Tutte le transizioni. Phia Ménard e le altre, a Contemporanea a Prato

Da venerdì 20 settembre (fino a domenica 29) nella città più cinese d’Italia, un “alveare” di creazioni. Di donne, soprattutto. Contemporanea è nata nel 1999. Ha vent’anni quindi.

Gonfles - Compagnie Didier Théron
Sono gonfi d’aria quelli della Compagnia Didier Théron

Ne avevo sentito parlare lo scorso anno in Francia, quando era a Avignone. L’ho incontrata questa estate a Almada in Portogallo, con uno spettacolo memorabile. Adesso la rivedrò a Prato, in uno dei festival italiani che seguo più volentieri: Contemporanea.

Non so se Phia Ménard mi perseguita. O se piuttosto non sono io a perseguitare lei, a ogni tappa di festival. Resta il fatto che trovo interessante questa performer francese, che mi sembra condividere la stessa spinta radicale che trovavo nei migliori spettacoli di Romeo Castellucci, in certe incursioni provocatorie di Rodrigo Garcìa o di Angélica Liddell. Dissacrante, iconoclasta.

Devo averlo già scritto, anzi, l’ho scritto sicuramente, dopo aver visto il suo Saison Sèche, nel cartellone del festival portoghese. In quello spettacolo c’era in scena tutta la sua compagnia. Per essere precisi, la scena, quelle sette scatenate attrici la distruggevano tutta. La compagnia si chiama Non Nova e ha sede a Nantes. “Non inventiamo niente, la vediamo solo in modo diverso” è il loro motto.

Qui a Prato, c’è invece solo lei, Phia. E distrugge pure qualcosa: una copia in cartone del Partenone di Atene. Cioè la proporzione aurea che ci accompagna da due millenni e mezzo.

Si intitola Contes immoraux – partie 1: Maison Mére e non è un monologo. Perché quello di Phia Ménard non è teatro. Non è un solo, perché non è nemmeno danza. Si colloca oltre i generi, questa performer, radicalmente. Tanto che quando ha cominciato a lavorare, nel 1994, si chiamava ancora Philippe.

Più critica, meno ricreativa

Ma non è questa la transizione che conta. Conta piuttosto la metamorfosi che da allora – da quand’era giocoliere in spettacoli che chiamavamo di nuovo circo – l’ha condotta verso creazioni sempre più “critiche”, sempre meno “ricreative”. Da L’après midi d’un phon (2011, i patiti della danza storceranno il naso) a Belle d’Hier (2015).

Comunque. Non è solo per Phia Ménard che vale la pena fiondarsi a Prato per Contemporanea. Il programma 2019 mette in cartellone un bouquet di produzioni internazionali. Se non le avete viste altrove, Prato è il posto giusto. Capoluogo speciale, laboratorio di coabitazione etnica (è la più cinese delle città italiane), posto dove si mangia bene. Ogni volta che ci passo, non posso fare a meno di fermarmi all’antico biscottificio Antonio Mattei per portarmi a casa qualche chilo di cantucci alle mandorle (qui le chiamano mattonelle) che poi spaccio presso i miei vicini casa. E poi un ristorante d’elezione: Soldano (lo devo aver segnalato anche lo scorso, ma vale la pena).

In realtà, tutta la gente del festival, artisti e spettatori, si ritrova a fine giornata al Contemporanea Bistrot, nell’ex Chiesa di San Giovanni, uno degli edifici più antichi di Prato, diventato da qualche anno un hub contemporaneo.

L’atlante e l’alveare

Sto divagando. Parlavamo di produzioni internazionali e nazionali. Tra le principali, inserite nel cartellone di Contemporanea 2019, metterei Granma dei Rimini Protokoll (ne ho parlato dal debutto italiano a Bologna), della ricerca in un’enciclopedica della parola della francese Joris Lacoste, dei catalani di Agrupacion Senor Serrano, della portoghese Marlene Monteiro Freitas, dell’indiana Malinka Taneja, dell’irlandese Ooana Doherty, della belga Miet Warlop, della street dance della jamaicana Cecilia Bengolea, e dei ballerini d’aria della Compagnie Didier Théron (i ciccioni che avete visto nella prima foto).

Un atlante, insomma. A cui personalmente aggiungo l’italiano Alessandro Sciarroni. Anche se il suo ultimo titolo, Augusto, che ha debuttato lo scorso giugno alla Biennale di Venezia, non mi aveva convinto per niente. Sciarroni è capace di altri risultati (come il lavoro di restauro della polka chinata di cui ho scritto qui).

Silvia Gribaudi - Graces
In programma a Contemporanea c’è anche Graces di Silvia Gribaudi

Un atlante, comunque. Anche vasto, non vi pare? Che si coniuga perfettamente con un’altra invenzione di Contemporanea, l’Alveare, progettato dal direttore Edoardo Donatini come un “sciame di visioni” che dai processi di creazione porta via via alle opere.

L’alveare di quest’anno è affidato a 12 artiste: Silvia Costa, Sara Leghissa, Rita Frongia, Elena Bucci, Francesca Macrì, Katia Giuliani, Elisa Pol, Chiara Bersani, Licia Lanera, Chiara Lagani, Ilaria Drago e Daria Deflorian. Se ne conoscete qualcuna, anche solo di nome, capite che razza di esperienza ne può venire fuori.

Insomma, proprio a metà settembre, quando il clima si fa più mite, un veloce city escape a Prato, magari in questo primo weekend (dal venerdì 20 a domenica 22) o nel secondo (da venerdì 27 a domenica 29) è quello che ci vuole. Fidatevi, non ve ne pentirete.

