Comizi d’amore è il titolo di un laboratorio e di una produzione di teatro partecipato, da poco presentata a Udine nel cartellone di Teatro Contatto, all’interno del progetto 100 x 100 Pasolini. Si intitolava allo stesso modo – Comizi d’amore – anche il film-reportage che Pier Paolo Pasolini realizzò all’inizio degli anni Sessanta.
Comizi d’amore laboratorio viene ripreso in questi giorni anche ai Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce.
ph Alice BL Durigatto
Italia 1963
Con una cinepresa alle spalle e il microfono in mano, Pier Paolo Pasolini interroga uomini e donne in costume da bagno su una spiaggia italiana battuta dal sole. “Signora, lei cosa pensa del divorzio?”. A una coppia chiede: “Pensate che il matrimonio risolva i problemi sessuali?”.
Davanti a una fabbrica, si rivolge poi a un gruppo di operai, tutti maschi. “Volevo sapere la vostra opinione sulla legge Merlin”. La legge Merlin aveva fatto chiudere, cinque anni prima, le case di tolleranza. ”Per me è una gran boiata” risponde uno di loro. “Perché?”. “Perché girano molte malattie di Venere, e i brutti hanno diritto anche loro di trovare le donne”.
Il gruppo di ragazzini, ai quali ha appena chiesto se sanno come sono nati, gli dà risposte ovvie – “la cicogna” – ma a volte strabilianti. ”Lo zio, mi ha portato lo zio!”. Oppure “La lavatrice”. Lui, lo sbarbatello più svelto, voleva dire levatrice, ma la piena alfabetizzazione, allora nel nostro Paese, è di là da venire.
Comizi d’amore (1964)
Cinema inchiesta
Comizi d’amore è il titolo del film-reportage che Pasolini realizza in un’Italia anni Sessanta, prossima al traguardo del benessere. E che però, a sentire le risposte, le battute, i ragionamenti raccolti dalla gente per strada e nei quartieri, risulta incredibilmentearretrata sui temi della sessualità, della condizione femminile, della prostituzione. I tabù di una nazione. La pellicola è un luminoso esempio di giornalismo d’inchiesta. Per questo rimane tra i 100 film italiani che, in ogni caso, si dovrebbero salvare.
ph Alice BL Durigatto
Teatro partecipato
Ha lo stesso titolo, Comizi d’amore, anche l’esperienza che la regista Rita Maffei ha voluto quest’anno proporre a un gruppo di uomini e di donne, persone di diverse età e provenienza, che da parecchio tempo lavorano con lei in progetti di laboratorio e teatro partecipato. Formula che in Italia si è sviluppata negli scorsi vent’anni, ed è ormai accreditata tra i modi di produzione delle imprese creative.
Grazie al gruppo dei suoi non-attori, non-interpreti, non-personaggi, anche questi Comizi d’amore, prodotti da Css – Udine, si propongono d’indagare temi che hanno a che fare con la sessualità. E oggi, in particolare, con le questioni e la percezione di genere. La vituperata cultura del gender.
Teatro e cinema documentario sono però fattispecie diverse. Se il secondo può ambire a una visione panoramica della società, dei suoi comportamenti, delle percezioni collettive, inevitabilmente il primo riporta a esperienze singole, storie, racconti che sembrano possedere tanta più forza quanto più si innestano nella verità di coloro che le raccontano. Come succede spesso nel teatro partecipato, la coralità è un effetto, più che un principio.
Ph Alice BL Durigatto
Specialisti del sé
Così, rispetto al lavoro da cui riprende il titolo, questi teatrali Comizi d’amore – l’amore dei nostri Anni Venti – imboccano la strada di una rievocazione affettuosa, moderatamente nostalgica, delle esperienze che ciascuno dei partecipanti ha vissuto in prima persona.
Di quella che, ad esempio, è stata “la prima volta”. Oppure di quale sia stata l’educazione al sesso e al sentimento ricevuta in casa. Di cosa sia la gelosia. Quali ansietà susciti, in famiglia, una transizione di genere.
Esperti della propria vita, si potrebbe dire di questi performer, adottando l’etichetta usata da Rimini Protokoll, il gruppo tedesco che più ha praticato il modello partecipativo.
