Sala piena. Sala vuota. Quanto contiamo, noi spettatori, in teatro?

L’impatto che uno spettacolo, una stagione teatrale, un festival, hanno sul pubblico si valuta anche dai posti rimasti liberi e dai posti occupati. A volte, più che l’allestimento, più che il programma, conta in quanti siamo, là, seduti in sala. Un invito a pensarci.

Ecloga XI di Anagoor - ph Giulio Favotto
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto

Due premesse

Premessa indispensabile. Una sala da 1000 posti è un fatto. Una da 200, un fatto di tutt’altro tipo. Per chi gestisce un teatro, per chi programma un’iniziativa, per chi ha un naturale bisogno di pubblico, la seconda è più facile da riempire. Ovviamente. La sfida è la prima. La tradizione storico-operistica dei teatri italiani ha dotato le principali città di sale grandi, storiche, importanti. Molte superano i 1000 posti. Purtroppo, o per fortuna.

Seconda premessa. Ci sono spettacoli, anche belli, che in una sala grande muoiono, annegati dall’ampiezza del palcoscenico, sterminati dal numero dei posti rimasti vuoti.

Allo stesso modo, ci sono spettacoli che in una sala piccola non possono proprio stare. Vuoi perché sono pensati in grande, dal punto di vista scenografico, o per la numerosità di chi ci lavora. Vuoi perché il loro costo non consente di limitarli a un pubblico di poche centinaia di spettatori. Certo, si possono programmare più repliche, ma ogni replica moltiplica il costo.

Ci pensavo mentre…

Scrivo ciò anche per condividere delle riflessioni che mi passavano per la testa, mentre vedevo alcuni spettacoli al Festival Vie, una delle principali iniziative di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Fedele a una storia trentennale, il festival si tiene in alcuni teatri emiliani (Bologna, Modena, Vignola) e della Romagna (Cesena). Quindi in diverse sale: alcune più ampie, altre meno.

Imagine, di Krystian Lupa

Il grande e storico edificio del Teatro Storchi a Modena, per esempio, ha circa mille posti. Vederli vuoti per una buona metà, insieme a gallerie desolate, è stato una specie di amplificatore della delusione per chi ha assistito a Imagine, la produzione dei Teatr Powszechny di Varsavia e Łódź, con la regia del polacco Krystian Lupa

È il polpettone di rimpianti generazionali e di aspirazioni fuori tempo di un artista che presto compirà 80 anni e che, comunque, ha un magistrale passato alle spalle. Ma sembra qui accontentarsi di accarezzare (problematicamente) i figuranti di un’epoca passata. In scena ci sono personaggi chiamati Janis, Joan, Susan (cioè Joplin, Baez, Sontag…), tanto per dirne alcuni, convocati da un certo Antonin (si suppone Artaud) in uno slabbrato salotto per discutere del come eravamo e come siamo. 

Imagine di Krystian Lupa - ph NK - Vie Festival - Modena - Sala Teatro Storchi
Imagine di Krystian Lupa – ph NK

A sedere nel titolo è Image di John Lennon (e la iconica clip girata nella white room della sua villa a Tittenhurst Park), e tutto il portato di comunismo utopico della canzone. Quella brigata di reduci si attarda invece a chiacchierare, anche violentemente, stravaccata sulle poltrone e a fare autocoscienza sulle proprie sconfitte. Per ben due ore. Faticose, sul serio. Tralascio le tre ore successive, più faticose ancora, in cui la tensione dello spettacolo e le situazioni sceniche si mostrano inversamente proporzionali alle ambizioni della regia.

Audience Amplification

Amplificatore in senso positivo è invece la sala piccola del Arena del Sole, intitolata allo scomparso regista Thierry Salmon. Là sì soli 200 spettatori, che occupano tutte le sedute, qualcuno perfino in piedi, hanno potuto creare quell’elettricità, quella tensione tra palcoscenico e pubblico, che certo ha portato fortuna al debutto di titoli come Gli anni di Marco D’Agostin e Marta Ciappina (ne ho parlato in un post precedente). O come Il Capitale – un libro che ancora non abbiamo letto, della compagnia Kepler-452. 

Il Capitale, di Kepler-452

C’erano, soprattutto in questa proposta, motivi anche emozionali e di solidarietà. I tre lavoratori di un’azienda messa in liquidazione (la GKN di Campi Bisenzio) e il loro rappresentante sindacale raccontavano la propria storia di mobilitazione e occupazione dello stabilimento toscano che produce (produceva, anzi) semiassi per veicoli. La GKN è stata messa in liquidazione, nel luglio 2021, dalla multinazionale proprietaria, con il contestuale licenziamento via mail dei 422 dipendenti. Oggi gli operai sono ancora in presidio, all’interno dello stabilimento, a macchinari fermi (qui è riassunta la vicenda).

