Isabelle Huppert è Ljubov’. Per lei, Čechov ha scritto Il giardino dei ciliegi

Svagata. Vulnerabile. Malinconica. Il volto intenso, i capelli rossi, la testa sempre altrove. Pensieri lontani, probabilmente ricordi che fanno male. Rari i sorrisi. Di tanto in tanto un entusiasmo infantile. Che poi si increspa e si tinge di amaro. Potrebbe essere così, Ljubov’ Andreevna, la protagonista di Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov.  Invece è proprio lei. Isabelle Huppert.

Isabelle Huppert a Cannes
Isabelle Huppert a Cannes

La Huppert del cinema e del teatro. Così come l’abbiamo vista, così come appare, e come si è voluta raccontare in un incontro con il pubblico, il giorno dopo il debutto del Giardino al Teatro Grande di Pompei.

La Cerisaie – Il giardino dei ciliegi – regia Tiago Rodrigues – Pompei Theatrum Mundi – ph Marco Ghidelli

Conversazione un po’ riservata, vietate le macchine fotografiche, guai a qualsiasi cineoperatore. Lei vuole sempre così. Minuta, quasi a disagio su quella seggiola. Risposte gentili e distratte. Una maniera per evitare le domande, per dileguarle, se troppo personali. Creatura complessa. Giustamente attrice.

Non è facile immaginarla interprete del più scolpito, il più biografico forse, tra i personaggi femminili di Čechov. Pensarla protagonista di quel teatro che nasce e muore al tempo di Stanislavskij (e grazie a Stanislavskij). Difficile insomma collocarla là, lei Isabelle, sempre lontana da ogni realismo, aliena dalla psicologia del plausibile e del quotidiano. Mai convenzionale.

Nervosa e disturbata nei suoi film più noti, La merlettaia, Violette Nozière, La pianista. Inesorabile per Patrice Chéreau in Gabrielle (“voleva che tenessi la testa bassa, che esprimessi la mia sconfitta”). Fredda e rarefatta per Robert Wilson (Orlando e Mary said what she said, di cui ho scritto qui).

Regina distante di un cinema raffinato, introspettivo, feroce, ovviamente d’autore. E di un teatro astratto.

Isabelle Huppert - La Cerisaie - Il giardino dei ciliegi  - regia Tiago Rodrigues - Pompei Theatrum Mundi

“Non esiste un teatro psicologico. E se c’è, non è interessante”

A parlare di sé, la sollecita Roberto Andò, direttore del Mercadante – Teatro Nazionale a Napoli, che ha voluto questo spettacolo come ultimo appuntamento del cartellone di Pompei Theatrum Mundi.

A parlare della sua Ljubov’, la sollecita invece Tiago Rodrigues, regista portoghese e direttore fra due anni del festival di Avignone, che l’ha voluta in questo personaggio e in questa produzione internazionale. Un allestimento che non è realistico, non è psicologico, né quotidiano. Non è nemmeno cechoviano. È post-cechoviano.

La Cerisaie regia Tiago Rodrigues Pompei Theatrum Mundi foto Marco Ghidelli
La Cerisaie – Il giardino dei ciliegi – regia Tiago Rodrigues – Pompei Theatrum Mundi – ph Marco Ghidelli

“Anton Čechov ha scritto questo personaggio per Isabelle – sostiene Rodrigues – ma lui non l’ha mai saputo. Però lo sappiamo noi, ed è un vero peccato che non ci sia anche lui qui, a lavorare a questa messainscena”. Sembra un battuta. Non lo è.

Rodrigues è uno che si interroga sul tempo, sulla poesia e le dinamiche del tempo. Sa che un Čechov non può essere Čechov, oggi. Inevitabilmente è un Čechov che viene dopo, che avviene adesso.

“La cosa più difficile e la più interessante, per un regista, è convocare in scena, qui e ora, la poesia”.

“In questo lavoro – le fa eco Rodrigues – si parla di una vecchia casa che viene venduta. Ma la storia ci interessa poco. A interessarci, come dice Isabelle, è una successione di stati d’animo. Il Giardino è uno spettacolo sulle trasformazioni”.

Così non è necessario che i personaggi dialoghino tra di loro. Si rivolgono infatti preferibilmente al pubblico. In lingua francese, sottotitolata. 

Così non è necessario che siano vestiti alla russa (o nel tipico e strehleriano bianco Čechov) né che sembrino russi. E’ una tavolozza di provenienze questa compagnia, e di colori degli abiti e della pelle.