Specialisti del sé, e perciò convincenti, schietti, ironici o drammatici, giovani o più avanti nelle esperienze, posati o esuberanti, a seconda dei casi. Qualcuno metropolitano, qualcuno più rurale. Siamo in Friuli, del resto, e la campagna è lì, a due passi.
ph Alice BL Durigatto
A lezione d’amore
Noi spettatori, appena la serata comincia, siamo invitati a sedere in minuscoli banchi di scuola, e più che a un comizio, più che al discorso pubblico, partecipiamo alla loro lezione d’amore. Ripercorriamo l’educazione sentimentale di almeno tre generazioni. Sentiamo il battito dei loro affetti, in sintonia con la musica. La cura di Franco Battiato è il pezzo naturalmente più giusto. Ma alla fine a vincere è The power of Love dei Frankie goes to Hollywood.
E visto che siamo a scuola, capiterà anche a noi spettatori di essere invitati a un compito in classe. Sul foglio che ci viene dato insieme alla penna c’è scritto “Io amo…”. Sta a noi aggiungere che cosa.
“Il cosmo”. “I miei figli”. “Aver cura della bellezza”. “I gatti”.” Le parole che ho sentito questa sera”. “Amo l’amore”. “Mia mamma”.
Per pudore, non vi dico che cosa ho scritto io.
ph Alice BL Durigatto
– – – – – – – – – – – – – – – – COMIZI D’AMORE un progetto di Teatro Partecipato ideato e curato da Rita Maffei
con i partecipanti al progetto di Teatro Partecipato: Pepa Balaguer, Mauro Cantarutti, Umiliana Caposassi, Emanuela Colombino, Martino Mattia Cumini, Elisabetta Englaro, Laura Ercoli, Marco Gennaro, Marzia Gentili, Giuliana Grippari, Stella Martin, Donatella Mazzone, Fedra Modesto, Elisa Modonutti, Emanuela Moro, Paola Moro, Ludwig Pellegrinon, Rita Peresani, Marco Petris, Arianna Romano, Nadia Scarpini, Patrizia Volpe
scena e cura immagini Luigina Tusini produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
La prima versione di questo testo è stata pubblicata in inglese nel numero 20 di Critical Stages / Scènes Critiques, il journal dell’Associazione Internazionale dei Critici di Teatro (dicembre 2019).
Per forza di cose, il discorso non poteva tenere conto della situazione di crisi in cui si sono ritrovati, dalla fine del mese di febbraio 2020, i teatri italiani.
Il pubblico a cui si rivolgeva questo paper (qui è tradotto) è fatto di lettori prevalentemente stranieri a cui raccontare, in maniera succinta ma non superficiale, l’evoluzione della scena italiana nel decennio appena trascorso.
Un lettore italiano potrà invece apprezzare (o lamentarsi) della sintesi, che prova a disegnare linee dritte in un panorama che è molto più frastagliato e frammentato.
In 20.000 parole, tante ne contiene questo piccolo saggio, non ci poteva stare tutto. E nemmeno tutti.
Una utile appendice di video, in fondo al paper, riassume, rievoca e soprattutto regala a tutti i lettori lo splendore del teatro italiano contemporaneo.
Teatro italiano. Non un sistema, tante trasformazioni
L’Italia è il paese dei 1000 chilometri. Questa è la distanza che separa la sala del teatro municipale nella città bilingue di Bolzano, tra le Alpi coperte di neve, dal teatro greco di Siracusa, in Sicilia, un teatro all’aperto a pochi passi dal mar Mediterraneo, uno dei più belli della Magna Grecia.
Ma l’Italia è anche il paese delle 1000 lingue. La storia italiana ha fatto sì che ogni regione, ogni singola città perfino, sviluppassero il proprio modo di parlare. Solo la televisione, dagli anni ’50 in poi, è riuscita a rafforzare una lingua italiana comune a tutti, lo standard nazionale. Ma dialetti e lingue locali sopravvivono ovunque e sono vivacemente praticati.
Nessuna sorpresa dunque, se l’Italia può anche contare su 1000 diversi teatri e 1000 diverse maniere di fare teatro. Che sono tutte in continua evoluzione. Ben lontano dall’essere un sistema (come quello francese o quello tedesco), il panorama teatrale italiano è un agglomerato caotico dove eventi storia, varietà linguistiche, luoghi di creazione, piccoli e grandi provvedimenti legislativi, artisti di spicco, scuotono i teatri e i loro pubblici in un caos animato di cui non sempre è facile analizzare la fisionomia e osservare i flussi interni.