Un impatto – la presenza in questo spettacolo di persone, i tre operai, non di personaggi – che ha avuto la capacità di squarciare il tran tran teatrale (per dire, la drammaturgia contemporanea). 

Tanto più nella serata ad alto voltaggio che ha visto in platea anche compagni di lavoro dei tre – Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – promossi perfomer dalla poetica politica di Nicola Borghesi e del coautore, Enrico Baraldi.

Il Capitale - Kepler-452 - ph Enrico Baraldi (Vie Festival- Sala Salmon)
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi

Va detto che alcuni precedenti titoli di Kepler-452 (dedicati agli espropri eseguiti in nome del parco alimentare Fico, alle sorti dei rider in tempo di pandemia, all’annullamento di identità sociale degli immigrati senza dimora, allo hate speech in Rete) hanno avuto, su di me almeno, impatto più forte.

Agivano più da vicino e con maggior consapevolezza di classe – o di ciò che un tempo era lotta di classe – rispetto a questo reportage di fabbrica, emozionale certo, condiviso certo. Però anche viziato dal paradosso di una critica del capitalismo globale, dello sfruttamento del capitale umano, della mercificazione del tempo che ci consegna la vita (e non son mica bazzecole), esercitata attraverso uno strumento supremamente mercantile come è uno spettacolo teatrale, prodotto da uno dei più finanziati stabili italiani. Rispolverando Marx, uno spettacolo possiede un questionabile valore d’uso, ma nasce e vive in una elitaria economia di scambio.

Il Capitale - Kepler-452 - ph Enrico Baraldi (Vie Festival- Sala Salmon)
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi

Però il respiro di quella sala piena, la partecipazione, la condivisione, la vicinanza stretta di un sentimento solidale, hanno certo minimizzato il problema economico-filosofico. E decretato la standing ovation di un pubblico toccato profondamente. Funziona così. 

Ecloga XI, di Anagoor

Era un punto di riflessione che mi pareva utile esportare, magari sul piano estetico, quando mi è apparso davanti, al Teatro Fabbri di Vignola, il nuovo lavoro della compagnia Anagoor. Concentrato sulla rilettura teatrale dell’opera poetica (più precisamente della raccolta di versi IX Ecloghe, 1962) di uno dei grandi del ‘900 letterario italiano: Andrea Zanzotto. 

La sala di Vignola che conta 450 posti, abbastanza vuota anch’essa, era tuttavia popolata da operatori stranieri (programmatori, direttori di teatro, curator, selector…). Giustamente invitati al nuovo debutto dal gruppo che, in anni non lontani, ci ha dato titoli sapienti come Virgilio brucia e Socrate, il sopravvissuto.

Peccato che la poesia di Zanzotto – per il quale personalmente nutro stima – sia ostica sul serio. Al 93% degli italiani (il calcolo è mio) riuscirebbe incomprensibile, anche per il lessico che il poeta adotta. Nello spettacolo non veniva tradotta in altre lingue. 

Capisco la difficoltà di tradurre poesia, ma non veniva tradotta nemmeno la lunga conversazione dei due attori, Leda Kreider e Marco Menegoni. Davanti alla riproduzione della Tempesta di Giorgione, da cui erano state abolite le due figure umane, i loro Adamo e Eva riflettevano sull’emergere del paesaggio naturale della pittura umanistica: un piccolo saggio di storia dell’arte.

Ecloga XI di Anagoor - ph Giulio Favotto
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto

Mi domandavo: se faccio fatica io, italofono, a seguire il dettato poetico di Zanzotto, come mai faranno gli stranieri, senza traduzione, a comprendere il principale veicolo dello spettacolo che, in sostanza, era linguistico. Poetico, anzi.

Bella domanda: tanto più decisiva dopo, quando ho scoperto che buona parte di quel pubblico internazionale ha avuto parole di apprezzamento per Ecloga XI. A colpirli dev’essere stato l’annerimento totale della Tempesta giorgionesca, a forza di rullate di vernice scura. Oppure le strane forme al neon e luce di Wood che pendevano dall’alto nella seconda parte.

Chissà che a motivare la mia perplessità – mi sono detto allora – non sia l’effetto sala: solo poche decine di persone per 450 posti, capaci di annientare questo “omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto“, come dice il sottotitolo.

Ripensandoci ora, non credo sia esattamente così: non era solo l’effetto di una sala vuota.
Ma perciò, se vi capitasse di vedere Ecloga XI da qualche altra parte, ne riparliamo assieme.