Alex Descas interpreta Gaev (che nella storia è il fratello di Ljubov’) ed è nerissimo, con le radici nelle Antille. Black anche le figlie di lei, Anja e Varja (Alison Valence e Oceanografie Cairaty) . Lopachin, il contadino, il mugik, che acquista il podere dove suo padre era servo della gleba, pure lui, Adama Diop, è senegalese.

Isabelle Huppert - La Cerisaie - Il giardino dei ciliegi  - regia Tiago Rodrigues - Pompei Theatrum Mundi - ph Marco Ghidelli

Non è necessaria neppure una scenografia: a fare da sfondo possono essere gli archi della Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi a Avignone, dove lo spettacolo si è visto per la prima volta a metà luglio. Ma anche le rovine di Pompei, dove è arrivato adesso, subito dopo. 

Molte seggiole in scena. Anzi, solo seggiole. Da muovere, da accatastare, qualche volta da lanciare, in un momento di rabbia. Tre piattaforme mobili scorrono avanti e indietro, e sorreggono lampioni: una quindicina di lampadari diversi, di cristallo, dalle mille gocce, dai mille riflessi. I famosi ciliegi, sostiene qualcuno. Non necessariamente. Non è un Čechov di metafore questo.

Adama Diop e Isabelle Huppert in La Cerisaie Regia Tiago Rodrigues Pompei Theatrum Mundi - ph Marco Ghidelli
Adama Diop e Isabelle Huppert in La Cerisaie Regia Tiago Rodrigues Pompei Theatrum Mundi – ph Marco Ghidelli

Poi la musica, molta musica, dal vivo, che si trascina a lungo. Così come Angelo Ripellino, in un saggio che tutti dovrebbero leggere, spiegava il trascinarsi indolente della giornate delle commedie di Čechov. 

“La musica l’aveva prevista l’autore – spiega Rodrigues – ma solo all’inizio del terzo atto. Per noi invece si espande, esonda, e invade tutto lo spettacolo, con canzoni che abbiamo composto apposta”. I testi sono dello stesso Rodrigues, le partiture di Hélder Goncalves che le suona dal vivo.

Chitarra rock, percussioni e canto corale festeggiano al primo atto il ritorno di Ljubov’, che eccita tutti. “Le retour, le retour…” Sempre cantando in coro si assiste alla sua partenza, il lungo addio del quarto atto, Ça va changerÇa va changer…”.

La Cerisaie- regia Tiago Rodrigues - Pompei Theatrum Mundi ph Marco Ghidelli

“Non è un testo sulla fine di un’epoca”

Non è un testo sulla fine di un’epoca” – ripete Rodrigues – almeno come l’intendo io, è un saggio sul cambiamento, su come si continua a vivere dopo un trauma.”  E la vita dopo un trauma, dopo la catastrofe, pare un buon argomento, oggi.

Un Giardino post-cechoviano, quindi. Ma non non irrispettoso. Čechov rimproverava a Stanislavskij regista di aver fatto durare 40 minuti il quarto atto: il doppio dei venti da lui previsti. Qui, a Pompei, sono esattamene venti. 

E il vecchio Firs li chiude clownescamente. Molto più di qualsiasi vecchio Firs che io abbia visto. Si distende a terra, e invece di addormentarsi, muore, quasi per sbaglio. È probabile che Čechov l’avesse pensata così. Sornione.

E che così l’avesse scritta, per noi spettatori del 2021.

– – – – – – –

LA CERISAIE

Avec Isabelle HuppertIsabel AbreuTom AdjibiNadim AhmedSuzanne AubertMarcel BozonnetOcéane CairatyAlex DescasAdama DiopDavid GeselsonGrégoire MonsaingeonAlison Valence
Et Manuela Azevedo, Hélder Gonçalves (musiciens)

Texte Anton Tchekhov
Traduction André Markowicz et Françoise Morvan
Mise en scène Tiago Rodrigues
Collaboration artistique Magda Bizarro
Scénographie Fernando Ribeiro
Lumière Nuno Meira
Costumes José António Tenente
Musique Hélder Goncalves (composition), Tiago Rodrigues (paroles)
Son Pedro Costa
Production Festival d’Avignone, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival, Odéon-Théâtre de l’Europe

– – – 

Sì, ma la Huppert…

Sì, ma la Huppert… pensavo tra me e me l’altra sera, seduto in uno dei 1451 posti dell’Auditorium Grande del Centro Culturale di Belém a Lisbona. Davanti agli occhi mi si srotolavano i 90 minuti di Mary Said What She Said. Monologo che Robert Wilson ha creato per Isabelle Huppert, anti-diva in un tempo in cui anche l’anti-divismo è passato di moda.

Sì, ma la Huppert… quasi come come sessant’anni fa Giovanni Testori aveva scritto Sì, ma la Masiero…

È uno spettacolo di forte impatto visivo, Mary Said What She Said. Basta vedere le foto.

