Pasolini mission impossible. 2) Pilade

Due giorni fa ho scritto un post su Comizi d’amore. Oggi è la volta di Pilade. Tanto per dire quanto – secondo me – il teatro di Pier Paolo Pasolini non si possa redimere dal suo tempo. Nonostante un anno di celebrazioni e ripetizioni dello stesso, consumato mantra. Che ne farebbe un nostro contemporaneo.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Pilade – regia Giorgina Pi (2023) – ph Guido Mencari

Non era cosa sua…

Lo giuro. Ci ho provato per anni a farmelo piacere. A leggere e ascoltare di chi ne sapeva più di me. Ad andare a vedere chi lo metteva in scena. Niente. Non c’è stato verso. 

Valoroso regista di cinema, Pier Paolo Pasolini. Chi potrebbe negarlo. Intellettuale lucido. Certo. Spregiudicato opinionista. Ma il teatro proprio no, non era cosa sua. Eppure…

Lo dico dopo che un’ennesima accensione di buona volontà mi ha portato ad assistere a Pilade, all’Arena del Sole a Bologna. Città nella quale peraltro Pasolini era nato, 101 anni fa. Non in Friuli come pensano e scrivono molti. 

Pilade è uno dei sei testi, “le tragedie borghesi” che Pasolini, a letto, convalescente per un’ulcera, scrive in una manciata di mesi, attorno al 1966, e poi variamente rimette a posto, fino alle soglie del 1974. Orgia, Bestia da stile, Pilade, Porcile, Affabulazione, Calderon.

Lui stesso aveva provato a portarne in scena una (Orgia, nel 1968) con esiti – dice chi l’ha vista – disastrosi. Pilade invece, soprattutto per l’impegno dell’autore in una inedita reinvenzione del mito, è sicuramente quella che ha conosciuto più allestimenti.

Pilade - Luca Ronconi - Teatro Stabile Torino
Pilade – regia Luca Ronconi (1993) – ph Marcello Norberth

Come devi immaginarmi

La nuova occasione bolognese viene dal progetto che Valter Malosti (direttore di Ert – Emilia Romagna Teatro fondazione) e Giovanni Agosti si sono proposti di varare, in coda a 12 mesi di reiterate celebrazioni pasoliniane in tutta Italia (i 100 anni dalla nascita), che parevano dover concludersi a dicembre. 

Invece sarà fino a maggio 2023 che le sei tragedie verranno riproposte al pubblico, affidate a una serie di registi e di interpreti, che si sono affermati sulla scena italiana in tempi recentissimi. In modo che lo scarto generazionale possa “fornire una risposta alla attualità inesausta delle sua lezione etica e politica“. Così almeno sta scritto nella presentazione. 

Il titolo del progetto è “Come devi immaginarmi”. L’intenzione dovrebbe essere appunto quella di ri-immaginarlo, e di scavalcare una lettura scolastica e logora del Pasolini etichettato ancora oggi come corsaro cantore di scomparse lucciole. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Aurora Peres è Elettra – ph Guido Mencari

Affrontare Pilade

Lo giuro, di nuovo. Prima di affrontarlo, Pilade me lo sono ristudiato, forte del poderoso volume che i Meridiani Mondadori hanno dedicato al teatro pasoliniano, e degli indispensabili contributi saggistici sviluppati in almeno due decenni da Stefano Casi.

Mi sono pure letto, con attenzione, le note scritte per lo spettacolo dal dramaturg Massimo Fusillo e quelle di Giorgina Pi, che ne è regista. Di lei avevo apprezzato molto, tre anni fa, la scelta di lavorare su un’altra re-invenzione del mito, Tiresias, nella scrittura rap e poetica di Kae Tempest. Che ci fosse ancora lei a lavorare su Pilade, immaginaria prosecuzione dell’Orestea di Eschilo, ci poteva stare.

A Bologna sono davvero arrivato senza pregiudizi. Eppure… anche in questo caso il teatro di Pasolini mi è precipitato addosso. E continua a farmi pensare che meglio è lasciarlo al suo posto, quell’esperimento fatto in tempo di ulcera, in quei formidabili anni Sessanta, quando politica e scrittura d’arte si fronteggiavano in una lotta corpo a corpo, quando consegnare al teatro una profezia civile era probabilmente possibile.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
Gabriele Portoghese e Valentino Mannias sono Oreste e Pilade – ph Guido Mencari

Narcisismo

Anche se il Manifesto per un Nuovo Teatro (la sua ambiziosa proposta di un Teatro di Parola) era già fuori dal tempo. Anche se era già insopportabile il suo narcisismo. Luca Ronconi spiegava con un guizzo ironico che a Pasolini a piaceva molto “pisciare nel contenitore del personaggio qualcosa di se stesso, che con il personaggio, in quel momento, non ha nulla a che vedere”.