– – – – – – – – – – – – – 

IMAGINE
regia e scenografia Krystian Lupa
testo Krystian Lupa e creazione collettiva degli attori
musica Bogumił Misala
costumi Piotr Skiba
con Karolina Adamczyk, Grzegorz Artman, Michał Czachor, Anna Ilczuk, Andrzej Kłak, Michał Lacheta, Mateusz Łasowski, Karina Seweryn, Piotr Skiba, Ewa Skibińska, Julian Świeżewski, Marta Zięba, voce fuori campo Krystian Lupa
coproduzione Teatr Powszechny Varsavia, Teatr Powszechny Łódź

IL CAPITALE 
Un libro che ancora non abbiamo letto

un progetto di Kepler-452
drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con Nicola Borghesi
e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – Collettivo di fabbrica lavoratori GKN
e con la partecipazione di Dario Salvetti
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

ECLOGA XI
testi di Andrea Zanzotto
con Leda Kreider e Marco Menegonim
usiche e sound design Mauro Martinuz
drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto
regia, scene, luci Simone Derai
voce del Recitativo Veneziano Luca Altavilla
produzione Anagoor 2022
coproduzione Centrale Fies, Fondazione Teatro Donizetti Bergamo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, Operaestate Festival Veneto

– – – – – – – – – – – – – 
Se scorri ancora più in basso, sul tuo cellulare, trovi l’elenco degli articoli di QuanteScene! più letti oggi.

Ecco perché dovremmo amare Angélica Liddell. Oppure odiarla

Ogni spettacolo di Angélica Liddell è un’avventura. E spesso, per lo spettatore, è un’avventura che fa male, che lascia il segno. Anche solo per questo, noi spettatori, dovremmo amare Angelica Liddell. Oppure odiarla.

Angélica Liddell - Liebestod - ph. Christophe Raynaud de Lage
Liebestod – tutte le foto sono di Christophe Raynaud de Lage

Liebestod (che equivale a “morir d’amore”) è uno dei suoi titoli più recenti. Dal debutto a luglio 2021 a Avignone, lo spettacolo è ora stato ospite a Bologna, nella stagione di Ert-Emilia Romagna Teatro Fondazione. E ha lasciato il segno anche qui. Fisicamente, come sempre, sul corpo della performer. Idealmente, nell’animo di chi lo ha visto.

“L’odore del sangue non mi va via dagli occhi”

Anche in Liebestod, come in tanti altre sue creazioni, ritorna il sangue. Liddell lo fa scorrere fin dall’inizio, quando con le lamette infligge tagli aguzzi alle proprie ginocchia.

È lo stesso sangue che sgorgava in Te haré invencible con mi derrota, la sua prima apparizione italiana, nel 2011 al festival Vie, creazione dedicata alla prematura scomparsa della violoncellista Jacqueline Du Pré.

Lo stesso sangue che veniva prelevato dal braccio e disperso in Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, lo spettacolo che a Vicenza nel 2015 aveva suscitato scandalo sui giornali, esorcismi e processioni integraliste.

Il sangue, quello autentico, è invece garanzia di realtà, di verità. Sanguinare è l’opposto di recitare, fare teatro, fingere.

Il sangue, in Liebestod, si può spiegare in modo ancora più definitivo. Ancora più legato alla personale storia di Liddell. Un modo che è concreto e metaforico assieme. È il sangue che bagna l’arena nelle plazas de toros della Spagna dove Liddell è nata (a Figueras, 56 anni fa) . E’ il sangue mischiato di tori e toreadores, che sempre si sono sfidati in duelli mortali. Ciò che aveva fatto piangere García Lorca alle 5 della sera, e affascinato Hemingway, che ne diede conto in Morte nel pomeriggio. È quel sangue – recita il sottotitolo –  il cui odore non mi va via dagli occhi.

Liebestod secondo Liddell è un rito iniziatico che introduce il pubblico al mistero glorioso del toreàr: l’arte crudele e aberrante che da secoli, se non millenni, si è affermata nel mondo iberico e latino. È un tributo offerto al fondatore moderno di questa pratica, così riprovevole oggi, Juan Belmonte, “il più grande torero di tutti i tempi”: tauromachista con più di 50 trafitture e un finale suicida.

Angélica Liddell - Liebestod - ph. Christophe Raynaud de Lage
Liebestod – ph. Christophe Raynaud de Lage

“Scrivere con il sangue, solo allora ci si renderà conto che il sangue è spirito”.

Ci sono due mondi che convergono negli spettacoli di Liddell. Il primo è quello della scrittura, di cui la performer è una mistica devota. Scrittura che sgorga a fiotti, senza filtri né impedimenti, e passa calda attraverso la sua voce, sempre diretta, rauca, arrotata, irrevocabile. In Liebestod dice:

Mi sei entrato entrato nel cuore con un fucile.
Mi sono fatta una corona funebre con il tuo silenzio.
Mi sono comprata una casa per pensare a te.
Ti regalerò la mia veste battesimale.
Sei la seta del mio divenire cristiana
Lascia che sia la tua evangelista.
La tua puttana della corona di spine.
La tua Madonna della Macarena con i canini.

