Verona è un bosco. Mario Martone esplora Romeo e Giulietta

Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta. Trentuno interpreti schierati davanti al pubblico entusiasta del Piccolo Teatro di Milano.
Quel pubblico che ha fiuto, che da sempre sa apprezzare, e vigorosamente applaude i grandi allestimenti. Lo faceva con Strehler. Lo faceva con Ronconi. Oggi lo fa con Martone.
In Italia, la grande regia continua.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
Romeo e Giulietta – ph Masiar Pasquali

Lacrime e adrenalina

L’intenzione – se ho capito bene ciò che ha detto nelle interviste – era dare a Romeo e Giulietta nuova vita. Conservare la storia, la potenza, la fortuna del più famoso fra i testi di Shakespeare. E allo stesso tempo liberarlo da croste, letture grigie, antiquate traduzioni. E da quella mitologia, teatrale e turistica assieme, che porta oggi a Verona milioni di persone. 

Mario Martone – se ho raccolto a dovere i tanti fili dello spettacolo – c’è riuscito. Come gli è capitato spesso di fare con i suoi allestimenti musicali (Barbiere e Traviata, per esempio). 

Oggi consegna al maggior palcoscenico contemporaneo italiano, quella combinazione di altezze e di bassifondi, di poesia e trivialità, di comico e tragico, che di sicuro c’era ai tempi in cui, con gli stessi ingredienti, il giovane Shakespeare catturava il pubblico di una Londra aristocratica e ultrapopolare, capace di lacrime per la acerba e funesta storia d’amore, ma anche di adrenalina davanti al sangue e ai pestaggi di giovani bande rivali. 

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

“Sono partito proprio dall’età – scrive il regista – da questo mondo minorenne misterioso, ambiguo, tutto da esplorare, come nel testo di Shakespeare, che ci avverte che non sempre tutto è scritto; quindi molto va cercato, interpretato”

Missione compiuta, direi. Come era compiuto il ribaltamento geniale, sessant’anni fa, di Sondheim e Bernstein in quella West Side Story (1961) di bianchi e portoricani. O più tardi di Baz Luhrmann, nel californiano William Shakespeare’s Romeo + Juliet (1996), reinventato per Leo Di Caprio e Claire Danes a Verona Beach, periferia pulp di Los Angeles.

Sballati e attaccabrighe 

Niente Verona nemmeno per Martone. Né balcone né cripta. E invece, con maestoso colpo di scena, un bosco lussureggiante, un intrico d’alberi, di foglie, di rami, camminamenti pericolosi, una stellata notte del cuore, questa è Verona.

Ma anche nuvole video, ombre minacciose dentro le quali si nascondono e si dipanano l’amore e i coltelli, Bach e l’house da discoteca, dance party e aperitivini. E inoltre birrette, caffè, occhiali da sole, felpe con il cappuccio, rottami polverosi e la jeep per il fuoristrada.

Mario Martone - Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Segni contemporanei, ma non è un’attualizzazione. È uno Shakespeare infiltrato dal presente, cortocircuito tra il volo metaforico delle battute più celebri (dove cantano allodole e usignoli, dove la luce erompe da est) e l’aggressivo vocabolario di una treccani aggiornata. Nella quale daspo (che poi sarebbe l’esilio) e troia rifulgono alla luce blu delle sirene dei carabinieri. I Capuleti e i Montecchi di uno Shakespeare alcolico, sboccato, sballato, scurrile. 

Credo che la scena boschiva e strepitosa di Margherita Palli e la traduzione di Chiara Lagani a cui Martone aggiunge il propio carico di slang, sapranno rendere Shakespeare digeribile anche al pubblico delle scuole. Che di Capuleti e Montecchi ignora – per quella che è la mia esperienza – persino il nome

Grintosi, ribelli, delicati

Dentro al cast sornione, nel reparto genitoriale, Martone dispiega alcuni tra i nomi pop della scena italiana oggi, fra i più capaci di caricare di colore quei personaggi che edizioni banali di Romeo e Giulietta avevano ingrigito, per puntare al plot romantico.

Qui invece c’è grinta di Licia Lanera (che da balia si svela audace zia), di Michele Di Mauro, (festaiolo e irascibile boss dei Capuleti), di Gabriele Benedetti (che si fa frate condiscendente e parlaccione), di Letizia Guidone (una madre Capuleti avvolta in vestaglie di seta da dark lady). 

