(RE)Think Dance. Ripensare la danza. Lo raccomanda il titolo scelto per la quinta edizione di NID – New Italian Dance Platform, che si è tenuta appunto a RE, Reggio Emilia, nello scorso fine settimana.

È un invito ottimistico, certo. Ripensare la danza. Fosse per me, sarei anche più autoritario. Ripensate sì la danza. Quella contemporanea. Ma fate presto. Prima che la visibilità che si è conquistata in questi venti o trent’anni nel panorama italiano di spettacolo dal vivo non si riduca di nuovo. Per ripetitività, per egocentrismo, per noia, per quel danzare attorno a proprio l’ombelico, che è tipico di chi abita le nicchie.
E non raccontiamoci storie: la danza contemporanea italiana è nicchia.
Una crescita di rispetto
Rispetto a questa affermazione, NID – New Italian Dance Platform 2019 è un’iniziativa che procede in senso inverso. Nata nel 2012, sostenuta dal MinisteroBACT, affidata ai principali enti che si occupano della programmazione di settore e scandita da appuntamenti ogni due anni, NID è cresciuta un sacco negli scorsi bienni. Prima la Puglia, poi Pisa, Brescia, Gorizia (ne ho scritto su questo blog nel 2017), e adesso, tra i 10 e il 13 ottobre, Reggio Emilia, hanno trasformato un’idea in uno snodo indispensabile.Se dico hub va bene? Perché a Reggio Emilia, c’erano tutti. La Fondazione I Teatri, il circuito Ater, Aterballetto, insieme alla Regione Emilia Romagna, hanno fatto del loro meglio per dare loro accoglienza, assieme a rilievo e visibilità per questa quinta edizione.
Certo, diverso da un festival, NID 2019 è un expo. Dove gli artisti e le compagnie italiane, selezionate da una commissione, espongono le loro opere più o meno recenti. Così che tutti, i colleghi artisti, i programmatori, gli operatori, i direttori di festival o di circuiti, i giornalisti, e anche un po’ (un po’) di pubblico, possano vederli, giudicarli, se è il caso (molte volte lo è) criticarli. In definitiva, l’hub dove tutti – dicevo sopra – possano ripensarsi.
Non sono un critico di danza. Penso che di critica, in generale, ce ne sia anche troppa. E che sul contemporaneo ci vorrebbe un occhio diverso da quello che da più di un secolo ha definito le regole di questa professione. Se professione è rimasta.

Territori nuovi. Dove avventurarsi
Ma a un appuntamento come NID ci vado volentieri. Perché rappresenta un termometro del presente. La bussola per avventurarsi in territori nuovi, che si stanno aprendo. Trasformarsi è nella natura delle cose.
Inoltre, se lo sguardo è lucido e – aggiungo – curioso e attento, un expo come NID aiuta a mettere da parte punti di vista preconfezionati, antiche convinzioni, spesso pregiudizi, che inevitabilmente ci si porta dentro.
Non mi stancherò ripetere che Chiara Bersani (a NID 2019 con Seeking Unicorns), Silvia Gribaudi (con Graces), Daniele Nianarello (con Pastorale), Alessandro Sciarroni e Francesca Pennini (che a Reggio Emilia però non c’erano), assieme ai più maturi Virgilio Sieni (Metamorphosis) e Bertoni/Abbondanza (La morte e la fanciulla) sono coloro che in questo decennio ci hanno fatto intravedere quei nuovi territori. Ma il bello, almeno per me, sta soprattutto negli altri. Quelli che conosco di meno, o proprio non conosco. Anche se di spettacoli abbastanza rodati si tratta.
E sui quali, solo con il mettermi dalla parte del pubblico, quel pubblico che dovrebbe crescere e non diminuire, provo a fare qualche osservazione. Che si può prendere come un invito a ripensamenti. Anche senza stare a citare maestri tipo Bausch, tipo Forsythe che, quelli sì, la danza l’hanno ripensata.
Allora, per non deludere il pubblico. Lavorate sui formati. Costruite drammaturgie. Provate un po’ a sorprenderci. Ma non siate provocatori a tutti i costi.
Faccio minuscoli esempi.
Lavorate sui formati
Si muovono molto bene Ginevra Panzetti e Enrico Ticconi. Se con movenze gattesche e demoniache la loro pantomima (Harleking) richiama la Commedia dell’arte, ci si legge entro anche l’attuale dinamica del potere e degli sgambetti politici. E funziona, tra raffinate citazioni dei Balli di Sfessania disegnati nel 1600 da Jacques Callot. Ma funziona sulla lunghezza dei 20-25 minuti. Se diventano il doppio, e qui succede, risultano stiracchiati e stufano.


Costruite drammaturgie
Parlano tanto Marco d’Agostin e Teresa Silva in Avalanche. Parlano cinque lingue, parlano a valanga appunto. E pur ammettendo che il linguaggio verbale sia quello più adatto a interpretare il mondo, alla fine dei loro 55 minuti, si resta indecisi su cosa portarsi a casa di questa performance, su cosa dire a chi vorrebbe che gliela raccontassimo.
Nella danza, la drammaturgia (il lavoro di senso delle azioni, potrebbe essere una veloce definizione) non è un’opzione e serve al pubblico per capire qual è il misterioso bisogno espressivo dell’artista. Così, nonostante abbia alle spalle un eccellente drammaturgo come il poeta latino Lucrezio, il De Rerum Natura del giovane e stimato Nicola Galli si avvantaggerebbe se qualcuno piegasse un po’ il suo bell’intuito coreografico a un più preciso orizzonte di senso.
Provate un po’ a sorprenderci
In Dress/Undress (vèstiti e spògliati) l’italo-giapponese Masako Matsushita, prodotta da Nanou, dispone a terra, in fila, quattordici reggiseni. Li indosserà uno a uno, in una maniera tutta sua, sempre la stessa, muovendosi a ginocchioni, lentamente. Così che già al terzo indumento sappiamo di dover arrivare, senza alcun terremoto emotivo, fino al 14esimo. Lo stesso succederà nel girone di ritorno, quando per togliersi le ventidue mutandine che indossa, la bella Masako ci farà pazientemente aspettare che si sfili anche l’ultima. Sorprese nessuna. Nostra pazienza tanta. Inoltre, 20 anni fa Jerôme Bell, che faceva indossare una sopra l’altra decine di t-shirt nella sua Shirtology, ci aveva già consegnato la ricetta.

Però non siate provocatori a tutti costi
Un filmetto porno, come quello proposto da Salvo Lombardo in Opacity #5, sta bene nella privacy del vostro computer. Ma se lo proiettate in pubblico e lo presentate come “critica all’emanazione di un sapere dominante e etnocentrico che identifica l’Occidente come unica fonte di narrazione e come origine nella produzione di significato” (trascrivo le note d’autore), sappiate che nessuno capirà che cosa abbia che fare quel coito esplicito con la critica del post-colonialismo.
E molte signore, del pubblico e della critica, si adombreranno.