L’orizzonte su cui si distribuirà questo paper è breve. Meno di dieci anni. In un periodo così limitato, le forze della trasformazione possono apparire veloci e sorprendenti, ma è probabile che, alla prova del tempo, risultino meno incisive. Questo paper renderà conto di ciò che è avvenuto nelle più recenti stagioni, ma sarà pure necessario fare riferimento a fenomeni di lungo periodo.
Il ruolo delle componenti economiche (finanziamenti), giuridiche (legislazione), sociologiche (caratteristiche dei pubblici) non è trascurabile nelle trasformazioni dei linguaggi delle arti. E si può apprezzare meglio in un arco di tempo più lungo: il solo che tenga anche conto dell’adattamento degli artisti e dei pubblici all’innovazione.
Se la componente organizzativa e istituzionale non vi interessa, potete direttamente passare al paragrafo successivo.
Ecco perché un punto di partenza dal quale far partire il nostro sguardo non è un evento artistico, ma un provvedimento legislativo. Il decreto firmato il 1 luglio 2014 e pubblicato poi sulla Gazzetta Ufficiale (il journal ufficiale della Repubblica Italiana) ha dato nuova forma ai criteri per le assegnazioni del FUS (il Fondo Unico per lo Spettacolo, la principale fonte economica con cui lo Stato Italiano sostiene teatro, musica, danza, attività circensi e spettacoli viaggianti).
È stato un atto legislativo, istituzionale, ma anche artisticamente importante. Infatti :
1) esso dà regole che si auspica durature all’attività teatrale, la quale in Italia non aveva mai avuto una legge di sistema, ma solo provvedimenti temporanei, le cosiddette circolari)
2) agisce creando un rapporto nuovo (qualitativo e quantitativo, in virtù di un algoritmo matematico molto discusso, a dire il vero) nel finanziamento comparativo che amministrazione pubblica riserva ai singoli teatri: questo rapporto era fermo dal 1985, l’anno di nascita del FUS, più di 30 anni fa, e si basava sulla discrezionalità artistica di una commissione.
In questo modo il decreto 1/7/2014 ha cominciato a orientare e incidere su nuovi modelli di creazione, produzione e distribuzione. Dal FUS, o da altri paralleli stanziamenti pubblici (quelli delle amministrazioni regionali, in particolare) modellati sui criteri del FUS, dipende infatti tutta l’attività teatrale in Italia, quella che vuole avere carattere professionale: anche quella che si definisce indipendente.
Il decreto 1/7/2014, ha avuto attuazione nel triennio 2015 – 2017 e si sta in questo momento applicando sul triennio 2018-2020. Non è difficile intuire come alcune spinte presenti del decreto (interesse per l’attività e per le opere multidisciplinari; sostegno a compagnie under 35; individuazione dei teatri nazionali e di quelli di rilevante interesse culturale, i TRIC; attenzione verso la formazione del pubblico e dei giovani artisti) siano motivi propulsori di scelte che compagnie e teatri stanno in questo momento facendo.
Solo nel 2020 alla scadenza del secondo triennio si potrà capire se il decreto ha dato maggior carattere sistemico alla fluidità del panorama teatrale italiano.
Ma è ovvio che stesso periodo hanno agito altre forze, di carattere marcatamente artistico e con la energia maturata in un tempo più lungo.
Daria Deflorian in Il cielo non è un fondale (2016). Ph: Elizabet Carecchio
2. Trasformazioni nella regia
Entriamo finalmente nella sostanza artistica.
La fine del 20esimo secolo è stata contrassegnata, nel teatro italiano dal modello della regia critica. Registi come Giorgio Strehler (1921-1997), Luca Ronconi (1933 – 2015) e Massimo Castri (1943 – 2013) hanno definito un modello di messa in scena tipicamente italiana. Il regista critico non era solamente il garante finale delle diverse componenti che partecipano alla costruzione di uno spettacolo. Questa figura di regista assumeva su di sé anche il ruolo di Dramaturg, di Pedagogo (per gli attori), di Manager (perché lavorava presso i più importanti teatri nazionali e ne orientava le scelte).
Di fatto, il regista critico diventava anche una sorta di co-autore, assieme al drammaturgo che aveva scritto il testo, del lavoro che veniva prodotto. A volte lo scavalcava in visibilità. Così è successo in alcuni tra gli ultimi lavori di Luca Ronconi, prima della morte, La modestia (2011) e Il Panico (2013), nei quali la personalità del regista, catturava l’attenzione molto più di quanto non facesse la scarsa notorietà (in Italia) dell’autore argentino Rafael Spregelburd.