Gabriele Benedetti in Romeo e Giulietta - ph Masiar Pasquali
ph Masiar Pasquali

Atletico e fumantino è poi il reparto adolescenziale. Ribelli senza causa, attaccabrighe selvatici pronti per un niente a venire alle mani e alle lame. Velocissimi ad arrampicarsi sugli alberi o a improvvisare una band canterina, basso, chitarra, percussioni. Capaci anche di esaltanti performance orali. Al monologo della regina Mab, Alessandro Bay Rossi, assicura l’impeto di uno poetry slam di scatenata fantasia. E non gli sono da meno Leonardo Castellani (Tebaldo) e Edoardo Sabato (Benvolio). Persino a Paride, insipido e sfortunato promesso sposo, Emanuele Maria Di Stefano dà una sua drammatica dignità.

Francesco Gheghi e Anita Serafini - Romeo e Giulietta - Piccolo Teatro Milano
ph Masiar Pasquali

Ma a fissarsi nella memoria degli spettatori saranno – ne sono sicuro – la delicatezza e la sicurezza con cui i giovanissimi Francesco Gheghi (19 anni) e Anita Serafini (15 anni) affrontano parti che, da quando Shakespeare le ha messe su carta, mettono i brividi a qualsiasi attore, con ben più esperienza.

Il suo Romeo timidino, la sua Giulietta imbronciata, sono gli assi vincenti di questa produzione allestimento. Sembra davvero che incontrino quell’amore che si incontra per la prima volta. Sembra che bevano davvero il veleno fiabesco che li uccide. Ma che da più di quattro secoli li rende anche immortali.

In scena al Piccolo Teatro di Milano, fino al 6 aprile

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ROMEO E GIULIETTA
di William Shakespeare
traduzione Chiara Lagani
adattamento e regia Mario Martone
scene Margherita Palli
costumi Giada Masi
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
video Alessandro Papa
regista assistente Raffaele Di Florio

con (in ordine alfabetico) Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani

e con Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino
e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano: Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini

produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Tiago Rodrigues, Ginevra, la Croce Rossa. Teatro e soccorso umanitario

Sì, lo farò, nella misura del possibile. Lo diciamo a volte per mettere le mani avanti. Nella misura dell’impossibile, dice invece il regista Tiago Rodrigues. E lo fa, parlando di soccorsi umanitari. Il debutto italiano dello spettacolo, domani 18 febbraio a Teatro Contatto a Udine.

Dans la mesure de l'impossible - Tiago Rodrigues (ph. Magali Dougados)
Dans la mesure de l’impossible (ph. Magali Dougados)

Nella misura del possibile. Lo diciamo quando siamo decisi a fare qualcosa, ma già mettiamo le mani avanti, perché conosciamo anche i limiti del nostro fare: le complicazioni, gli impedimenti, gli ostacoli.

Con Dans la mesure de l’impossible, titolo della nuova creazione teatrale, Tiago Rodrigues ci vuole invece dire che gli ostacoli ci possono abbattere, e che i limiti vanno superati. Se c’è la necessità di farlo. Nei momenti di crisi, bisogna farlo. Nella misura dell’impossibile.

Quarantacinque anni, nato a Lisbona, attore, autore, regista, Rodrigues è un uomo di teatro. Ma è anche uno che conosce il mondo, i mondi. Qualche mese fa è stato nominato direttore artistico del Festival di Avignone il più rinomato tra i festival di teatro al mondo. Lo sarà ufficialmente dal 1 settembre 2022, con un mandato di 4 anni. Su QuanteScene! ho parlato molte volte di lui.

Da un po’ Rodrigues ha preso alloggio a Ginevra – dicono le note che presentano Dans la mesure de l’impossible – e ha intervistato coloro che lavorano nelle due più importanti associazioni umanitarie, quelle che mettono in campo decine di migliaia di persone in tutto il mondo: la Croce Rossa e Medici Senza Frontiere. Ha raccolto le loro parole, in francese e in inglese. Poi si è messo a scrivere nella sua lingua, il portoghese.

 

Dans la mesure de l'impossible - Tiago Rodrigues (ph. Magali Dougados)
Dans la mesure de l’impossible (ph. Magali Dougados)

 

La realtà delle emergenze

Dans la mesutre de l’impossibile è quindi uno spettacolo che affronta il tema delicato e spinoso degli aiuti umanitari nelle zone di crisi. È il tentativo di capire il lavoro dei professionisti e dei volontari sanitari. Affonda nella realtà delle emergenze, la documenta, la sottopone agli occhi, all’attenzione, all’emotività degli spettatori. 

Ho voluto occuparmi dei problemi degli uomini e delle donne che vanno e tornano da zone d’intervento critiche, pericolose” spiega Rodrigues. “Quali sono le ragioni che li hanno spinti a fare di questo principio una professione? E cosa succede quando tornano indietro, nelle nostre comode zone di pace?

Nato da una proposta della Comédie de Génève / Ginevra, realizzato grazie a un cordata internazionale di teatri, subito dopo le repliche nella città della Croce Rossa, Dans la mesure de l’impossible arriverà a Udine, prima tappa italiana, il 18 e il 19 febbraio 2022, nel cartellone del CSS – teatro stabile di innovazione – che di quella cordata fa parte.

