anna Ilczuk, Andrzej Kłak, Michał Lacheta, Mateusz Łasowski, Karina Seweryn, Piotr Skiba, Ewa Skibińska, Julian Świeżewski, Marta Zięba, voce fuori campo Krystian Lupa coproduzione Teatr Powszechny Varsavia, Teatr Powszechny Łódź
IL CAPITALE Un libro che ancora non abbiamo letto un progetto di Kepler-452 drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi con Nicola Borghesi e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – Collettivo di fabbrica lavoratori GKN e con la partecipazione di Dario Salvetti produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
ECLOGA XI testi di Andrea Zanzotto con Leda Kreider e Marco Menegonim usiche e sound design Mauro Martinuz drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto regia, scene, luci Simone Derai voce del Recitativo Veneziano Luca Altavilla produzione Anagoor 2022 coproduzione Centrale Fies, Fondazione Teatro Donizetti Bergamo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, Operaestate Festival Veneto
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Regista e autore teatrale, radiofonico e televisivo, ideatore e organizzatore di progetti, formatore teatrale. Per un decennio direttore della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, Massimo Navone è stato oggi nominato direttore artistico del Teatro Miela Bonawentura di Trieste.
Massimo Navone in una immagine di Marina Alessi
Del Teatro Miela, della sua storia, delle sue iniziative, QuanteScene! ha parlato spesso. Questa particolare sala, sulle Rive a Trieste, era stata inventata più di trent’anni fa da un intraprendente gruppo di visionari, che avevano trovato l’appoggio di più trecento Signori Bonawentura. Nel senso che ciascuno di loro, come il leggendario personaggio di Sergio Tofano e del Corriere dei Piccoli, aveva messo a disposizione un milione di lire (eravamo nel 1988). Nelle loro intenzioni c’era la ristrutturazione una sala cinematografica dismessa, il “Cinema del Mare”. Da riaprire, oltre che ai film, allo spettacolo dal vivo: musica, danza, teatro, digital experience. Ma anche tutto ciò che di nuovo allora girava nell’aria.
Un teatro instabile
Dall’inaugurazione del 1990, progetti, iniziative, stagioni, manifestazioni si sono avvicendate nella sala da trecento posti, con annessa saletta video da sessanta e bar stiloso. E hanno segnato i tre decenni di vita di un teatro che ci tiene parecchio alla propria auto-definizione di Teatro Instabile. Ironicamente contrapposta alle tre istituzioni stabili (Il Rossetti, lo Sloveno, La Contrada) che spiccano nel panorama teatrale di Trieste.
Il Teatro Miela torna adesso in cronaca, per l’annuncio, dato oggi, della scelta da parte del CdA, di un nuovo direttore artistico: Massimo Navone.
Due o tre cose che so di Massimo Navone
Ligure di nascita, milanese d’adozione, attore e regista, formatore e progettista, Navone ha qualche anno fa scelto Trieste, considerata un buon approdo per una sua grande passione extraprofessionale: la vela. E la città della Barcolana – la regata internazionale, con il primato Guinness di barche partecipanti – lo ha in più modi ricambiato, offrendogli oltre che il mare, numerose opportunità professionali di progettazione e di regia. In particolare il Teatro Miela, per il quale ha realizzato, fin dal 2016, una decina di iniziative e spettacoli.
Un affiatamento e una familiarità acquisita che perviene a un nuovo traguardo con la scelta, ufficializzata oggi, di affidargli la responsabilità artistica del teatro.
“Che colpaccio, eh!” avevo scritto a Marco D’Agostin un attimo dopo che si era sparsa nel mondo la notizia del Nobel per la letteratura a Annie Ernaux. Perché il titolo del lavoro che D’Agostin stava portando a termine – Gli anni – è lo stesso di un romanzo della scrittrice francese Nobel 2022. Oltre ad appartenere a un famoso brano di Max Pezzali per gli 883.
Ho visto Gli anni qualche sera fa, a Bologna, a tarda ora, tra le proposte bolognesi del Festival Vie.