E proprio su Pilade, a Torino, nel 1993, Ronconi ci aveva passato parecchi mesi. E ricordo che nemmeno Antonio Latella in una dismessa fabbrica di pneumatici (2002), nemmeno Archivio Zeta (2015) al cimitero germanico della Futa, ne avevano tirato fuori qualcosa di memorabile.

Anche stavolta, a dispetto delle buone intenzioni che Giorgina Pi e i suoi attori ci mettono, Pilade resta – a mio modo di vedere almeno – un reperto, un po’ mummificato persino, delle speranze e dei tradimenti di quella Storia: un testo inattuale, in certi passaggi poco comprensibile. Francamente tedioso. La verbosità, l’insistenza della disputa e della dialettica, la smania profetica, a teatro procurano ampi sbadigli. A tutti. 

Anche se ci si sforza di trasformare operai, studenti, contadini, rivoluzionari, che popolavano allora quel paesaggio, in un’umanità africana, migrante, mutante, di adesso. 

Anche se la scenografia di bidoni arrugginiti, carcasse d’auto, roulotte di nomadi o prostitute, strizza l’occhio alle ristrutturazioni che degli stessi miti ha fatto Milo Rau. 

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Il quale aveva portato in scena qualche anno fa, non già il teatro di Pasolini, ma Salò, o le 120 giornate di Sodoma. “Soprattutto – aveva detto il regista svizzero – mi interessa il carattere ibrido della sua arte. Per un verso è molto popolare, per un altro possiede una pendenza intellettuale e politica molto potente”.

I dubbi di Pilade

E scusate se mi è venuto da ridere, pensando a un Pasolini “molto popolare”, sentire Atena (la bella Sylvia De Fanti, tacco 12, acconciatura intrigante, un po’ Giuni Russo prima maniera) mentre rimprovera il dubbioso Pilade (bravo e convincente Valentino Mannias, e sempre bravo Gabriele Portoghese che fa Oreste). A lui, e a noi, l’elegante Atena spiffera che “Ogni euristica è consolatoria“. Chiaro, no? Anche no.

Pilade - Emilia Romagna Teatro Fondazione
ph Guido Mencari

Altro che popolo: il Pasolini del teatro si rivolge (si rivolgeva anzi) a una ristretta élite intellettuale, “i gruppi avanzati della borghesia“. Lo diceva lui stesso nel Manifesto. Tutta gente studiatissima, i soli che forse potevano capirlo nell’Italia del boom e delle Fiat Seicento. Elite di cui oggi non c’è nemmeno l’ombra. Nemmeno nella dotta, giovane, fluida, prismatica, teatrante Bologna. Figurarsi altrove.

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PILADE 
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Bluemotion
regia, scene, videoGiorgina Pi
con Anter Abdow Mohamud, Sylvia De Fanti, Nicole De Leo, Nico Guerzoni, Valentino Mannias, Cristina Parku, Aurora Peres, Laura Pizzirani, Gabriele Portoghese
e con Yakub Doud Kamis, Laura Emguro Youpa Ghyslaine, Hamed Fofana, Géraldine Florette Makeu Youpa, Abram Tesfai

dramaturg Massimo Fusillo
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
musica e cura del suono Cristiano De Fabritiis – Valerio Vigliar
disegno luci Andrea Gallo
costumi Sandra Cardini

produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
in collaborazione con Angelo Mai e Bluemotion

Pasolinisti di tutto il mondo unitevi. Condemi e Portoghese sono all’opera

FESTIL è il festival estivo di teatro, musica, drammaturgia che si svolge sull’alto litorale adriatico, tra Italia e Slovenia. Uno degli appuntamenti previsti quest’anno a Trieste, al Politeama Rossetti, era Questo è il tempo in cui attendo la grazia, lo spettacolo che il regista Fabio Condemi e il perfomer Gabriele Portoghese hanno dedicato alle scritture di Pier Paolo Pasolini per i suoi film.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Condemi Portoghese
Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski)

Un po’ di malavoglia, ma ci sono andato. Inesorabile, l’effetto anniversario si fa sentire. Pier Paolo Pasolini era nato del marzo del 1922, cent’anni fa, e quest’anno colonizzerà e deborderà tra le offerte di spettacolo, di cultura, di sottocultura. In prosa e in musica. Con i suoi articoli polemici e con i versi della sua poesia.