CSS Udine - Tiago Rodrigues

Quattro domande a Tiago Rodrigues

In vista del debutto, abbiamo posto al regista alcune domande.

Sono questi due anni di epidemia che l’hanno spinta a occuparsi di situazioni di emergenza, zone di crisi, aiuti umanitari?

L’idea che sta dietro a Dans la mesure de l’impossible è precedente all’epidemia. Mi era capitato di parlare con persone che lavoravano nel settore degli aiuti umanitari e sono rimasto profondamente colpito dalla loro esperienza. Penso che lavorare tra pericoli, conflitti, sofferenze e catastrofi abbia permesso loro di acquisire uno speciale punto di vista sul mondo. E abbia anche avuto un impatto molto personale sulle loro vite”.

Certo la pandemia ha cambiato il modo in cui la sua ricerca si è sviluppata.

Era previsto che viaggiassi attraverso alcune regioni del mondo e li osservassi mentre sono all’opera. Molti di questi itinerari sono stati cancellati. Tuttavia, invece di annullare o differire il progetto, ho sentito che farlo ora era ancora più importante. Se queste persone sono costrette a lavorare in situazioni difficili, mi sono detto, perché non dovrei farlo anch’io? Così ho deciso di partire dalle interviste e dagli incontri che ho fatto e sono soddisfatto, perché questo permette davvero di guardare il mondo attraverso i loro occhi”.

Si può perciò parlare Documentary Theatre, teatro documentario?

Non è teatro documentario, lo potremo definire invece teatro documentato. Non c’è mai stata l’intenzione di scrivere un saggio o un reportage sul fenomeno. Ciò che facciamo non riguarda gli aiuti umanitari nel loro complesso, come se fossero una foresta. Ci occupiamo solo di trenta alberi, trenta storie di soccorso, ciascuna basata sul racconto di un operatore“. 

Dans la mesure de l'impossible - Tiago Rodrigues (ph. Magali Dougados)
Dans la mesure de l’impossible (ph. Magali Dougados)

 Che metodo avete seguito lei, drammaturgo e regista, e i cinque performer che sono in scena?

Siamo partiti da eventi e interviste reali, ma ci siamo poi mossi verso una dimensione più teatrale. All’approccio giornalistico abbiamo aggiunto la scena, gli strumenti narrativi, manipolando il linguaggio, cambiando l’ordine degli eventi, organizzando le emozioni. Interpretando la realtà con la sensibilità del teatro. È un lavoro, questo, in cui ci sono attori che raccontano storie che sono state raccontate loro da coloro che le hanno vissute. A volte le parole sono esattamente quelle dette. Altre volte se ne distaccano, liberamente. E non è facile per lo spettatore, distinguere“.

Agli spettatori dunque che cosa chiedete? Cosa vi aspettate da loro?

La sola cosa che, sempre, mi aspetto dagli spettatori è che riconoscano che il mio lavoro è importante per qualcuno. È chiaro: ci tengo a emozionare il pubblico, cerco di condividere con loro cose che hanno importanza per me, propongo un diversa maniera di osservare parte delle nostre vite, provo a fare delle domande. Non è detto che funzioni per tutti. Ma va bene così, nella misura in cui si capisce che questo lavoro è importante almeno per qualcuno. Ci sono un sacco di esperienze artistiche che non mi toccano profondamente, e tuttavia posso riconoscere che, a qualche persona hanno cambiato la vita“.

[una versione corta di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste il 16/2/2022]

 Il trailer dello spettacolo: https://www.theatre-contemporain.net/video/tmpurl_fi1BKUFS

Per altre informazioni e prenotazioni, vai al sito di CSS – Udine.

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DANS LA MESURE DE L’IMPOSSIBLE

testo e regia Tiago Rodrigues
traduzione Thomas Resendes
interpreti Adrien Barazzone, Beatriz Brás, Baptiste Coustenoble, Natacha Koutchoumov, Gabriel Ferrandini (musicista dal vivo)
scene Laurent Junod
composizione musicale Gabriel Ferrandini, suono Pedro Costa
costumi Magda Bizarro
assistente alla regia Lisa Como

una produzione Comédie de Genève 
in coproduzione con Odéon – Théâtre de l’Europe – Paris, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro Nacional D. Maria II – Lisbonne, Équinoxe – Scène nationale de Châteauroux, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG – Udine, Festival d’Automne à Paris, Théâtre national de Bretagne – Rennes, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, CDN Orléans – Val de loire, La Coursive Scène nationale La Rochelle
con l’aiuto di CICR – Comité international de la Croix-Rouge

spettacolo in francese, inglese e portoghese, sottotitolato in italiano

18 e 19 febbraio 2022, Teatro Palamostre, Udine
25, 26, 27 maggio 2022, Piccolo Teatro, Milano

 

Strehler chi? Quel ragazzo di Trieste

Previdente, Cristina Battocletti anticipa in un volume la data fatidica del 14 agosto 2021, quando saranno passati 100 anni dalla nascita di Giorgio Strehler. Mi sono letto tutte le sue 450 pagine di minuziosa biografia. La vita come spettacolo.