Il programma completo è sul sito. Basta cliccare qui. Ma se volete il libretto completo, cento pagine, scaricatevelo invece qui.

Sì, ma la Huppert…

Sì, ma la Huppert… pensavo tra me e me l’altra sera, seduto in uno dei 1451 posti dell’Auditorium Grande del Centro Culturale di Belém a Lisbona. Davanti agli occhi mi si srotolavano i 90 minuti di Mary Said What She Said. Monologo che Robert Wilson ha creato per Isabelle Huppert, anti-diva in un tempo in cui anche l’anti-divismo è passato di moda.

Sì, ma la Huppert… quasi come come sessant’anni fa Giovanni Testori aveva scritto Sì, ma la Masiero…

È uno spettacolo di forte impatto visivo, Mary Said What She Said. Basta vedere le foto.

Sì, però peccato…

Peccato, pensavo ascoltando il regale monologo di Huppert. Peccato che un maestro della scena come Robert Wilson – uno che ha segnato con il suo stile il teatro del ‘900 – da quel ‘900 non riesca proprio a uscire. Peccato che vent’anni dopo la fine del secolo, intelligente e bravo com’è (o com’era), Wilson viva esclusivamente di rendita, copiando e ricopiando se stesso. Regie perfette. Non una sbavatura. L’indispensabile e il necessario. Nulla di troppo. Spettacoli dell’altro secolo, però. Gioielli antichi.

Al Festival Almada, in Portogallo, mi sono fermato una settimana (lo raccontavo nel precedente post). E al centro del programma del Festival, in una serata in collaborazione con il Centro Culturale di Belém, c’era lo spettacolo che Wilson regista, Isabelle Huppert interprete, e Darryl Pinckney autore del testo, hanno dedicato a Mary Stuart, pugnace ma sfortunata regina di Scozia.

Titolo allusivo e capzioso: Mary ha detto quel che ha detto. Interprete aristocratica e precisa come un macchina per monologhi. Allestimento impeccabile. Identico però a tutti gli ultimi dieci o quindici spettacoli di Wilson. Le stesse luci, gli stessi fondali sfumati pastello, la stessa rigidità, la stessa ossessione per le ripetizioni. Giurerei che il testo di Pinckney sia stato ripetuto almeno tre volte: riprese, riattacchi, reiterazioni. Lo stile che ha reso grande Wilson dai tempi di Einstein on the Beach. Anche lo stesso movimento del corpo, che taglia il palcoscenico in diagonale. Allora c’era Lucinda Childs, ora c’è Huppert. Allora il compositore era Philip Glass, ora c’è Ludovico Einaudi. Ma il risultato non mi sembra cambiato.

Ma la Huppert…

… è un’attrice iconica. Niente da obiettare. C’era la Lisbona bene a vederla e sentirla, a complimentarsi per la precisione ingegneristica della regia, ad applaudire in piedi per minuti e minuti. Beh, volete saperlo? A quell’iceberg di spettacolo, ho preferito sette attrici altrettanto francesi che, tutte assieme magari non fanno una Huppert, ma con il loro lavoro mi hanno riportato di colpo al presente. La loro torrida performance si intitola Saison séche.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Stagione secca, titolo altrettanto forte nel cartellone di Almada 2019, è una caduta nelle imperfezioni del teatro. Nell’imprecisione dei generi. Né rappresentazione né coreografia, né maschile né femminile. Anzi le due cose assieme. O forse nessuna. L’opposto di Wilson.

Sono figure nude, e poi vestite. Sono colori violenti – rossi, gialli, viola, blu – che macchiano, sporcano, manomettono i corpi e il bianco abbagliante di una scenografia vergine. È un caos di drammaturgia che sembra evocare il rito e si manifesta come un combattimento. È un gesto che insulta, marcia aggressivo, ma è anche atto di accoglienza o di sottomissione, a gambe spalancate.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Una banda di erinni

Orchestrata da una banda di erinni, o da una gang di maschi violenti, Stagione secca – dice la creatrice, Phia Ménard – è la condizione storica della femmina, ma anche una punizione vaginale: secchezza. Mentre con la faccia al muro, sette maschi, incarnazioni del potere, pisciano liberamente. E piscia anche la scena: da insospettabili aperture cola a un certo punto un blob nero come la pece, che distrugge ogni bellezza, se mai ce n’è stata una. Le pareti si accartocciano. I neon del soffitto sbarellano. Potete leggerci dentro un’apocalisse futura. Forse è soltanto, pessimisticamente, il presente.

(ph.  Christophe Raynaud de Lage)

Avrete capito che Saison Séche non è facile da raccontare. Meglio se vi guardate tre minuti di estratto video, e ve ne rendete conto.


Insomma, Phia Ménard, che assieme a Jean-Luc Beaujault ha realizzato tutto questo, è una che ha la stoffa terrorista di Angelica Liddel, di Romeo Castellucci. Non per niente è stata l’exploit dello scorso anno ad Avignone. E ha lasciato senza parole anche il pubblico portoghese, magari lo stesso che una sera prima aveva visto Wilson. E in mezzo a tutto quello sporco, lo ha congedato con la provocazione dell’intramontabile Femme Fatale dei Velvet Undeground. Fatale, e anche geniale.

Sì, ma la Huppert… Vabbè, se proprio insistete, Mary Said What She Said, sarà a Firenze al Teatro della Pergola, dall’11 al 13 ottobre 2019. Io vi ho avvisati.