L’altro mondo è quello delle immagini, che portano la scena ai livelli alti dei maestri del teatro contemporaneo. La geometria e la pulizia delle linee, la carica del colore, l’immensità dello spazio e la minuta fisionomia di lei che lo abita. Occupandolo tutto però.

Angélica Liddell - Liebestod - ph. Christophe Raynaud de Lage

Quando questi due mondi convergono, ecco che si realizza il miracolo terribile: la realtà si incarna nell’ideale. E viceversa. È il punto in cui la propria storia personale e quella pubblica coincidono. Il limite autodistruttivo in cui la sua vita e la sua morte si congiungono e si celebrano a vicenda. 

Angélica Liddell - Liebestod - ph. Christophe Raynaud de Lage

Il Liebestod di Liddell non è quello wagneriano di Isotta sul corpo di Tristano, pur adeguatamente citato e fatto risuonare a lungo in sala.

È il desiderio più profondo dell’artista, più esattamente di questa artista. Il cui nome paradisiaco, Angélica, fa il paio con quello della sua compagnia, Atra Bilis, bile nera, e si accoda perfettamente con i libri e i lavori che hanno preceduto questa ennesima aspirazione funebre. Titoli come: Lesioni incompatibili con la vita. Greta vuole suicidarsi. Trilogia dell’afflizione. Cane morto in tintoria.

Angélica Liddell - Non devi far altro che morire nell'arena- Luca Sossella Editore

“L’unica cosa che ci libera dalla morte è desiderarla”

Di Angélica Liddell, o non si accetta nulla (e le si diagnostica una sindrome maniaco-depressiva, costellata da pulsioni suicide). Oppure si accetta tutto, anche la via crucis, anche l’estremismo, anche la spudorata autoflagellazione. Che a volte sfiora il ridicolo, ma ci fa sorridere incantati.

Flagellando se stessa dice:

“Non sarai mai Isotta. Non vedrai mai Tristano. Vuoi essere Angélica di Dio e non fai altro che lavare i vestiti sporchi dei preti. Sei stufa di scrivere per donne e froci, non è così? (…) Ti sarebbe piaciuto emozionare i grandi pensatori e i grandi maestri con la tua scrittura. Invece ti devi far bastare un sacco di entusiasti sciocchi e insignificanti. La tua scrittura cresce fino all’infima altezza dei tuoi lettori più mediocri: femministi, studenti, artigiani, tesisti, fanatici e moderni, (…) imitatori da sagra, venditori ambulanti, falsificatori e caricature, gentaglia priva di qualsiasi talento, petulanti appiccicosi, instagrammer social-totalitari di merda, fan di merda…”.

Fan di merda, noi dunque. Che se lo dice lei, possiamo stare tranquilli.

Prima di Liebestod

Qui sotto, l’intervista di Altre Velocità a Angélica Liddell in occasione della sua prima apparizione italiana (a Carpi, nel 2011 per il festival Vie): Te haré invencible con mi derrota: la mia sconfitta ti renderà invincibile.

Qui invece il link a una clip dallo spettacolo.

– – – – – – – – – – – – – – –

LIEBESTOD
testo, regia, scene, costumi Angélica Liddell
con Angélica Liddell, Gumersindo Puche, Palestina de los Reyes, Patrice Le Rouzic, Borja Lopez, Ezekiel Chibo
assistente alla regia Borja López
disegno luci Mark Van Denesse
luci Dennis Diels
suono Antonio Navarro
produzioneNTGent, Atra Bilis Teatro, in coproduzione con Festival d’Avignon, Tandem Scene National Arras-Douai, Kunstlerhaus Mousonturm (Frankfurt)
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone, Roma
foto di scena Christophe Raynaud

Marta Cuscunà Earthbound. Perché il futuro è dietro la porta

Earthbound è il titolo del nuovo spettacolo di Marta Cuscunà. Uno sguardo contemporaneo su ciò che sarà il pianeta tra duecento anni.

“Non credo che ci trasformeremo in automi” ha detto qualche giorno al Festival della Letteratura a Mantova, il filosofo Slavoj Žižek. Uno che ha parecchio sèguito e uno sguardo spesso rivolto al futuro.

Eppure, già dal titolo del suo più recente libro Hegel e il cervello postumano è chiaro che secondo lui – garantista umano a oltranza – in qualcosa d’altro ci trasformeremo. 

Earthbound - Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

In che cosa ci trasformeremo?

Magari in quelle strane creature, un po’ tricheco, un po’ pipistrello, che Marta Cuscunà immagina abitare il mondo nel 2425. Ce le presenta nel suo più recente lavoro teatrale Earthbound, lei, creatrice e performer che già nel 2018, in Il canto della caduta (vedi qui e anche qui) aveva tentato il salto nel tempo e gettato uno sguardo su una remota comunità che non sapeva che farsene della guerra. Millenni fa, naturalmente.