Al libro più chiacchierato della scorsa settimana, Gli anni (quelli di D’Agostin) rubano una citazione (“La sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari…“). Alla canzone anni ’90 di Max Pezzali sottraggono qualche icona (il Real Madrid, Candy Candy…). A tutti gli effetti, però, Gli anni portati in scena da D’Agostin sono un romanzo di formazione. Dico romanzo sapendo bene che il Premio Ubu 2018 e la nomination 2021 gli erano stati attribuiti come miglior performer e coreografo. E non come narratore.
Contro la prepotenza del danzare
Ma il 35enne autore di Valdobbiaene ci ha abituati, nelle sue ultime creazioni, a districarci dagli obblighi della coreografia e dalla prepotenza del danzare. E da un bel po’ si libra leggero e singolare nel campo della memoria (la propria, prima di tutto, ma come vedremo anche quella altrui).
Una sua lettera affettuosa a Nigel Charnok, leader dei DV8 – Physical Theatre, era la traccia lungo la quale si muoveva Best Regards (2020), che porgeva i saluti postumi a un maestro irruento e ipercinetico degli anni ’80. La rievocazione del suo primo amore (non una ragazzina, ma lo sci di fondo) dava invece il titolo a First love (2018). E letteralmente, una valanga di parole, in cinque lingue diverse, investiva gli spettatori di Avalanche, da lui portata in scena, sempre nel 2018, assieme alla portoghese Teresa Silva.
Marco D’Agostin – Best Regards – Ph Roberta Segata
Stavolta non è D’Agostin a esporre in Gli anni, il proprio diario privato. È Marta Ciappina, perfomer altrettanto singolare. Che in questo solo racconta se stessa, provando a capire, assieme al pubblico, se “la propria storia e quella della propria famiglia, possano duettare con quella del genere umano“.
Proposito francamente ambizioso. Che affrontato però con ironia e giusta distanza dal vissuto produce i 50 minuti leggeri in cui D’Agostin – alle spalle, dal banco della regia – sorveglia che il diario della performer (biglietti d’amore adolescenziali, pellicole super8 di lei bambina, canzoni del cuore e ricordi famigliari) si metta in sintonia con il pubblico al quale viene chiesto di collaborare un po’. “Ditemi una vostra canzone“, chiede Ciappina a un certo punto agli spettatori, e ci saranno poi Spotify o YouTube a lanciarla in pista.
Marta Ciappina – Gli anni – ph Andrea Macchia
Al ritmo dei limoni
Ma andiamo con ordine. Si comincia che lo spazio è quasi vuoto, solo un tavolo. Appare lei, magnetica Ciappina, con uno zainetto giallo. “Sono andata al mercato e ho comprato un limone, due limoni, tre limoni, quattro limoni….”
L’acquisto dei limoni (saranno subito 26, 27, 28… ) segnerà passo passo il ritmo all’azione. 104, 105, 106 limoni… Mentalmente, lei conterà fino a 1000 per regredire poi all’inverso: di nuovo fino a uno. Ma dallo zaino giallo, intanto, faranno capolino un paio di cuffie, anche loro gialle, un telefono giallo, due segnaposti gialli. E poi un cagnolino di porcellana, una tessera del Pci di Occhetto. Con la colonna sonora che infilerà, uno dopo l’altro la Vanoni di L’eternità, il De Gregori di Rimmel, la Bertè e la Pausini, i Bronski Beat, i boati degli anni di piombo, i radiogiornali d’epoca… È quello stile-catalogo, perfezionato da D’Agostin già in Best Regards.
Lo asseconderà, lo doppierà, lo accompagnerà, e proverà a dargli un certificato di nostalgia collettiva, il movimento di Ciappina. Mai coreografico (“Qui è il momento in cui Marco mi raccomanda di essere meno seduttiva“), spesso allusivo e ironico (“Immensità, spalanca le tue braccia“), ancora più spesso dedicato a verbalizzare le posture del corpo (“La mia ascella si inarca come la cupola del Brunelleschi“).