Gli anniversari – devo averlo già scritto altre volte – a teatro producono per lo più risultati superficiali e noiosi. Si fanno cose, perché si pensa che bisogna farle.

Un po’ di malavoglia, ma ci sono andato. Mi sono detto: Fabio Condemi è un regista giovane, intuitivo, originale, mi piace. Ho visto la sua Filosofia nel Boudoir, mi ha colpito. Gabriele Portoghese è un attore che stimo, ha un piglio che ti fa rimanere attaccato con gli occhi e con le orecchie alla scena. Agli Ubu, lo scorso anno lo avevo votato come miglior attore italiano per il monologo Tiresias, da Kae Tempest. 

Che lavorassero di nuovo assieme, come fanno da anni, mi pareva una bella cosa. Peccato solo che avessero scelto Pasolini, interesse già coltivato da entrambi. Peccato l’odore di anniversario, pensavo. Peccato tuffarsi nel solito santino, supponevo. Peccato pensare a lui, come sempre, veggente e vittima di un’Italia moderna, fascio-borghese, omologatrice, consumista, quando già il fascismo non c’era più e il consumismo equivaleva a un benessere diffuso.

Gabriele Portoghese in Questo è il tempo in cui attendo la grazia -
(ph Claudia Pajewski)

Invece no

Invece no. Mi sbagliavo. Questo è il tempo in cui attendo la grazia (è il titolo ed è anche un verso di Pasolini) mi è piaciuto. Molto. Si distacca da tutta la retorica su Pasolini che in questo ultimo decennio mi è capitato di osservare. 

Per Condemi e Portoghese, Pier Paolo Pasolini non è il “poeta friulano” della solita tiritera. Non è l’ “intellettuale eretico“, che mette a nudo i fascismi del Paese democristiano e denuncia la scomparsa delle lucciole. Non è, per fortuna, neanche quel redentore del teatro italiano che non è stato. È uno scrittore.

Lo dimostrano, non tanto i romanzi, figli del tempo neorealista, ma le sceneggiature. Non i film, proprio le sceneggiature, che Pasolini scrive e fanno da guida ai suoi titoli più famosi. Edipo re, Medea, Il fiore delle Mille e una notte, ecc, ecc, ecc…

Provengono da questa letteratura – le sceneggiature sono anche letteratura – le pagine che regista e interprete hanno scelto di portare sulla scena. In modo semplice, senza l’enfasi che si riserva ai padri e ai maestri, senza arzigogolate interpretazioni. Lasciando invece che le parole che precedono i film – i testi “per il cinema”, oggi raccolti in due Meridiani Mondadori – dispieghino davanti agli occhi e alle orecchie degli spettatori le immagini a cui il Pasolini regista pensava prima di mettersi davanti alla macchina da presa.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Gabriele Portoghese regia Fabio Condemi
(ph Claudia Pajewski)

Letteratura e un piccolo rettangolo di terra 

Per fare questo a loro due basta un piccolo rettangolo di terra, qualche pianta lacustre che svetta (e verrà poi sradicata), un proiettore per pellicole casalinghe, un pallone, il Meridiano Mondadori.

La voce capace di Gabriele Portoghese fa tutto il resto. 

Si apre sulle vedute iniziali pensate per Edipo re (a Sacile pensava Pasolini, e alla Livenza). Attraversa gli insegnamenti che il Centauro impartisce a Giasone bambino (in Medea, le scene dell’infanzia erano state girate nella laguna di Grado). Ci trasporta nelle strade e nei quartieri poveri del Cairo, con i volti e i corpi dei ragazzini che filmerà poi nel Fiore delle Mille e una notte. E ancora La ricotta, Sabaudia, la forma della città. O i film mai realizzati, come quello sulla vita di San Paolo.

Pier Paolo Pasolini - Roma, Gazometro
Pier Paolo Pasolini – Roma, Gazometro

Non importa se chi assiste a Questo è il tempo in cui attendo la grazia abbia visto o meno quei film. Se sì, è una rievocazione intensa, che stimola e ravviva la memoria, quella emotiva soprattutto. Se non li ha visti, quelle parole permettono all’immaginazione di inventare un film nuovo di zecca, una nuova visione virtuale, un sogno a occhi aperti, come fa sempre la letteratura (Calvino scrittore insegna).