Strehler in tenuta da tennis

“Giorgio era un pianeta” dice Andrea Jonasson, parlando dell’uomo capace di cambiare le vite. Non solo la sua: la vita di un’attrice tedesca catapultata in Italia per amore di lui e trasformata. Ma anche la vita del teatro: quello italiano, quello europeo, il teatro di un secolo, trasformato anch’esso.

Per raccontare in un libro il “pianeta Strehler” ci vogliono almeno 450 pagine. Tante quante ne ha riempite Cristina Battocletti nel suo lavoro di esploratrice di vite. In Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste (La nave di Teseo, 19 euro, ebook, 9,99 euro) Battocletti percorre in lungo e in largo quel pianeta, provando a descriverne i tanti climi, le tante luci, le tante donne.

Battocletti copertina

La più rumorosa impronta nella regia italiana

Nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita di Strehler, ricordi e rievocazioni e commenti non mancheranno. C’è anzi da pronosticarne il culmine, ad agosto, sotto il segno del Leone. Proprio cent’anni fa in quei giorni e dalle mie parti, nella silenziosa casetta a due piani di una stradina discosta a Barcola, frazione di Trieste, nasceva l’artista che ha lasciato la più rumorosa impronta nella regia italiana e nella pratica teatrale del Novecento europeo. Per scomparire improvvisamente un momento prima che il secolo di concludesse: la notte di Natale del 1997, a Lugano.

Ma definire Strehler “il ragazzo di Trieste“, non è solo scegliere un titolo per una biografia: è fissare un punto di vista. È la chiave per andare a scoprire che cosa abbia fatto di Strehler un uomo capace di essere triestino, milanese, italiano, europeo, tutto nello stesso tempo. Battocletti, friulana d’origine, poteva farlo. Con lo sguardo di coloro che vedono da lontano il mare – come nelle canzoni di Paolo Conte – oltre che la cultura mitteleuropea. Tanto da rimanerne infine stregata e dedicare ad alcuni grandi “triestini dentro”, prima a Boris Pahor (“Figlio di nessuno”, 2012 ), poi a Bobi Bazlen (“L’ombra di Trieste”, 2017), e adesso finalmente a Strehler, il proprio stringente lavoro di cartografa di vite straordinarie.

Strehler giovane al Piccolo Teatro di Milano

Il Piccolo e il grande

Non è uno scrittore, stavolta, ad essere mappato. È il regista che ha dato al Piccolo Teatro di Milano una grande notorietà mondiale. Naturale perciò che il volume vada modellandosi come una pièce teatrale, o un’opera musicale. Una tra le tante che il regista aveva messo in scena, fino a quell’ultima Così fan tutte, rimasta incompiuta nel dicembre fatidico del ’97.

Una biografia allestita come uno spettacolo: sette scene, sei intervalli, ouverture all’inizio e sipario finale. In mezzo, un apparire e uno scomparire continuo di personaggi. Dai ruoli più importanti (Paolo Grassi, Nina Vinchi “terza fondatrice del Piccolo”, e tutte le iconiche attrici di quel teatro Valentina Cortese, Milva, Giulia Lazzarini, Ottavia Piccolo, Andrea Jonasson, …) fino ai figuranti meno noti, ma indispensabili e capire la complessa personalità di Strehler. Che sta tutta – assicura Battocletti – nelle sue radici. 

È nelle prime decine di pagine, dedicate alle origini, che si disegna il mondo di luci e ombre che saranno poi il segno maturo del regista, mago degli effetti luminosi. “Se quella abilità appare a tutti magica o stregonesca, è perché c’è lo zampino di Trieste” scrive la biografa.

Strehler giovane

Genealogie

Il nonno materno, Olimpio Lovrich, è un montenegrino, impresario teatrale, e a Trieste tiene il timone del Teatro Verdi e del cinema-teatro Fenice. La nonna è una francese, Marie Aline, “che mai parlò altro che il francese”. La madre, la “mammetta” anzi, si chiama Albertina Lovrich, cognome che verrà italianizzato in Ferrari, quando diventerà violinista di una certa fama e comincerà a esibirsi con il Trio di Milano.

Infine, appena sbalzato in controluce dalle proprie origini tedesche, il padre, Bruno Strehler, morto di tifo fulminante, a 28 anni, durante un viaggio con Albertina a Vienna. “Mia madre fece ritorno a Trieste in treno, da sola, con la cassetta delle ceneri sulle ginocchia”. Il piccolo Giorgio aveva solo tre anni. 