Post-coreografico
È un movimento a tecnica libera, empatico, sganciato dalle maglie di un disegno minuziosamente preordinato. Viene spontaneo chiamarlo post-coreografico, così come a teatro si usa il termine post-drammatico, per indicare i lavori che si staccano dalle regole costruttive del Novecento. E provano a costruire un diverso orizzonte di invenzione (da parte degli artisti) e di percezione (da parte del pubblico). Cosa che nel settore contemporaneo della danza si riflette oramai in tanti lavori che si parlano l’un l’altro, perché assieme si parlano e collaborano anche i loro creatori: Marco D’Agostin, Marta Ciappina, Chiara Bersani, Alessandro Sciarroni, Silvia Gribaudi, … una famiglia nel post-coreografico italiano.
Marta Ciappina
E intanto siamo arrivati anche noi spettatori a contare alla rovescia gli ultimi limoni – … quattro, tre, due, uno – come in quel gioco infantile di cui protagonista è una Ciappina bambina, nel super8 di famiglia che chiude Gli anni.
Proprio come voleva Annie Ernaux nel suo romanzo, in cui protagonista è sì la scrittrice. Ma si parla sempre e comunque di noi, impersonale collettivo: “La sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari, su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ha ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte…“. Una notte di tutti, singola plurale, collettiva.
– – – – – GLI ANNI di Marco D’Agostin con Marta Ciappina suono LSKA luci Paolo Tizianel produzioneVAN coproduzioneCentro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e Fondazione CR Firenze, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Aperto – Fondazione I Teatri, Tanzhaus nrw Düsseldorf, Snaporazverein,
È stato appena pubblicato e verrà presentato presentato oggi 12 e domenica 16 novembre, durante Vie Festival a Bologna, il volume Summa critica. Il teatro di Maria Grazia Gregori, pubblicato da Ubulibri.
Il volume raccoglie una selezione degli articoli che la giornalista milanese ha scritto nel corso di una lunga carriera. Ma anche parecchi materiali biografici. Un ritratto al vivo di questa donna, che è stata punto di riferimento per il teatro italiano ed è scomparsa un anno e mezzo fa, nell’aprile 2021.
La signora del teatro
Al suo cognome da nubile e longobardo – Astolfi – ci teneva tantissimo. Ma erano altri tempi, e allora per tutti lei era Maria Grazia Gregori, firma molto stimata, e molto ambita, nel mondo del teatro. Ci teneva anche ad abbreviarsi in m.g.g., rigorosamente minuscolo, quando scriveva articoli più brevi.
Emmegigì, la chiamavamo perciò. E assieme a lei formavamo un bel gruppo di criticoni, una specie di compagnia di giro, sempre pronti a viaggiare, in macchina, in treno, inseguendo spettacoli in festival e teatri, per scriverne poi su riviste e giornali. Che allora erano solo di carta.
Dagli anni Settanta e fino al 2014, quandoL’Unità cessò le pubblicazioni, Maria Grazia era la firma milanese di quel quotidiano, e con la scomparsa di Aggelo Savioli, la firma tout court. Avrebbe continuato poi in Rete – lei che dal digitale manteneva una sovrana distanza – sul sito Delteatro.it , invitata a scrivere là da Renato Palazzi.
In quella compagnia di giro, un gruppo per lo più affannato, spesso sbrindellato, con le valigie sempre in mano, lei era invece la Lady. Una signora vera. Per eleganza e autorevolezza. Per la determinazione con cui svolgeva il proprio lavoro e la puntualità che caratterizzava il suo modo di fare.
Non solo era puntuale: era sempre in anticipo. Nell’arrivare a teatro, certo, ma anche sui tempi. Una critica lungimirante, una Summa critica, come spiega, se letto per bene, il titolo del volume che le ha dedicato Ubulibri (a cura di Leonardo Mello, pp. 240, 18 euro).
Maria Grazia Gregori: quante storie!
Dentro di me porto un bagaglio di storie che riuscirebbero a comporre cento ritratti affettuosi e spiritosi di m.g.g. Ma nel volume è lei stessa raccontarsi in una lunga intervista nella quale delinea la propria storia, le amicizie, le passioni. Intervista che bisognerebbe leggere e rileggere, per recuperare immagini e motivi da un mondo giornalistico che non esiste più. Oppure esiste ancora.