Sul fondale, intanto, brevi video pensati da Fabio Cherstich, offrono suggerimenti, focalizzano l’attenzione. Un corso d’acqua, i canneti delle lagune, le gravi sassose di un fiume: paesaggi appena accennati, ma infinitamente pertinenti: il panorama, adesso, dell’infanzia pasoliniana di allora.

Pasolinisti, unitevi

“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto” è la didascalia iniziale (come nella sequenza che chiude il Decameron), più che mai adattata questo lavoro. Il breve dialogo tra Ninetto Davoli e Sergio Citti, che chiude l’Edipo Re, è di conseguenza il finale.

Questo è il tempo in cui attendo la grazia (ph Claudia Pajewski) Gabriele Portoghese regia Fabio Condemi
(ph Claudia Pajewski)

Questo è il tempo in cui attendo la grazia è stato pensato e allestito prima che scattassero le fanfare dell’anniversario pasoliniano (il progetto è di due anni fa). E in questa sua bella veste dimessa, anti-retorica rischia di mettere d’accordo tutti. I pasolinisti devoti sfegatati e i pasolinisti che nutrono dubbi sulla sua santità (come me). Direi che ce la fa, e bene.

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QUESTO È IL TEMPO IN CUI ATTENDO LA GRAZIA
da Pier Paolo Pasolini
drammaturgia e montaggio dei testi Fabio Condemi, Gabriele Portoghese
regia Fabio Condemi
con Gabriele Portoghese
drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich
filmati Igor Renzetti, Fabio Condemi
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Verdi Pordenone, Teatro di Roma -Teatro Nazionale

[in cartellone a FESTIL- Festival estivo del Litorale, diretto da Alessandro Gilleri, Tommaso Tuzzoli, Katia Pegan] dal 18 giugno al 5 agosto 2022 – vedi qui il programma completo]

Pier Paolo Pasolini - Decameron
Pier Paolo Pasolini come Giotto, in Decameron

Terreni creativi. Un teatro che cresce tra gli aromi ed è attento al clima

In faccia al mar Ligure, sulla riviera di Ponente, ci sono terreni dove si coltiva creatività. Qui nascono e mettono le prime radici le piantine di basilico, di menta, di maggiorana, quelle che acquisti nei santuari della grande distribuzione: Lidl, Esselunga, Coop Consumatori…  Ma qui si sviluppano anche le foglie di un teatro recente, vitale, che cresce, ramifica, fruttifica. Velocemente. Non te ne accorgi quasi.

Terreni Creativi - Albenga - Serre

Una brezza di odori

Francesca Sarteanesi, sola, sulla pedana, massacra di parole Sergio. Potrebbe essere suo marito, nella finzione di un monologo che aspira a essere un dialogo, ma si scontra con il mutismo dell’uomo. 

Nel frattempo, ti arriva a tratti nel naso, di soppiatto, una brezza di menta, di basilico, di chissà quali piante aromatiche, quelle che in cucina si chiamano odori. Di lato, a sinistra e a destra, a perdita d’occhio, si stende una prateria di piccoli vasi: pelargonium, citrus, pentas…

Sergio (che è anche il titolo) resta irrimediabilmente muto. Ma lei, Sarteanesi, lo incalza con il suo accento toscano forte. Come forte è il temperamento di questa donnina loquace, petulante, figurina sottile che si confonde adesso con il tramonto sui monti liguri, alle spalle di Albenga.

Francesca Sarteanesi - Sergio (ph Luca Dal Pia)
Francesca Sarteanesi – Sergio (ph Luca Dal Pia)

L’habitat dal vivo

Terreni creativi è un festival che in un decennio ha mantenuto un’identità precisa. Cosa che è capitata a pochi altri festival in Italia. Semmai, è successo il contrario: l’identità nativa si è andata disperdendo. Qui invece è specifica, territoriale. Qui ha trovato un suo habitat. Gli spettacoli vengono allestiti dentro le serre e i capannoni agricoli, dove il clima della Riviera fa maturare ortaggi, piante commestibili o decorative, fiori, primizie. 

Terreni Creativi - Albenga - Serre

È un mix di arti dal vivo – teatro, musica, danza – che incontra un comparto economico trainante del territorio – secondo solo al turismo – e con lui scambia un potenziale di crescita: il comun denominatore delle creazioni che, ogni anno ai primi di agosto, si alternano tra gli olivi e i limoni, grazie all’impianto organizzativo della compagnia di qua: Kronoteatro

Rodati da dodici edizioni, i Terreni Creativi di Albenga hanno visto germogliare e maturare in quelle serre, i gruppi della generazione Duemila, gli Omini, i Sotterraneo, i MenoVenti… e ne coltivano oggi altri più nuovi.