Oggi il modello della regia critica è stato in parte dismesso. Ma il carisma artistico di Ronconi e il suo interesse anche per testi non-drammatici (romanzi, saggi scientifici e economici) hanno lasciato un segno profondo in chi ne ha raccolto l’eredità.
Mario Martone e Antonio Latella sono due registi che operano in questa direzione, sebbene modulata, nel caso di Martone, da molte esperienze parallele nel campo del cinema e dell’allestimento di teatro musicale. Martone ha diretto i teatri stabili pubblici di Roma, di Napoli e di Torino. In quest’ultimo decennio, si è distinto per regie non canoniche, come quella basata sugli scritti filosofici del poeta Giacomo Leopardi (Operette morali, 2014) o per radicali ricreazioni letterarie, come una Carmen (2015, da Merimée, più che da Bizet) iper-popolare, completamente ambientata a Napoli. Il video è in appendice.
Iaia Forte in Carmen, regia Mario Martone (2015)
Latella dirige dal 2017 la sezione Teatro della Biennale di Venezia e, in questo decennio, ha raccolto parecchi consensi con il suo lavoro di creazione e ricodificazione di cult cinematografici come Gone with the Wind (Francamente me ne infischio, 2011), Die Sehnsucht von Veronika Voss (Ti regalo la mia morte, Veronika, 2015) o di romanzi molto popolari (Pinocchio, 2017). Accanto a Martone e Latella, è opportuno ricordare anche i registi di una generazione immediatamente precedente come Giorgio Barberio Corsetti (alla direzione del Teatro di Roma dal 2019), Federico Tiezzi, Cesare Lievi. E soprattutto i registi della generazione successiva: Valerio Binasco (oggi alla direzione del teatro di Torino), Arturo Cirillo, oltre alla progressiva affermazione di donne registe come Serena Sinigaglia, Cristina Pezzoli, Veronica Cruciani.
Christian La Rosa in Pinocchio, regia Antonio Latella (2017). Ph. Brunella Giolivo
Ci sono altre figure di rilievo che a cui si riconosce, in Italia, il titolo di regista. Il loro modus operandi è però alquanto diverso da quello definito sopra. Pippo Delbono, Romeo Castellucci (co-fondatore della sua Socìetas Raffaello Sanzio), Emma Dante non sono propensi alla messa in scena di testi già scritti e si concentrano invece sulla creazione scenica di una drammaturgia molto individuale e originale.
Pippo Delbono, che ha affrontato spesso il tema della marginalità sociale, recentemente ha portato in scena il suo rapporto con la fede cattolica (Vangelo, 2015) e nel suo ultimo lavoro (La gioia, 2018, video in appendice) ha promosso la propria malattia depressiva a motivo portante dello spettacolo. Con un’adesione emotiva molto forte da parte degli spettatori.
Pippo Delbono in La gioia (2018)
Romeo Castellucci propone invece raffinate operazioni di costruzione scenica, quasi il corrispettivo teatrale dell’arte concettuale, intersecate spesso a azioni di scena che turbano lo spettatore (Go down, Moses, 2014, video in appendice).
Emma Dante lavora soprattutto con ensemble di performer da lei accuratamente selezionati. È dal lavoro di improvvisazione di questi gruppi che i suoi spettacoli traggono la loro forza (Le sorelle Macaluso, 2014, Bestie di scena, 2017, video in appendice), esaltata dal clima mediterraneo che nasce dalla sua capacità di leggere la propria terra di origine, la Sicilia, specialmente Palermo.
Con le loro opere, basate su procedimenti di scrittura scenica (e molto meno sulla espressione verbale) Delbono, Dante e Castellucci sono i nomi italiani oggi maggiormente conosciuti in campo internazionale, apprezzati e discussi anche per i loro allestimenti di teatro musicale.
Le sorelle Macaluso, regia Emma Dante (2014)
2.1. Regia: tendenze e figure di spicco
L’accelerazione di questa modalità di lavoro ha fatto sì che fosse sempre meno pronunciata la distinzione tra regista, autore, performer. Esempi di artisti che appaiono condensare in sé queste diverse funzioni sono Roberto Latini e Licia Lanera.