Per esempio. Siamo all’inizio degli anni Settanta, la giovane Maria Grazia Gregori è alla sua prima intervista importante. Incontra Paolo Grassi, fondatore del Piccolo di Milano. “Lui rimase entusiasta – racconta lei a distanza di anni – e fece una telefonata a Claudio Petruccioli, che allora era il direttore della sezione milanese del giornale su cui avrei poi scritto per quarant’anni. Petruccioli mi disse: “Mi si dice che vorresti scrivere di teatro. Ma tu sai che non guadagneresti una lira?”.
Maria Grazia Gregori, Franco Quadri, Roberto De Monticelli negli anni ’70
Insomma, certe cose non sono granché cambiate da allora. Altre invece sì. Moltissime.
Siccome questo post si intitola STORIE, come gli altri della stessa serie, ci sarebbero divertenti episodi che abbiamo vissuto assieme e che vorrei rievocare. Certo non posso farlo per il più clamoroso fra tutti, visto che quella volta purtroppo non c’ero. Ma, nella nostra compagnia di giro, è stato ripetuto così tante volte che vale la pena ricostruirlo.
A Mosca, a Mosca…
Mosca, Unione Sovietica, 1989. Sono i mesi della perestrojka e manca poco al momento fatidico che cambierà le mappe dell’Europa. Grazie a un’iniziativa di Emmecinque, Eti e Unione degli Scrittori Sovietici, il nuovo teatro italiano è presente in una mostra allestita al teatro Taganka. Maria Grazia non può mancare, e con lei molti dei suoi colleghi.
Una sera, lei, il marito Italo Gregori, il mio amico Gianfranco e qualcun altro ancora, decidono di cenare in un ristorante del centro, scelto per il menù esclusivamente russo. Al momento di andarsene, viene loro presentato il conto. In dollari statunitensi. Maria Grazia si rifiuta. Giornalista dell’Unità, quotidiano ufficiale del PCI, lei esige di pagare in rubli: “Siamo in Unione Sovietica e la valuta sovietica è il rublo”.
Il cameriere fa un passo indietro e si mette a confabulare con il direttore del locale. Che arriva accigliato: “Qui non si accettano rubli”. Lei, piccata, ripete: “Siamo in Unione Sovietica e la valuta sovietica è il rublo”, e dalla borsa tira fuori un pacchetto di banconote, sovietiche. Che l’uomo prende in mano, appallottola rabbioso e lancia per aria, come se fossero carta straccia. Non va troppo lontano dalla verità, per dirla tutta, ma l’espressione del volto non lascia presagire alcunché di buono. Si è arrivati oramai all’alterco, però c’è anche il rischio che a breve spuntino le pistole. Così gli italiani se ne vanno, testa bassa e gambe levate, dopo aver pagato in dollari. Con Maria Grazia incazzata che per strada rimprovera tutti: “In rubli, in rubli, in rubli dovevamo pagare”.
Il rigore, l’ansia, l’abitudine
Era un esempio, tanto per far capire il carattere. Al rigore, comunque, Maria Grazia Gregori associava l’ansia e l’abitudine. Al binario del treno – un altro esempio – era sempre pronta un’ora prima. A dormire, o pranzo, o a cena, si andava solo nei posti di cui era sicura, riverita, affezionata cliente. Dal sopraffino Da Enzo, a Modena, per esempio, e all’hotel Canalgrande. E quando a Milano mi voleva far mangiare la milanese, non si poteva sfuggire a Rigolo a Brera.
La mia città, Trieste per lei era una specie di santuario, visto che c’era nato Giorgio Strehler, al primo posto, assieme a Luca Ronconi, tra i registi di cui lei si era instancabilmente occupata. E sui quali aveva scritto fiumi, oltre a un fondamentale volume: Il signore della scena (per Feltrinelli).
Il suo volume per Feltrinelli, dedicato al secolo della regia
È un caso, ma guarda il caso, che io sia nato nello stesso giorno in cui è nato Luca Ronconi (qualche decennio prima, eh!). Così un 8 marzo, Maria Grazia si è presentata a casa mia per festeggiare me e, a distanza, Ronconi. E ovviamente ha voluto anche rivisitare le ceneri di Strehler nel cimitero di Sant’Anna, che dista solo un centinaio di metri.