Cuscunà ora guarda avanti, molto avanti, e affascinata dalla fantascienza radicale di Donna Hataway, prova a immaginare, con i mezzi teatrali di adesso, quel che potrebbe essere l’orizzonte umano, post-umano, o trans-umano – lo scopriremo vivendo – di domani.

Però la fantascienza, anche la più avanzata, come questa creata da Haraway, eco-femminista statunitense, autrice del Manifesto Cyborg, non è una previsione di futuro. È invece – almeno a mio avviso – la capacità di leggere l’oggi da un punto di vista diverso da quello abituale e banale. Giornalistico, in definitiva.

Marta Cuscunà e un pupazzo - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Posizione 2425

Seguiamo dunque Cuscunà e teletrasportiamoci assieme a lei nel 2425. Che sarà un mondo fortemente inquinato e infetto (proprio come quello odierno). Che vedrà le intelligenze artificiali svolgere tutti i compiti di routine (come succede già oggi). Un mondo in cui l’homo sapiens si abituerà a convivere con altre creature che si saranno evolute grazie a salti di specie (e anche su questo oggi siamo abbastanza ben informati, e perfino vaccinati).

Il futuro insomma è dietro la porta. Anzi, è già entrato.

EarthBound. Legati al pianeta, dipendenti dalle tecnologie

Pure il vocabolario usato dalle future creature sembra quello contemporaneo. Parole come connessione, abilitazione, sincronizzazione, tornano spesso, a ricordarci che ieri, come oggi e come domani, siamo stati e saremo sempre dipendenti dalla tecnologia.

Molti millenni erano la fusione e la lavorazione dei metalli. Ci si sono poi messi la polvere da sparo, il motore a vapore, quello a scoppio, quello elettrico, e infine Steve Jobs e Bill Gates, ad asciugarci il sudore della fronte e a indirizzarci verso una vita sedentaria.

Quella che le future creature di Earthbound sembrano esercitare nel loro habitat, ora spiaggiate sopra uno scoglio, ora appese per le zampe a un ramo, oppure rannicchiate come una pianta cactacea nella propria comfort zone.

Earthbound. Abitanti di un’enorme sfera che gira

Nell’impianto scenografico che Paola Villani ha preparato per Earthbound c’è una enorme sfera abitata che gira. E lascia di volta in volta intravedere questi nuovi esseri – simbiogenetici scrive Haraway – cui le leggi del sovrapopolamento hanno ostacolato la riproduzione. Oppure dà visibilità a esseri decrepiti e fisicamente impotenti (in pratica, la nostra specie, oramai prossima all’estinzione). 

Earthbound - Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Di lato, Villani ha collocato un alberello stentato, per dire che la natura naturans comunque esiste ancora. E si potrebbe in qualche modo farla rifiorire, grazie alle tecnologie green, naturalmente.

A fare la spola tra la sfera e l’alberello c’è Marta Cuscunà, che si muove veloce e disinvolta su un monoruota (se non immaginate che cos’è, vedetevi questo link) e dà voce a una futura intelligenza artificiale. Non troppo diversa però dall’Alexa contemporanea di Amazon (vedi qui un mio post su di lei), anche nelle numerose e divertenti defaillance di cui è zeppa la vita degli/delle assistenti digitali di oggi.

Marta Cuscunà - ph Guido Mencari
Earthbound – Marta Cuscunà – ph Guido Mencari

Animatronica

Dovessimo usare parole difficili, diremo che la distopìa annunciata da Donna Haraway e portata in scena da Cuscunà, con pupazzi animatronici (cioè meccanismi rigorosamente mossi a mano) è un’immagine dello stato di equilibrio delle società odierne.

La contesa tra la spinta all’innovazione avventurosa e le sicurezze riposte nella tradizione. O con più semplici parole, l’inestinguibile battaglia tra progressisti e conservatori, tra gli integrati e gli apocalittici che Umberto Eco immaginava scontrarsi nella cultura di massa. E che oggi si è trasferita, nel mondo occidentale almeno, ai consumi di massa. Letali, come si sa, per la sopravvivenza del pianeta.

Gli aggeggi aninatronici di Earthbound - ph Guido Mencari
Gli aggeggi aninatronici di Earthbound – ph Guido Mencari

Su questo Haraway e l’antropologo francese Bruno Latour (da cui Cuscunà ha ripreso il titolo Earthbound) hanno parecchie cose da dire.

Gli spettatori più attenti sapranno coglierle e ci rifletteranno sopra. Io per esempio vi ho scorto la somiglianza tra intelligenze artificiali e immortalità dello spirito. Che è un pensiero parareligioso.

Altri, meno portati a sognare il futuro, potranno seguire la favola , ma senza entusiasmarsi troppo. Perché l’avvenire non è materia per tutti i palati.

Se vi interessa tuttavia sapere qualcosa di più su Haraway e sul suo romanzo, andate qui e buona lettura.

