È un festival vecchiotto, quello di Spoleto, che quest’anno arriva al traguardo delle sessanta edizioni. Vecchiotta, del resto, è la stessa Spoleto, che nei bar e nelle vetrine espone ancora manifesti con una giovane Carla Fracci e fotografie del maestro Menotti – il gran fondatore – scattate probabilmente sessant’anni fa.
Lo scorso ottobre qui si è sentito il terremoto, ma non c’è terremoto che tenga, se lungo il Corso si vede ancora passare, ora a luglio, quando il festival vive le sue giornate più intense, qualche dama romana in abito da sera, o certi artisti in cappello, vestito a colori sgargianti, quel gusto dandy.
Come se non fosse passato mai il tempo raccontato da Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia. Che è un libro del 1963. Appunto.
E come una di quelle insalate, che in Italia si chiamano Macedonia, il Festival dei Due Mondi edizione sessantenario mette in cartellone un po’ tutto. Dal Don Giovanni di Mozart con la regia del direttore dello stesso festival, che è Giorgio Ferrara, a Fiorella Mannoia e Mario Biondi. Dal gala popular di Roberto Bolle and his friends a un’edizione in cinese di una vecchia commedia di Dario Fo. Un debutto di Emma Dante e gli eterni salotti di Paolo Mieli. Ma non mancano Corrado Augias, Ernesto Galli della Loggia, Federico Rampini e figlio. Il bel mondo dei due mondi, insomma.
A spingermi fino a Spoleto, nel bel cuore umbro dell’Italia, è stata però una locandina che prometteva. In testa, due nomi pesanti: Heiner Müller e Robert Wilson. Poi un titolo che ha eco profonde: Hamletmaschine. Infine gli interpreti: gli allievi attori dell’Accademia nazionale Silvio d’Amico.
Si sarà capito che andare a curiosare negli spettacoli dei giovani e giovanissimi interpreti che studiano nelle accademie, è una cosa che mi piace. Detto in due parole: il loro è il teatro di domani. Anche se non per tutti. Anche se non non per sempre. Ma si tratta comunque del respiro di un’altra generazione e di idee fresche, spesso ammirevoli. Vale la pena stare ad ascoltarle, imparare da loro.
La formula che metteva insieme i due antichi maestri (Müller è scomparso nel 1995, Wilson ha 75 anni) e i ventenni che ancora studiano all’Accademia mi è sembrata interessante. Anche perché l’amicizia e la stima tra Müller e Wilson avevano fatto sì che negli anni ’80, il regista americano mettesse in scena il testo del drammaturgo tedesco proprio con gli allievi di teatro della New York University.

Ne era uscito, quella volta, uno spettacolo abbastanza memorabile, che non ero riuscito a vedere. Quale miglior occasione, se non questa di Spoleto, anche a costo di trascurare gli altri spettacoli, quella macedonia che il programma stipava tutti in una giornata.

Ne sono uscito, io questa volta, abbastanza sgomento. Non per il lavoro dei quindici allievi attori che devono aver fatto salti mortali per eseguire tale e quale la partitura teatrale orchestrata da Wilson trent’anni fa. Ma per essermi accorto, proprio grazie a questa formula, di quanto l’inconfondibile stile wilsoniano, così radioso nei miei ricordi e pure in allestimenti recenti, sveli proprio grazie a questa nuova copia dal passato, tutte le crepe, le ingessature, i tic di un maestro del ‘900, che del Novecento rimane un’icona. Ma senza mai aver oltrepassato il limite del secolo.
I fondali dai cromatismi intensi, le posture ingessate dei personaggi, il rigore formale che si autodenuncia come estetismo. E quel gusto, molto anni ’80, seriale, minimalista, di ripetizioni, e ripetizioni delle ripetizioni, e ripetizioni di ripetizioni delle ripetizioni, che fanno lievitare un testo di nove pagine gonfiando uno spettacolo fino a quasi due ore. Ogni tanto, il sollievo, di una giuntura musicale che Wilson aveva allora scelto dal suo jukebox colto. Schubert, oppure un tango di Peggy Lee.
È chiaro che in certi momenti si rimane incantati. Ma l’incantesimo fa presto a sciogliersi in stanchezza. Perché sulla lunga distanza il cliché si manifesta. Come quel dondolarsi delle attrici sulla sedia di sbieco, per esempio, che sarà pure una autocitazione da Einstein on the beach, ma che nessuno coglie e si ripete vuota. Mentre tra il pubblico del Teatrino di San Nicolò, soprattutto le giovani generazioni continuano per tutto il tempo a smanettare sullo smartphone, alzando solo ogni tanto lo sguardo sulla scena. Con uno sbuffo di sufficienza.