Peccato che, nonostante marzo, fossimo ancora in pieno inverno, con un gelo e una bora che portava via le tegole. Ebbene, a quel pellegrinaggio, Maria Grazia non ha voluto in nessun modo rinunciare. E imbacuccati, assieme a Italo, come se fossimo al Polo Nord, siamo usciti a piedi per il doveroso tributo alla tomba di Strehler, suo artista d’affezione.
Fermi là, davanti al quella lastra grigia, non so se per la bora, o per l’affetto, c’erano sicuramente delle lacrime a solcarle il viso.
È ufficiale. Dopo una votazione e il ballottaggio (tra i candidati che si erano classificati parimerito) è stato finalmente reso ufficiale l’elenco dei finalisti alla edizione 2022 del Premio Rete Critica.
QuanteScene! ne aveva dato notizia in un post di qualche settimana fa. Ora il terzetto dei finalisti è definitivo. A contendersi il primo posto nell’undicesima edizione del Premio Rete Critica, che si concluderà a Napoli, al Teatro Bellini, il 5 e il 6 novembre prossimi, saranno in tre:
Teatro dei Borgia
Carrozzerie N.O.T.
Niccolò Fettarappa Sandri
La notizia trova conferma sul sito ufficiale di Rete Critica, il gruppo delle testate giornalistiche e dei blog di cultura teatrale che ha ideato il Premio. La partecipazione alla due giorni napoletana, durante la quale la giuria deciderà il vincitore 20222, è aperta a tutti gli spettatori.
Chi fin d’ora volesse conoscere da vicino le tre compagnie che si contenderanno il riconoscimento istituito nel 2011 dalle testate online di critica e di cronaca teatrale, può farlo consultando i siti e le pagine che in rete parlano dei tre concorrenti.
Teatro dei Borgia
Ecco notizie sul Teatro dei Borgia e sul loro più recente progetto: La città dei miti. Meritano attenzione anche le loro pagine su Facebook.
La città dei miti durante le repliche a Trieste, settembre 2022
Carrozzerie N.O.T.
Valutati per la progettazione culturale e la programmazione nel loro spazio, aperto nell’estate 2013 nel quartiere di Testaccio a Roma, proprio là dove aveva sede una antica carrozzeria. Ecco il sito: Carrozzerie N.O.T.
il foyer di Carrozzerie N.O.T.
Niccolò Fettarappa Sandri
Uno spettacolo, in particolare, sta portando quest’anno Niccolò Fettarappa Sandri all’attenzione del pubblico: Apocalisse tascabile, interpretato assieme a Lorenzo Guerrieri.
Apocalisse tascabile
Appuntamento perciò su QuanteScene! all’inizio di novembre. Per scoprire quale, tra i tre, sarà il più votato dalle ventitré testate e blog che quest’anno compongono la giuria del Premio.
Di festival mi occupavo ai tempi del Patalogo. Me li aveva affibbiati Franco Quadri, che con Ubulibri pubblicava quell’annuario teatrale: il più importante strumento dell’editoria teatrale italiana, summa di tutto ciò che passava stagione dopo stagione sulle scene del nostro Paese, e non solo.
Come uno scolaretto, per ogni festival di teatro, nazionale o internazionale, compilavo ogni anno una scheda. Le informazioni e i titoli di maggior rilievo in quell’edizione, qualche fotografia, uno strillo di stampa. Li studiavo ad uno ad uno. Internet non esisteva ancora: era tutto lavoro fatto a mano, e a distanza.
Le Etiopiche, di Mattia Cason, uno degli spettacoli che ha debuttato a Hystrio Festival
Una parola, parecchi sensi
La distanza, in questo momento, è quella che separa i festival di oggi da quelli di cui mi occupavo allora, anni ’80 e ’90.
Il termine è sempre lo stesso – festival – ma del tutto cambiata è la loro funzione nel sistema teatrale. Certamente anche il loro senso.