Oltre vetrate traslucide

In tre capitoli e in due diverse serre, la danza fluida di Daniele Ninarello e della sua compagnia Codeduomo, impagina un’idea di movimento, che via via matura, accordato alla musica, fondato sulla sintonia dei corpi, su moti individuali eppure partecipi di una stessa esperienza. Là, davanti alle vetrate traslucide, oltre cui si intuiscono i boschi dell’Appennino, si distende Pastorale, una rivoluzione di corpi celesti. Pastorale è anche il momento più bello di questa trilogia firmata Ninarello, una personale che prima recupera Kudoku del 2016 (il sax che conduce l’opera è quello Dan Kinzelman) e finisce con l’estendersi alle recenti improvvisazioni ermetiche di Nobody nobody nobody (It’s not ok to be ok).

Daniele Ninarello - Pastorale (ph  Luca Dal Pia)
Daniele Ninarello – Pastorale (ph Luca Dal Pia)

“Nasce da pratiche solitarie e meditative – dice il coreografo – pratiche mantriche sviluppate negli ultimi mesi di distanziamento”. Spiega una nota sul programma di sala, che si prevedono “scene di nudo”. Ma non è niente a cui il pubblico dei Terreni Creativi non sia abituato.

Oltre che sulle sedie, ovviamente distanziate, gli spettatori si accomodano su imballaggi di terriccio e substrati nutritivi. Così che sembra quasi di percepire, sotto il sedere, la crescita di future piante. Proprio come una scenografia specific può essere fatta soltanto di cartoni: il package che protegge i prodotti di orticultura. Cartoni come quelli che circondano Francesca Foscarini, coreografa e danzatrice, nella sua creazione Hit me!

Hit me, baby!

Foscarini è nata il 10 gennaio 1992. Trentanove compleanni fino ad oggi. Hit me! è costruita a partire da una playlist di canzoni strettamente legate a un dato biografico. “Ho scelto i pezzi al vertice delle classifiche nel giorno del mio compleanno – dice – dalla nascita a oggi”. Lei stessa ha poi chiesto alla sua dj, Chiara Bortoli, di mettere sul piatto, ad ogni replica, una ventina di queste canzoni. Scelte a caso, random, a seconda di come gira: il tempo, l’ambiente, la fatica, gli spettatori.

Così, di colpo, la musica si rovescia su Francesca e lei “senza aver previsto un disegno coreografico” ne viene investita: “canzoni che mi ritrovo addosso, maratona di una vita in cui buttarmi a capofitto in un’improvvisazione sempre diversa”. Ora sono Paul McCartney e Michael Jackson, ora è Whitney Huston. Ora Eminem, ora Adele. Una playlist imprevedibile, e una danza in rapporto con il caso. O piuttosto, con l’atmosfera del luogo.

Francesca Foscarini - Hit Me! (ph Luca Dal Pia)
Francesca Foscarini – Hit Me! (ph Luca Dal Pia)

In alcune mie riflessioni, ho provato a chiamare post-coreografiche, le creazioni come Hit me!, che oltre a performance sono prima di tutto concept. Conta il progetto, più che il risultato. Il quale invece è casuale, estemporaneo, disperso. Volatile insomma. All’opposto della precisione e del rigore di spazio e di tempo che sono valori fondanti della coreografia. Della maggior parte delle coreografie, almeno.

Dissodare la terra, spostare i confini

Mi pare una cosa bella che Hit me! trovi posto qui, nelle serre, poco dopo che Oliviero Ponte di Pino ha presentato il suo nuovo libro, Un teatro per il XXI secolo (FrancoAngeli Editore) nel quale si occupa di crescite e trasformazioni (non solo teatrali) avvenute in questi ultimi due decenni. Durante i quali molte fughe in avanti (non solo in risposta alla pandemia) hanno dissodato il terreno dello spettacolo dal vivo, ne hanno spostato i confini, divelto i recinti, incrociato le tendenze. In luoghi spesso eccentrici, come questi Terreni creativi, qui ai margini occidentali dell’Italia. 