Oppure guardatevi questo video:

– – – – – – – – – – –
EarthBound
ovvero le storie delle Camille

liberamente ispirato a Staying with the trouble di Donna Haraway
di e con Marta Cuscunà
scena Paola Villani
assistenza regista e scenografica Marco Rogante
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Etnorama
con il sostegno di São Luiz Teatro Municipal (Lisbona)
con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, i-Portunus, A Tarumba – Teatro de Marionetas (Lisbona)

Quattro nonni, quattro nipoti. Così Rimini Protokoll racconta sogni, speranze, illusioni a Cuba

Granma. Metales de Cuba. Per due serate in scena a Bologna, la più recente creazione del gruppo tedesco Rimini Protokoll, coproduzione di nove istituzioni internazionali, tra cui Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Trombones en La Habana (ph. Mikko Gaestel Expander)

Mi è piaciuto subito, il titolo. Ma solo alla fine ho capito perché. Perché in tre parole riassume ed esaurisce uno spettacolo e un progetto, i più recenti tra quelli di Rimini Protokoll. Granma. Metales de Cuba è la creazione che nel corso di tre anni ha portato Stefan Kaegi e il suo gruppo di lavoro a Cuba.

Granma è il nome del piroscafo con il quale, nel 1956, partiti dal Messico, Fidel Castro e un’ottantina di esuli cubani raggiunsero una spiaggia dell’isola. E da là diedero il via a una tra le più longeve rivoluzioni del secolo passato.

Lo sbarco dei rivoluzionari cubani sulla spiaggia di Las Coloradas, 2 dicembre 1956

Ma Granma, in quell’inglese che anche a Cuba si mastica volentieri, vuol anche dire grandmother, nonna. E di nonne e nonni cubani parla lo spettacolo che nel titolo contiene ancora un’altra cosa: los metales, cioè gli ottoni: quattro sontuosi tromboni.

Nonni e nipoti

Milagro, Daniel, Christian e Diana sono quattro giovani cubani, tra i 24 e i 34 anni. Ciascuno di loro ha avuto un nonno o una nonna che ha dato il proprio sostegno alla rivoluzione castrista. Chi nei modi più semplici e quotidiani, cucendo vestiti, o suonando in un’orchestra. Chi investito di un ruolo politico e ufficiale. Quattro nipoti, perciò, raccontano quattro nonni. Ne ripercorrono la storia e gli ideali. Li confrontano con la propria storia e i propri ideali. Sempre che esistano ancora, gli ideali.

Granma (ph. Dorotea Tuch)

Sulla sinistra, in palcoscenico, un podio. Come quello dei discorsi ufficiali, pronunciati al microfono davanti a migliaia di persone. Ce ne sono infinti, trascritti negli annali della storia di Cuba. A destra, una macchina da cucire, di quelle di un tempo, a pedale. A turno i quattro nipoti si danno da fare e cuciono il lungo nastro di stoffa che dal 1956, l’anno che diede il via alla Rivoluzione, si estende fino al nostro decennio, nel quale, la rivoluzione a Cuba, è sopratutto quella turistica.

Su tre schermi, si srotolano intanto fotografie e filmati, grazie ai quali conoscere i quattro vecchi e al tempo stesso la storia e la rivoluzione di Cuba viste con gli occhi di chi le ha fatte, credendoci fino in fondo. Quello sguardo che Carlo Ginzburg e gli storici francesi ci hanno insegnato a definire microstoria, piena di indizi oltre che di documenti ufficiali.

Granma (ph. Ute Langkafel)

Le microbigradas

Grazie a Diana, che aveva il nonno musicista, i quattro hanno formato una microbrigada, formula che per cinque decenni è stata il modello di lavoro cooperativo a Cuba. Sotto la guida di un professionista, chi non è affatto esperto comincia, esegue e porta a termine un lavoro. Grazie alle microbrigadas, a L’Avana si sono costruite case, palazzi, strade. Si sono portate quasi ovunque acqua ed elettricità. Si sono avviate aziende e ospedali. Loro, i quattro nipoti, una microbrigada, hanno imparato a suonare uno strumento: il trombone.

E della musica di questi ottoni, los metales, e di canzoni, si riempie via via lo spettacolo. Oltre che di frequenti lanci di baseball, il più diffuso sport cubano. In cui si impegnano però gli spettatori, che tirano in palcoscenico palle fatte di stracci, come quelle con cui si sono divertite generazioni di ragazzini sull’isola. E la mazza è una bottiglia di plastica.

Granma (ph. Dorotea Tuch)

Gli esperti del quotidiano

Con Granma, Kaegi e il suo team tornano a quel prototipo di lavoro teatrale che ha fatto conoscere Rimini Protokoll, e li ha fatti diventare campioni di un teatro post-drammatico. Il portare in scena non interpreti, ma Experten des Alltags, esperti del quotidiano. Persone che possano restituire al pubblico la propria esperienza in un particolare campo, settore, nicchia del mondo, nella quale è stato pensato il progetto.