Come si siano evoluti e trasformati è ben raccontato nei libri che Mimma Gallina ha pubblicato per FrancoAngeli (a cominciare dal pionieristico Organizzare teatro a livello internazionale). Dal ruolo storico di vetrine eccellenti (aspetto che dal dopoguerra in poi si conserva soprattutto in ambito centroeuropeo, in particolare nell’area di lingua tedesca), oggi i festival si impegnano direttamente nell’ideare, realizzare e portare a debutto gli spettacoli. Cosa che ne fa, in particolare in Italia, un fattore importante nel processo produttivo.
Proprio a queste trasformazioni pensavo tornando da Milano, dopo quattro giorni a Hystrio Festival, festival neonato, quest’anno alla prima edizione. Un long weekend che mi ha ricuorato sulle sorti del teatro italiano più giovane.
Alle stesse trasformazioni mi riprometto di pensare tra qualche giorno. Quando in treno tornerò da Bologna dopo gli appuntamenti di Vie Festival, che di edizioni ne conta invece una trentina (è cominciato nel 1994 e si chiamava Le vie dei festival) ed è un punto di riferimento stabile dell’autunno teatrale italiano.
Simili ma diversi
Sono festival entrambi. Vie ha sempre avuto uno sguardo rivolto al panorama internazionale e ai grandi maestri. Hystrio Festival è ai primi vagiti, ma mostra un possibile forte respiro italiano e generazionale (nello specifico, guarda all’under 35).
Vie si squaderna per una decina di giorni in diverse località emiliane: si concentra a Bologna e Modena, ma approda anche in teatri più piccoli, a Cesena, a Vignola. Il supporto finanziario e organizzativo è quello di uno tra i maggiori teatri nazionali, ERT Emilia Romagna Fondazione.
Hystrio Festival è un invece indipendente, slegato da realtà produttive, compatto, concentrato. Si è manifestato in un solo weekend, una ventina di eventi tutti ospitati nelle tre sale del milanese Teatro Elfo Puccini, alle quali va aggiunto l’affollato bistrot del pianoterra, cuore battente di incontri, saluti, chiacchiere, discussioni, idee. Relazioni umane che, oltre gli spettacoli, restano un elemento essenziale in ogni festival.
Con la sua programmazione (affidata a una selector di grande esperienza internazionale, Barbara Regondi), Vie compete con gli altri festival italiani che nel corso del tempo hanno maturato questa missione ( la sezione DMT dal vivo della Biennale di Venezia, RomaEuropa, Contemporanea a Prato, Mittelfest…).
Ideato come espansione del Premio Hystrio, costruito pezzo per pezzo, collettivamente, dallo staff redazionale della rivista, la manifestazione milanese punta invece alla valorizzazione di una giovane generazione italiana che scrive il teatro (molti testi inediti sono stati verificati scenicamente grazie all’apporto dell’associazione Situazione Drammatica) e con le proprie forze lo realizza.
Lo staff di Hystrio Festival 2022
Plasticità
Modelli molto diversi quindi, che evidenziano la plasticità di un’etichetta stabilmente inserita tra i punti cardine dei finanziamenti allo spettacolo dal vivo (ma ci sono voluti decenni), sia in ambito nazionale (FUS) sia locale (bandi regionali).
Anche se ministero e assessorati regionali non sempre si sono dimostrati capaci di una lettura puntuale di questa evoluzione. Lo dimostrano i casi recenti e penalizzati di manifestazioni come Terreni Creativi a Albenga, in Liguria, e Primavera dei teatri a Castrovillari, in Calabria. Casi per i quali la collocazione geografica (sono entrambi espressioni di una provincia culturale lontana dagli snodi forti di Lombardia e Emilia) rappresenta certo un punto di forza, ma al tempo stesso un tallone di debolezza finanziaria. Che solo una caparbia resistenza dei loro organizzatori, e alcuni sacrifici gravi, sono riusciti in qualche modo a rimediare.
Si può quindi essere quindi metropolitani oppure localizzati, tematizzati, panoramici, lauti o stringati. Ma decisiva resta la funzione che ogni festival svolge in alternativa alle programmazioni, sempre più standard, sempre più omologate, della stabilità teatrale e dei circuiti regionali. Incapaci, o più probabilmente impossibilitati dal rapporto con i propri pubblici, a stare dietro alla evoluzione del settore.