Oliviero Ponte di Pino - Un teatro per il XXI secolo - FrancoAngeli Editore

Infatti, mentre con attenzione ascolto Alessandro Berti, continuo a chiedermi sotto quale etichetta potremmo classificare il suo progetto, White lies, bugie bianche. La trilogia che propone si apre con Black Dick. È una lezione di storia e fenomenologia del razzismo? Una Ted Conference di citazioni e dimostrazioni? Magari un concerto, nel quale Berti canta e suona la chitarra. Molto bene, peraltro. 

Uomo nero, donna bianca

Con un titolo che fa un po’ impressione (devo proprio tradurre?), però è pertinente, Black Dick analizza il ruolo della sessualità nera nella percezione del maschio bianco. E si avventura in un’escursione tra gli stereotipi del porno, in particolare quello interracial. Uomo nero sopra donna bianca in un amplesso, il più delle volte violento, in cui vittima e carnefice non sono mai quello che sembrano. Ma incarnano fantasmi e proiezioni di una storia Wasp (White Anglo Saxon Protestant) che oggi ambirebbe a essere politicamente corretta – no nigger, sì black – ma appena sotto la superficie mostra le antiche pulsioni razziali. Non solo in America, naturalmente. “Parlo dell’America, per alludere all’Italia”. 

Alessandro Berti - Black Dick (ph Luca Dal Pia)
Alessandro Berti – Black Dick (ph Luca Dal Pia)

In questo modo Berti (che in tempi assai meno sospetti aveva fondato, assieme a Michela Lucenti, il gruppo L’Impasto) impasta anche la sua trilogia di bugie bianche, e dalle parole scivola nel cinema e nella musica. In un nuovo genere transgender. Ed è bello risentire Strange Fruit di Billie Holiday, capolavoro di denuncia black, cantato da lui. 

Freddure per display

Alla stessa maniera, trovatemi voi una definizione per la creazione dei Quotidiana.com (End to end, si intitola). In pratica, è una conversazione su Whatsapp.

I due display si parlano e affastellano frasine e iconine, nel solito stile flemmatico del duo Scappin-Vannoni. Scritture d’intimità, ipocondrie, freddure piovono a raffica, mentre i messaggi vocali ci fanno sentire ogni tanto le voci di Romeo Castellucci, Luca Ronconi, Renato Palazzi.

Non si capisce perché, e a chi siano dirette, ma intanto il perimetro del teatro rappresentato viene scavalcato, e il tu per tu di Whatsapp diventa, più che messaggistica, una piattaforma espressiva, obliqua. Con quali risultati, è ancora da capire.

Tiresia, il primo dei non-binary

Spariscono però le etichette di genere. E sparisce anche il genere, se il momento più intenso nelle quattro giornate di questa edizione 2021 di Terreni Creativi, lo si tocca con la poesia-teatro di Kate/Kae Tempest, poet* e performer non-binary, incoronat* quest’anno con il Leone d’argento della Biennale di Venezia. Non a caso, in Hold on you own /Resta te stess* (2014), Tempest aveva imbastito un ritratto di Tiresia, veggente androgino della mitologia greca, maschio e femmina, giovane e vecchio. 

Gabriele Portoghese in Tiresias di Kae Tempest (ph Luca Dal Pia)
Gabriele Portoghese in Tiresias di Kae Tempest (ph Luca Dal Pia)

Ora grazie alla regia di Giorgina Pi, Tiresias svela per chi non le conoscesse le doti eccellentissime e fluide di Gabriele Portoghese, a suo agio già con la parola poetica di Pasolini (Questo è il tempo in cui attendo la grazia, diretto da Fabio Condemi). Ma qui investito dalla sostanza attuale, energetica, colloquiale della spoken word poetry di Tempest, che trova naturalmente posto in questi Terreni. Che ogni sera, dopo la cena sui lunghi banconi, chiudono con una band, e qualche chupito.

Ambienti di crescita, orti protetti, dove i linguaggi dell’oggi e lo spettacolo contemporaneo agiscono da fertilizzanti. Compost naturali che Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco e Alex Nesti – le firme di Kronoteatro dietro a questo festival – si impegnano anno dopo anno, non senza difficoltà, a spargere. Come coltivatori 3.0, che sanno che cos’è il crowfunding. Come new farmers che, oltre ai prodotti, hanno a cuore il benessere, l’ambiente, il clima della cultura e delle colture. Quello del nostro presente, in cui cultura – ripete Ponte di Pino – è fabbrica di immaginario e attivatrice di desideri.

Terreni Creativi -  Albenga - Serre
Le tavolate pronte per la cena di Terreni Creativi (ph Nicolò Puppo)