Meno clamoroso di Shooting Boubaki (2002, cinque tredicenni con la pistola in mano), meno estremo di Nachlass (2016, dove lo spettatore si confrontava direttamente con l’avvicinarsi della morte), Grandma mette però in primo piano e delicatamente ritraccia il solco che c’è tra l’utopia e la vita. Tra l’ideale e la pratica, tra la speranza e la sua realizzazione: l’immaginario ideale democratico che l’Europa progressista riconobbe nella rivoluzione cubana: una delle più iconiche del ‘900, con i suoi eroi mediatici (Fidel e “Che” Guevara), ma soprattutto con i suoi working class heroes.

Cioè sarte, suonatori di trombone, donne e uomini che presero in mano le armi, tagliarono la canna da zucchero, soffrirono, si sacrificarono. Motivati e fiduciosi. Sognatori. Forse non con lo stesso sogno che porta oggi, sul bellissimo lungomare di L’Avana – il Malecón, spazzato dalle onde – le orde del turismo globale. Meglio o peggio di ieri, chissà, sembra sottolineare lo struggimento dell’ultimo filmato di Granma.

Il filmato di una storia scritta nei libri, tanti, ma riscritta da questi nipoti. Perché le leggi dell’ereditarietà insegnano che è tra la loro generazione e quella dei nonni – non quella dei genitori – che si stabiliscono le affinità più forti.

Se vuoi vedere com’è stato costruito Granma, metales de Cuba, vai qui.

Granma Rimini Protokoll 2.jpg
Granma (ph. Dorotea Tuch)

Granma. Metales de Cuba
un progetto di Rimini Protokoll, concept e regia Stefan Kaegi, drammaturgia Yohayna Hernández e Ricardo Sarmiento
con Milagro Álvarez Leliebre, Daniel Cruces-Pérez, Christian Paneque Moreda, Diana Sainz Mena
ricerca a Cuba Residencia Documenta Sur, coordinata da Laboratorio Escénico de Experimentación
produzione Rimini Apparat e Maxim Gorki Theater Berlin, in coproduzione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival d’Avignon, Festival TransAmériques, Kaserne Basel, Onassis Cultural Centre-Athens, Théatre Vidy-Lausanne, LuganoInscena-Lac, Zürcher Theaterspektakel, con il contributo di German Federal Cultural Foundation, Swiss Arts Council Pro Helvetia e Senate Department for Culture and Europe in collaborazione con Goethe Institut Havanna.

Spettacolo in lingua spagnola sopratitolato in italiano (135 minuti)

La scena selvaggia di Ivica Buljan. Antiteatro tra Seneca e Bolaño

Leggere letteratura come se fosse teatro. O viceversa. Dal sangue e dalle atrocità di Tieste alla passione infuocata del regista croato per 2666, romanzo arcipelago di Roberto Bolaño.

Ho ancora il rammarico di non essermi imbarcato, la scorsa estate, sul traghetto per Silba (in italiano Selve). Silba è una isola piccola e selvatica della Dalmazia settentrionale, famosa cent’anni fa per il suo vino e le sue dinastie di marinai, e oggi proibita ad auto e moto. Ma non è questo che conta. Nell’agosto del 2016 il Mini Teater di Lubiana aveva scelto Silba per il debutto del nuovo spettacolo di Ivica Buljan, regista croato e dal 2014 direttore del settore Drama del Teatro Nazionale a Zagabria.

Ho stima di Buljan. Nell’ultimo decennio ho visto molti dei suoi spettacoli e mi sono sentito quasi sempre in sintonia con il suo lavoro post-drammatico, anche quando il punto di partenza erano materiali intrinsecamente drammatici.  Zio Vanja di Cechov ad esempio (nel 2014, al Teatro Stabile Sloveno di Trieste), testo che il regista aveva affidato al restyling di uno scrittore e sceneggiatore alquanto esplosivo, Nejc Gazvoda.

Durante i suoi sopralluoghi estivi, Buljan è riuscito a trovare a Silba, in quell’ambiente naturale, quasi incontaminato, il luogo esatto per mettere in scena Thyestes. Tragedia selvaggia, tribale, con gesti estremi e massacri spietati, il Tieste di Seneca evoca perfino un episodio di cannibalismo. La parola precisa sarebbe tecnofagìa: per dire che il padre si ciba, pur inconsapevole, della carne dei propri figli. Così come il vuole il vendicativo mito dei due fratelli Tieste e Atreo.