Evoluzione che, tuttavia, è la sola possibilità di sopravvivenza dentro la crescita generazionale dei nuovi italiani, che il teatro riesce a intercettare con grande difficoltà, con enormi sforzi. Un pubblico di ventenni e di trentenni: millennials che a teatro ci vanno a fatica, indifferenti o addirittura a disagio di fronte a un linguaggio per la gran parte novecentesco e obsoleto.
Di Hystrio Festival, potete leggere qui diversi resoconti: da KLP Teatro a PAC PaneAcquaCulture, da Gagarin Magazine a 2duerighe. Di Vie, che comincia il 7 ottobre, tornerò a parlare su QuanteScene! tra qualche settimane. A presto.
Non manco mai a Contemporanea, il festival teatrale del Metastasio di Prato. Quest’anno il tempo era poco, i giorni stretti, le scadenze stringevano. Ma una serata, a Prato la dovevo proprio spendere. In cartellone c’era Gisèle Vienne. Un nome che qui in Italia non è noto a molti. Ma a dire il vero, è un fenomeno europeo. Vi racconto perché.
Pupazzi, manichini, bambole
Nemmeno io la conoscevo, prima che qualcuno me ne parlasse e me la raccomandasse. L’artista che non ti aspetti. Disturbante. Perturbante. Fuori dagli schemi. Erano frasi che mi rimbalzavano nella testa e che volevano trovare conferma.
Di Gisèle Vienne, franco-austriaca, sapevo che aveva studiato filosofia e si era formata alla più importante scuola francese per burattinai, École Nationale Supérieure des Arts de la Marionnette. Che i suoi compagni di lavoro preferiti erano pupazzi, manichini, bambole, figure di umana verosimiglianza, spesso a grandezza naturale. Che il terreno su cui le piaceva esprimersi era quel margine indistinto che separa l’animato dall’inanimato, e crea negli spettatori sensazioni di inquietudine e agitazione emotiva. Cose che amo.
Nel mondo terrificante di Gisèle
In L’etang (Lo stagno) – lo spettacolo a cui ho assistito a Prato, a Contemporanea – le aspettative hanno trovato conferma. L’antropologia insegna che a volte pupazzi e bambole sono creature del maligno, quantomeno soprannaturali. E non è certo necessario che vi ricordi quanta cinematografia abbia giocato con bambole assassine.
Gisèle Vienne non lavora certo sul versante dell’horror. Ma la sensazione che quelle sue creature appartengano a un altro mondo, parallelo al nostro, opaco, oscuro, terrificante, sembra tornare ogni volta nei suoi lavori, amplificata da una strabiliante fuga dal realismo. Che lei ottiene forzando all’estremo le luci e le componenti sonore. Effetti presenti anche in L’etang.
L’Etang – ph. Mathilde Darel
Stranianti le luci (con cromatismi superbi, degni di certa fotografia recente, o dei migliori scatti che mi capita di vedere su Instagram). Iperbolici i suoni e la musica (a Parigi, ho saputo, in occasione del suo Showroomdummies #4 agli spettatori venivano consegnati tappi per le orecchie, utili per attutire quell’estremismo).
Senza contare poi il rallentamento che, per tutta la durata dello spettacolo, Vienne impone ai movimenti dei suoi personaggi. Movenze quotidiane – camminare, sedersi, rannicchiarsi – ma così allentate, ritardate, che ci spostano su un altro mondo, dove la percezione sembra avere regole diverse.
Allo stesso modo, a farci sentire altrove, è l’effetto di ventriloquismo che le due performer di L’etang gestiscono con speciale perizia (sono soltanto due, ma i loro personaggi sono molti). Un effetto che ci allontana ancora di più dal piano della realtà. E apre l’accesso a un’ultra-realtà, che è la dimensione in cui Gisèle Vienne lavora.