In una casa del centro (via San Lazzaro 4, per essere precisi) che risuonava di musica e di voci di donna, il ragazzo di Trieste cresce sognando un futuro da direttore d’orchestra. E tale lo prefigura Victor de Sabata (altro eccellente nome della diaspora triestina) che lo incontra quando ha meno di 30 anni: “Perché non ti rimetti a studiare musica con me per due o tre anni?”. “Penso che ognuno di noi che fa un certo mestiere – rifletterà Strehler parecchio tempo più tardi – possa sostenere che avrebbe dovuto farne un altro”.

Strehler con copione in mano
(ph. Lelli Masotti)

Il senso dell’apocalisse

Infatti la storia va in tutt’altra direzione, quella che conosciamo, e si squaderna per le successive 400 pagine del libro. Fino alla stretta finale – la notte tra il 24 e il 25 dicembre del 1997 – che ripercorre, in un montaggio velocissimo, quasi in un filmato, il diffondersi della notizia della morte. Che coglie impreparati, increduli, atterriti, tutti i personaggi di quello spettacolo che è stata la vita di Giorgio Strehler.

Da Trieste aveva ereditato il senso dell’apocalisse e dell’angoscia, di un sentimento sempre sull’orlo del baratro” scrive Battocletti. Che è una visione estremista della città, ma adeguata al personaggio. “Strehler è la più grande contraddizione montata su due gambe che si possa immaginare. Per lui è impossibile non spendere superlativi assoluti, e molto spesso di segno opposto“.

[pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO, domenica 18 aprile 2021]

STORIE – Quella sera a dicembre nel camerino di Milva

È passato quasi un mese dal post più recente di QuanteScene! Ne ho fatte mille, nel frattempo, direbbero i miei amici a Milano. Però nei teatri ne sono successe poche. E poche ne succederanno, se va avanti così. Altro che riapertura del 27 marzo. 

Pazienza. Abbiate pazienza. Esercitiamo la pazienza. È l’unico invito possibile. Così in questa domenica di passione e di pazienza (da domani precipito anch’io in zona rossa) mi sono deciso a postare un’altra storia per la miniserie degli Incontri con uomini (e donne) straordinari. Spero vi piaccia, almeno quanto vi sono piaciute i precedenti episodi dedicati a Harold Pinter, Kazuo Ohno, Ingvar Kamprad

Sapete a chi tocca oggi? A lei…

Milva canta Brecht

Milva, la rossa

Perché oggi Milva? Perché stamattina in una bella puntata della rubrica che seguo ogni domenica su Facebook (la raccomando anche a voi: Il caffè di Bolzano 29) si parlava di Giorgio Strehler. Del centenario della nascita – il regista era nato a Trieste nel 1921 – e del segno che ha lasciato nel teatro italiano.

Fra i tanti ospiti, autorevoli, celebri, con tanti aneddoti da raccontare, mancava lei, Milva. Lei che con Strehler aveva stretto un sodalizio importante, e non solo: alla visibilità italiana di Bertolt Brecht, lei e la sua voce hanno contribuito quasi quanto Strehler.

Milva canta Brecht

Mancava quindi proprio lei, Milva, perché da qualche anno, chissà se per scelta o per necessità, questa indimenticabile signora dello spettacolo ha deciso di scomparire. Effetto ghosting, che rende ancor più affettuoso il suo ricordo, almeno a me.

Perciò mi sono rammentato del nostro ultimo incontro.

Giorgio Strehler e Milva
Giorgio Strehler e Milva, inizio anni ’70

Milva a Trieste, nel 2007

Ovviamente Strehler era il nostro punto di contatto. In quel 2007 cadeva il decennale dalla morte del regista e il Comune di Trieste, attraverso uno dei suoi più illuminati funzionari, Adriano Dugulin, mi aveva affidato l’ideazione e la cura di una manifestazione che lo ricordasse. Una mostra, un libro, diverse altre iniziative. Perfino un cocktail, intitolato Giorgio, e inventato da un famoso barman. Si combatte anche così l’angoscia della morte.

Si inaugurava allora anche il Fondo Giorgio Strehler, costituito dal lascito personale che Andrea Jonasson (dalla casa milanese di Strehler) e Mara Bugni (da quella di Lugano) avevano voluto donare alla città. Ne trovate notizia in questo articolo su Ateatro.

Tra le tante cose, avevo pensato fosse doveroso estendere l’invito ufficiale dell’amministrazione comunale, oltre che a Andrea Jonasson e a Mara Bugni, anche a Milva.