Sì, però peccato…

Peccato, pensavo ascoltando il regale monologo di Huppert. Peccato che un maestro della scena come Robert Wilson – uno che ha segnato con il suo stile il teatro del ‘900 – da quel ‘900 non riesca proprio a uscire. Peccato che vent’anni dopo la fine del secolo, intelligente e bravo com’è (o com’era), Wilson viva esclusivamente di rendita, copiando e ricopiando se stesso. Regie perfette. Non una sbavatura. L’indispensabile e il necessario. Nulla di troppo. Spettacoli dell’altro secolo, però. Gioielli antichi.

Al Festival Almada, in Portogallo, mi sono fermato una settimana (lo raccontavo nel precedente post). E al centro del programma del Festival, in una serata in collaborazione con il Centro Culturale di Belém, c’era lo spettacolo che Wilson regista, Isabelle Huppert interprete, e Darryl Pinckney autore del testo, hanno dedicato a Mary Stuart, pugnace ma sfortunata regina di Scozia.

Titolo allusivo e capzioso: Mary ha detto quel che ha detto. Interprete aristocratica e precisa come un macchina per monologhi. Allestimento impeccabile. Identico però a tutti gli ultimi dieci o quindici spettacoli di Wilson. Le stesse luci, gli stessi fondali sfumati pastello, la stessa rigidità, la stessa ossessione per le ripetizioni. Giurerei che il testo di Pinckney sia stato ripetuto almeno tre volte: riprese, riattacchi, reiterazioni. Lo stile che ha reso grande Wilson dai tempi di Einstein on the Beach. Anche lo stesso movimento del corpo, che taglia il palcoscenico in diagonale. Allora c’era Lucinda Childs, ora c’è Huppert. Allora il compositore era Philip Glass, ora c’è Ludovico Einaudi. Ma il risultato non mi sembra cambiato.

Ma la Huppert…

… è un’attrice iconica. Niente da obiettare. C’era la Lisbona bene a vederla e sentirla, a complimentarsi per la precisione ingegneristica della regia, ad applaudire in piedi per minuti e minuti. Beh, volete saperlo? A quell’iceberg di spettacolo, ho preferito sette attrici altrettanto francesi che, tutte assieme magari non fanno una Huppert, ma con il loro lavoro mi hanno riportato di colpo al presente. La loro torrida performance si intitola Saison séche.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Stagione secca, titolo altrettanto forte nel cartellone di Almada 2019, è una caduta nelle imperfezioni del teatro. Nell’imprecisione dei generi. Né rappresentazione né coreografia, né maschile né femminile. Anzi le due cose assieme. O forse nessuna. L’opposto di Wilson.

Sono figure nude, e poi vestite. Sono colori violenti – rossi, gialli, viola, blu – che macchiano, sporcano, manomettono i corpi e il bianco abbagliante di una scenografia vergine. È un caos di drammaturgia che sembra evocare il rito e si manifesta come un combattimento. È un gesto che insulta, marcia aggressivo, ma è anche atto di accoglienza o di sottomissione, a gambe spalancate.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Una banda di erinni

Orchestrata da una banda di erinni, o da una gang di maschi violenti, Stagione secca – dice la creatrice, Phia Ménard – è la condizione storica della femmina, ma anche una punizione vaginale: secchezza. Mentre con la faccia al muro, sette maschi, incarnazioni del potere, pisciano liberamente. E piscia anche la scena: da insospettabili aperture cola a un certo punto un blob nero come la pece, che distrugge ogni bellezza, se mai ce n’è stata una. Le pareti si accartocciano. I neon del soffitto sbarellano. Potete leggerci dentro un’apocalisse futura. Forse è soltanto, pessimisticamente, il presente.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Avrete capito che Saison Séche non è facile da raccontare. Meglio se vi guardate tre minuti di estratto video, e ve ne rendete conto.


Insomma, Phia Ménard, che assieme a Jean-Luc Beaujault ha realizzato tutto questo, è una che ha la stoffa terrorista di Angelica Liddel, di Romeo Castellucci. Non per niente è stata l’exploit dello scorso anno ad Avignone. E ha lasciato senza parole anche il pubblico portoghese, magari lo stesso che una sera prima aveva visto Wilson. E in mezzo a tutto quello sporco, lo ha congedato con la provocazione dell’intramontabile Femme Fatale dei Velvet Undeground. Fatale, e anche geniale.

Sì, ma la Huppert… Vabbè, se proprio insistete, Mary Said What She Said, sarà a Firenze al Teatro della Pergola, dall’11 al 13 ottobre 2019. Io vi ho avvisati.