L’Etang – ph. Estelle Hanania
Total white
A mettermi in allarme del resto è stata già la primissima scena. Nel total white delle quinte, del fondale, del pavimento, spicca il letto disfatto di adolescente, sopra e attorno al quale incombono figure di altri adolescenti, vestiti come tutti gli adolescenti, ma immobili, congelati nel tempo e nello spazio.
Così che, nell’impatto di quella immagine iniziale, riesce difficile capire se si tratti di attori perfezionisti o di creature inanimate. Tanta cura è posta nella verosimiglianza. Ad uno ad uno, i manichini verranno presi in braccio e portati via, affettuosamente, famigliarmente, da un assistente. Ma la percezione che si tratti di cadaveri, giovani vite interrotte, resterà fino alla conclusione del dramma.
Perché dramma è il soggetto da cui muove L’etang: un testo dello scrittore svizzero-tedesco Robert Walser ( 1878-1956). Drammoletto anzi, che spia la pulsione di morte di un adolescente il quale simula il suicidio nello stagno del titolo. Per vedere l’effetto che fa, si potrebbe dire, ironizzando. In realtà è questione di relazioni amare tra una madre e un figlio, scarti affettivi, disamori.
Lo spettacolo vi instilla il sospetto di abusi emotivi e dinamiche famigliari disturbanti (ma non troppo, se vi è mai capitato di leggere i testi dei giovani drammaturghi contemporanei).
Il volume raccoglie alcuni drammoletti di Walser
Morte per acqua
Sui margini di questa mendace morte adolescenziale, dunque, Gisèle Vienne muove i fili della sua creazione. Che ad ogni secondo di silenzio, a ogni accenno di dialogo, ad ogni minuscolo movimento, lascia lo spettatore su un altro margine: quello dell’ansia e dell’ignoto che si spalanca sotto a ciò che è visibile, però non fa parte di questo mondo. Vi sta sopra, vi sta sotto. Indecifrabile con gli strumenti del buon senso. O della narrazione.
L’Etang – ph. Estelle Hanania
Vederla ancora
È stato proprio là, nel finale di intimo coinvolgimento, che ho fatto di Gisèle Vienne un mio nuovo idolo. Da consigliare, com’era già successo con me, a chi del teatro volesse esplorare la faccia opaca, non quella rassicurante.
Alcuni lavori di Vienne sono passati già in Italia, in Biennale a Venezia già nel 2018, per esempio, e poi a Centrale Fies, al festival FOG Triennale di Milano. Ma sempre un po’ di sbieco, come se l’estraneità al mainstream nazionale, li rendesse un po’ troppo difficili per gli italiani. Solo Short Theatre, qualche settimana fa, a Roma le ha dedicato una prima e corposa”personale”.
Gisèle Vienne e Claudia Cannella discutono di Jerk alla Biennale 2018
Vi lascio alle immagini di una delle sue più recenti creazioni (proprio Showroomdummies #4, andato in scena al Festival d’Automne 2021 a Parigi).
Forse mette anche a voi, come ha messo a me, la voglia di vederla ancora.
– – – – – – – – – – – – – L’ETANG (Lo stagno) basato sulla storia originale di Robert Walser ideazione, direzione, scene, drammaturgia Gisèle Vienne eseguito da Adèle Haenel & Henrietta Wallberg luci Yves Godin design del suono Adrien Michel musica originale Stephen F. O’Malley & François J. Bonnet concezione dei burattini Gisèle Vienne produzione DACM / compagnia Gisèle Vienne coproduzione Nanterre-Amandiers CDN, Théâtre National de Bretagne, Maillon, Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, Holland Festival, Amsterdam, Fonds Transfabrik – Fonds franco-allemand pour le spectacle vivant, Centre Culturel André Malraux (Vandoeuvre-lès-Nancy), Comédie de Genève, La Filature – Scène nationale de Mulhouse, Le Manège – Scène nationale de Reims, MC2 : Grenoble, Ruhrtriennale, Tandem Scène nationale, Kaserne Basel, International Summer Festival Kampnagel Hamburg, Festival d’Automne à Paris, Théâtre Garonne, CCN2 – Centre Chorégraphique national de Grenoble, BIT Teatergarasjen, Bergen, Black Box Teater, Oslo