E perciò, in quella piovosa giornata di dicembre, nelle sale del Politeama Rossetti, apparve lei. Luminosa come un tramonto d’autunno. Rossi, i capelli. Rossa e perfettamente intonata, la pelliccia di volpe con cui fece un ingresso da regina nel foyer.

Cominciò poi a passare in rassegna le foto e i manifesti che il Teatro Stabile ed io avevamo preparato, molti dei quali erano dedicati a lei. E alla sua avventura brechtiana.

Non era la prima volta che la incontravo. Era capitato per esempio nei ristoranti del dopoteatro. Con quell’aria regale mi era apparsa, anni prima, una sera a Genova. Là si era appena conclusa la replica di uno spettacolo in cui interpretava Capitan Uncino (Capitan Uncino, credetemi). Subito dopo, già in pelliccia (nera, se non ricordo male), si era ritrovata nello stesso locale in cui cenavamo noi, giornalisti e operatori tv. Aveva voluto salutare chi aveva con lei più confidenza. E poi, con un gran sorriso, clamorosamente: “Questi amici al tavolo, sono miei ospiti“. Quando si dice, lo stile.

Milva, lo stile

Mina e Milva, per fare un esempio, sono state per lungo tempo i due poli vocali della canzone italiana. La prima sempre sperimentale (la sua estensione di voce, del resto, va dai registri del tenore a quelli del soprano). La seconda, contralto, alternativamente popolare (La filanda) o raffinata (nelle collaborazioni con Battiato, nelle canzoni dedicate a Alda Merini).

Al contrario di Mina, il contatto con il pubblico Milva lo ha sempre coltivato. Non si è arroccata, come l’altra, in qualche lontana Svizzera. E fino a poco tempo fa ha voluto raccontarsi ai giornali. “Trovo delle emozioni nella musica, in un’opera d’arte, nell’affetto profondo dei miei familiari e nelle persone che mi sono vicine, nei tortellini come li faceva mia madre… e nel dormire bene” ha detto nel 2019, prossima gli 80 anni, in un’intervista al Corriere.

E l’anno scorso, durante il lockdown, in alcune immagini emozionanti e incredibilmente tenere della clip di Dario Gay, ha scritto con le proprie mani un video-saluto a tutti gli amici (al minuto 4:18).

Soli in quel camerino

Però fu in quei giorno, dicembre 2007 a Trieste, che Milva svelò ai miei occhi il suo carattere di sovrana.

Le avevo proposto di leggere e registrare una lettera scritta a Strehler da lei stessa negli anni ’70, subito dopo la loro avventura brechtiana. Avrei fatto sentire quella voce nella stanza della mostra dove erano esposte molte lettere indirizzate al regista. Lei acconsentì.

La raggiunsi nel camerino del Politeama Rossetti. Seduti davanti allo specchio, le diedi i due fogli dell’originale e preparai il registratore Nagra che avevo portato come me. Era una lettera molto bella, scritta con cura, l’avevo letta e riletta più volte. In quelle due pagine ringraziava Giorgio e si augurava di poter tornare a lavorare con lui il più presto possibile. Tra le righe si leggeva chiara una affettuosa richiesta, una delicata supplica quasi. Le consegnai il microfono. Avviai la registrazione. 

Una regina non si inginocchia mai

Che lo dica Ecuba o Elisabetta II, è sempre di sovrane che si tratta. Così fece anche lei.

Cominciò a leggere e, proprio sotto i miei occhi o meglio le orecchie, modificò via via le parole e il tono della lettera. Sbalordito, non ci potevo credere. Lei imperturbabile, con voce suadente, come se in quel momento avesse davanti Giorgio, lei continuò a leggere inventando. Alla fine, il senso erano la stima e le congratulazioni di una grande artista a un altro un grande artista, più alcune frasi che vagamente lasciavano aperti orizzonti a una nuova collaborazione. Ma da pari a pari.

Uscii da quel camerino, senza dire una parola, sconcertato e anche ammirato dalla disinvoltura e da uno stile che mi risuona ancora dentro, quando sento uno degli Lp in cui interpreta Brecht. O quando rivedo qualche clip del Festival di Sanremo: ha partecipato a 15 edizioni, mica scherzi. Impegnata in molte occasioni, very pop in altre. Sempre fedele a se stessa.

Da allora, per me, Milva è sempre regina. Una regina rossa: per i capelli e per tante altre ragioni.

Milva canta ‘Alexanderplatz’ a Berlino Est, davanti alla Porta di Brandeburgo (1990)

Dalla fermata del tram alla presidenza della Rai. Le molte vite di Paolo Grassi

Due sono le fermate d’autobus rimaste nella storia. Una è quella dove Marilyn Monroe, costretta ad aspettare, finisce con l’innamorarsi di un cowboy esperto nel maneggiare il lazo (Bus stop, 1956).