buljan_tijest_7

Mi spiace di non aver assistito – all’aperto, tra terra, sassi, animali in libertà, bracieri ardenti, attori vestiti e svestiti con costumi arcaici – alle sequenze che Buljan aveva ideato maneggiando il sanguinoso storytelling dell’autore latino. Le fotografie da Silba e poi quelle dallo spazio chiuso di Sveti Nikola a Zara ne restituiscono appena l’eco, con la memoria che corre alle immagini della prima mezz’ora della Medea di Pasolini. Pure lei selvaggia eroina di Seneca, del resto.

buljan_tijest_6

Altrettanta selvatichezza ho ritrovato però alcuni giorni fa, quando al Teatro delle Passioni di Modena, mi sono ritrovato tra il pubblico di Universo Bolaño. Lo spettacolo, tre ore buone, è l’esito di un percorso laboratoriale che Buljan ha costruito per sedici giovani attori selezionati per l’iniziativa di perfezionamento della Scuola Iolanda Gazzero, avviata da Emilia Romagna Teatro Fondazione, esperienza che ruotava attorno al “romanzo arcipelago” di Roberto Bolaño intitolato 2666.

L’universo mediterraneo della tragedia antica è stato sostituito dal caos meticcio dello scrittore cileno ma la sensazione è che le soluzioni che il regista ha adottato stavolta, partendo dai materiali di quella labirintica letteratura, tornino a raccontarci il suo metodo, così performativo, così anti-teatrale. Se intendiamo questa parola con lo stesso significato con cui l’ha utilizzata quel sovversivo teatrale che si chiamava Fassbinder, cinquant’anni fa, prima di diventare il cineasta mélo che sappiamo.

La prima parte di Universo Bolaño si svolgeva nello spazio bar delle Passioni, tra spettatori seduti ai tavoli, birre, mojitos, arachidi, e serviva a tracciare, con più voci, personaggi, action painting e schitarrate, l’immaginario incivile di una cittadina messicana, Santa Teresa, situata al limite di un deserto e abitata da narcotrafficanti, stravaganti critici letterari, giornalisti, povere operaie e promettenti puttane, tra i quali Bolaño ci conduce, increduli visitatori.

buljan bolano 1

Si passava quindi nella attigua sala dove spesso mi è capitato di vedere i debutti di Pippo Delbono, che con Buljan spartisce parecchie consonanze. Ma mica per accomodarsi sulle poltroncine. Era un concerto in piena regola, da seguire in piedi, quello che i sedici performer (scelti anche per le attitudini musicali, di voce e di strumenti) ci stavano organizzando, e sempre più spingeva ad addentrarsi, adesso con un taglio da giornalismo d’inchiesta, o ancor meglio da detective selvaggi, nel racconto di violenze, sparizioni e omicidi sopra i quali si puntella l’incredibile storia del romanzo bolañesco più amato da Buljan. 2666, appunto.

buljan bolano 2

“La passione infuocata che nutro per 2666 – spiega lui – è condivisa da tutti i suoi lettori nel mondo, tra i quali spicca Patti Smith. I critici letterari mettono a paragone l’importanza di questo titolo con l’influenza sovversiva provocata da Ulisse di Joyce nei primi anni del ventesimo secolo. A me piacerebbe accostarlo al coraggio sovraumano del Moby Dick di Melville e all’attrattiva sensuale delle pagine di Proust”. Sempre che Proust avesse trattato esplicitamente di narcos e stupri, friggendo uova e wurstel da servire poi agli spettatori, in odorose sequenze.

buljan bolano 4

Non mi è sembrato, alla fine, uno spettacolo perfetto, Universo Bolaño. Né forse poteva esserlo, nella scelta di sostituire la tribù di attori e collaboratori con cui Buljan è abituato a lavorare (presenza costante è l’iconico Marko Mandić) con i sedici attori provenienti dal fiore delle accademie e delle scuole teatrali italiane. Volitivi, disinibiti, capaci di enorme generosità performativa, peraltro. Costretta a volte dalla regia a scavalcare il limite della cautela, ma in parte sprecata, perché è inevitabile che lungo le tre ore di rischio, la tensione dello spettatore si allenti, laddove il puro concentrato di emozioni, anche fisiche, lo avrebbe eccitato più della caffeina, più del crack. Si fa per dire.

Chissà se dopo dodici date modenesi Universo Bolaño avrà anche una serie di repliche in cui, asciugata per situazioni e tempi, la produzione ERT possa mostrare la sua indole, surreale e selvaggia come il suo autore. Come il suo regista. E lo spettatore non si meravigli poi tanto se la barista che serve al tavolo una Corona ghiacciata si rivela poi attrice, piuttosto tosta, ed eccellente batterista. Mentre sul lungo tavolo, cosparso di bucce, il suo compagno performer, nudo, oltraggia il senso emiliano del pudore con l’evidenza di un Caravaggio ridisegnato da Frida Kahlo.

Buljan bolano 3

La locandina di Thyestes prodotto da Mini Teatr Lubiana

La locandina di Universo Bolaño prodotto da Ert Emilia Romagna Teatro Fondazione