L’altra è quella di corso Buenos Aires angolo via Petrella, a Milano. È qui che in una rigida giornata dell’inverno 1936, un giovane di nemmeno diciott’anni, Paolo Grassi, si rivolge a un sedicenne in attesa del tram numero 6.

“Senta, io la vedo sempre a teatro, evidentemente è una sua passione. Tanto vale che io mi presenti, che ci conosciamo e che ci frequentiamo, visto che abbiamo in comune questo amore. Io mi chiamo Paolo Grassi“. 

Io Giorgio Strehler” risponde l’altro. Così almeno l’hanno raccontata sempre i diretti interessati.

Al di qua della mitologia

Su quell’incontro e sulle sue conseguenze, la storiografia del teatro italiano ha costruito una mitologia. Si sviluppava là, all’incrocio con via Petrella, il germe di ciò che dieci anni dopo, con la fondazione del Piccolo Teatro della Città di Milano, e ancora oggi, in Italia, si chiamerà teatro pubblico.

Ritrovo l’episodio, narrato nel libro che si intitola Paolo Grassi. Senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione, che Fabio Francione ha curato per Skira Editore (272 pp., 25 euro) e che racconta uno dei fondatori del Piccolo Teatro. Così come fa – in parallelo – la mostra con lo stesso titolo (e sempre curata da Francione, assieme alla figlia di Grassi, Francesca) che si può visitare fino al 24 marzo a Palazzo Reale, a Milano.

Il libro va letto con attenzione e la mostra visitata lentamente, da chi si occupa adesso di teatro, in Italia. Spiego perché. O perlomeno giustifico una personale opinione.

Le ricorrenze, gli anniversari, centenari o decennali che siano, mi incutono sempre diffidenza. In occasioni simili, si può fare ben poco per evitare la celebrazione, peggio: l’encomio. Ho faticato molto, quando mi sono occupato, in due anniversari, di Giorgio Strehler, per evitare la solita formula. Quella che dice quant’era bravo, quant’era talentuoso, quanto era geniale e rivoluzionario quell’uomo. Mi pareva più utile che la ricorrenza aprisse la porta a questioni, problemi, magari a dubbi.

Grassi al Piccolo

Elegante, versatile, tracotante

Occuparsi di Paolo Grassi (1919 – 1981) è diverso. Grassi è stato il lato raziocinante del Piccolo Teatro. Strehler quello sensitivo, appassionato. Di Grassi non è possibile dire quant’era geniale, talentuoso. Di lui vanno conosciute, riconosciute e ammirate la determinazione e la perseveranza. Aggiungerei, la tenacia.

“Il suo congedo alla vita fu inaspettato”, scrive Francione nel volume. “La morte lo colse all’età di sessantuno anni. Aveva vissuto tre, forse quattro vite; forse aveva ancora molto da dare […] L’eleganza innata, la versatilità oratoria al pari della tracotante difesa delle sue idee e dell’ingombrante presenza per quarant’anni sulla scena culturale italiana, ne fanno uno dei protagonisti del XX secolo”. Verissimo.

Bertolt Brecht e Paolo Grassi sul palcoscenico del Piccolo (1956)

Meno mitologici degli anni passati nella plancia del Piccolo Teatro a tracciare le rotte della più importante istituzione italiana di prosa (1947-1972), ma ugualmente significativi, sono gli anni trascorsi da Grassi come sovraintendente del Teatro alla Scala (1972-1977) e quelli che lo videro poi alla presidenza della Rai (1977-1980).

A lato di queste già complesse tre vite, e di una probabile aspirazione a una quarta, come Ministro dello Spettacolo, c’è il suo importante lavoro di diffusione della cultura teatrale realizzato attraverso i libri e i giornali. Dagli aurorali impegni di critico militante per le riviste che durante il Fascismo, e subito dopo, tennero alta la riflessione culturale in Italia, alla curatela di collane per editori come Rosa e Ballo, Einaudi (dove con Gerardo Guerrieri diresse il più importante progetto teatrale di sempre, la Collezione di Teatro), poi per Cappelli ed Electa.

Poeta dell’organizzazione

Tutto ciò si legge bene nel volume e si vede documentato nella mostra, la quale a differenza di quelle dedicate agli artisti (a Strehler, ad esempio) non può esporre pezzi che strappano l’ammirazione, né fotografie-capolavoro, o cimeli da Wunderkammer.

I documenti di un poeta dell’organizzazione, consistono invece in centinaia di lettere, scritti programmatici, manifesti e appunti, fotografie ufficiali e d’occasione: il quotidiano lavoro di chi tesse la rete su cui poi si appoggeranno gli spettacoli, gli eventi.

Grassi e la regina Elisabetta II al Covent Garden di Londra per la tournée della Scala (1976)

Dall’Archivio Storico del Piccolo Teatro, da quello della Scala, da quello a lui intitolato a Martina Franca in Puglia, e da epistolari e rassegne stampa, proviene dunque la grossa parte dei materiali esposti nella mostra. Anche se certi angoli d’atmosfera – uno per esempio con il televisore anni ’60 (funzionante, e appartenuto nientemeno che a Giovanni Testori) e due poltroncine del ’53, firmate Giò Ponti – riscaldano il contenuto documentario e rievocano un tempo.

Ugualmente, passeggiando attraverso le stanze di Palazzo Reale nelle quali la mostra si sviluppa, una domanda è tornata ad alimentare la mia diffidenza per gli anniversari.

Che cosa imparare da Grassi?

Mi chiedevo che cosa resta, oggi, del lavoro culturale di Grassi. Cosa possiamo imparare da lui? Alla domanda era stato più facile rispondere quando avevo davanti l’eredità artistica di Strehler, essendo quella modalità di regia, la regia critica, quasi completamente estinta.

Un giovane Patrice Chéreau (a sinistra), Tankred Dort e Paolo Grassi (1970)

La battaglia per una nuova cultura è qualcosa che invece non si esaurisce, rilanciata ad ogni nuovo decennio, con nuove parole d’ordine e nuove strategie. Se si scorrono quelle fotografie, quei ritagli di giornale e quelle lettere in copia su carta velina, in altre parole i quattro decenni dell’ingombrante presenza di Grassi sulla scena culturale italiana, ciò che resta costante è la ricerca e l’allargamento dell’arte (dello spettacolo, ma non solo) a un pubblico nuovo ogni volta. Il leit motiv di una vita. A cominciare dalle origini del Piccolo, quando fu lui a darsi da fare perché in sala ci fossero anche “operai […] nel loro abito blu della domenica, con le mogli col vestito bello, ancora timidamente in quella che presto avrebbero cominciato a considerare casa loro“.

Nel tempo dell’Audience Development

Arte sempre più inclusiva, si direbbe oggi, nel tempo dell’Audience Development (che vuol dire allargamento ed coinvolgimento degli spettatori). 

A voler semplificare le cose, si può dire anche che la lezione di Grassi, risulta oggi molto più longeva di quella strehleriana. Se non altro perché fu Grassi (“immodestamente, un poeta dell’organizzazione“) a dare contenuti e forme a una professione che l’Italia ancora non conosceva (altra cosa erano gli impresari) e per lui si spesero le prime etichette di manager della cultura. Così che il suo segno, a saperlo cogliere, si prolunga in un presente in cui la crisi dell’audience dello spettacolo dal vivo, richiederebbe strategie all’altezza di quelle che Grassi applicò prima al Piccolo, poi alla Scala, e infine alla Rai. Dove il varo della terza rete, quella della Cultura appunto, fu un merito suo. Mentre del segno di Strehler rimangono oggi quasi soltanto i preziosi monumenti. Alcuni peraltro in ottimo stato di conservazione, come l’Arlecchino, ma comunque “cimeli”.

Giorgio Strehler, Lorin Maazel, Paolo Grassi, Nina Vinchi (1980)

Molto più che segretaria, molto più che moglie

Non ho citato una sola volta, in queste riflessioni, il nome di Nina Vinchi. Segretaria del Piccolo come lei volle sempre definirsi. In realtà, il suo ruolo fin dalla fondazione fu molto diverso, molto più di quanto quella definizione potrebbe implicare. Di fatto, con Grassi e Strehler, fu la fondatrice. E fu l’ago della bilancia tra il pragmatismo veemente dell’uno e l’egocentrismo passionale dell’altro. Molte cose le decise lei, insieme a loro naturalmente. Il valore e il significato del matrimonio, che tardivamente la strinse a Grassi, nel 1978, andrebbero rivisti, grazie anche a questa mostra e alle sue immagini, pur centrate sul marito. Ma quello di Nina Vinchi è un profilo, e un tema, di cui si occuperà Giuseppina Carutti in un volume di prossima pubblicazione, in ottobre. E che attendo con impazienza.

Paolo Grassi – … senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione… (Centenario 1919 – 1981)
Milano, Palazzo Reale, fino al 24.3.2019
(a cura di Fabio Francione)

Le sezioni
Prologo autobiografico e album familiare
1. Costruzione di un progetto. Paolo Grassi prima di Paolo Grassi (1936-1946)
2. Al Piccolo Teatro con Giorgio, Nina e gli altri (1947-1967)
2.bis Un teatro fuori le mura. La direzione solitaria (1968-1972)
3. L’opera alla prova dei media e della comunicazione. Gli anni al Teatro alla Scala (1972-1977)
4. Un riformista alla Presidenza della Rai (1977-1980)
5. Una passione trasversale: l’editoria (1942-1981)