Darling – ricci/forte (2014) Ph. Piero Tauro
Negli ultimi cinque anni si è creata una intensa sintonia fra il pubblico più giovane e le soluzioni pop del duo Stefano Ricci e Gianni Forte (aka ricci/forte) con spettacoli in cui la colonna sonora diventa filo drammaturgico (Darling (ipotesi per un’Orestea), 2014 ). Ma interessante è il lavoro di vera e propria rigenerazione che viene operata su capolavori mondiali, usati come booster per operazioni che sono assolutamente contemporanee. È il lavoro svolto da Massimiliano Civica (su Alcesti, 2014), Alessandro Serra (su Macbeth, 2017), Leonardo Lidi (su Spettri di Ibsen, 2018).
Anche nel 20esimo secolo la tradizione del grand’attore italiano avuto un ruolo primario sui palcoscenici. Ci sono oggi attori anziani che negli anni più recenti hanno consolidato questa tradizione, essendo essi stessi il perno e il principale motivo di richiamo nei loro spettacoli. Umberto Orsini e Glauco Mauri sul versante maschile, Giulia Lazzarini e Anna Maria Guarnieri su quello femminile (le due attrici lavorano quest’anno assieme in Arsenico e vecchi merletti). Tutti hanno superato gli 80 anni. Tuttavia, il loro potere attrattivo è ancora molto forte.
Gabriele Lavia ha fuso le nevrosi della sua personalità d’attore con una larga cultura di regista e ama soprattutto calarsi nei personaggi della grande crisi dell’individuo tra ‘800 e ‘900 (Strindberg e Pirandello, sono spesso stati i suoi cavalli di battaglia). Tra interpretazione e regia si colloca anche il profilo di Alessandro Gassman (figlio del celebre attore Vittorio). Alta qualità interpretativa è stata ed riconosciuta inoltre a Massimo De Francovich, Isa Danieli, Roberto Herlitzka, Piera degli Esposti, …
Molti sono coloro che hanno saputo dividere la propria attività tra teatro, cinema e televisione: cosi che un medium poteva illuminare anche l’altro: Luca Zingaretti (il popolare Commissario Montalbano delle serie investigative in tv) Alessandro Haber, Ottavia Piccolo, Anna Bonaiuto, Angela Finocchiaro, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon, Fabrizio Gifuni, Pierfrancesco Favino e il più giovane Lino Guanciale.
Massimo Popolizio in Un nemico del popolo (2019). Ph. Giuseppe Distefano
Altri interpreti hanno preferito invece concentrare la propria carriera quasi esclusivamente sul teatro, raggiungendo risultati qualitativi molto alti. È il caso di Massimo Popolizio e Maria Paiato (entrambi recitano quest’anno in Un nemico del popolo, probabilmente il miglior spettacolo della stagione 2019/2020). Determinazione, sapienza, ambiguità sono i tratti che definiscono il lavoro d’attrice di Maddalena Crippa, Sonia Bergamasco, Silvia Calderoni, in particolare nel suo Mdlsx (prodotto da Motus nel 2015).
Silvia Calderoni in Mdlsx(Middlesex), Motus (2015). Ph: Simone Stanislai
3.1. Il lavoro degli attori: tendenze e figure di spicco
Per le stesse ragioni indicate nel punto 2.1, molti artisti con spiccate capacità performative scelgono oggi di creare i propri percorsi di scrittura. Uno stile fortemente espressionista, legato alla terra d’origine (la periferia della città di Napoli) e al proprio vitalismo corporeo ha fatto apprezzare Mimmo Borrelli.La Cupa (2018, video in appendice), è un racconto violento, tra canto, mito e bestemmia.
Marta Cuscunà ha basato le proprie creazioni su conflitti di genere e resistenza delle donne, utilizzando in palcoscenico anche tecniche di animatronica (animazione meccanica, e non elettronica, dei pupazzi). Con Sorry, Boys (2016) e Il canto della caduta (2018), Cuscunà ha raggiunto risultati spesso premiati.
Il canto della caduta – Marta Cuscunà (2018) Ph. Daniele Borghello
Gli attori italiani sono spesso vittime di un’abitudine all’over-acting. Tra quelli che si sono affermati di recente, una forma di décalage interpretativo riesce ad allontanare ogni sospetto di recitazione enfatica: Daria Deflorian e Antonio Tagliarini privilegiano l’immediatezza del dialogo e della voce, a cui si accompagna la destrutturazione della linearità testuale elaborata attraverso nuovi orizzonti di scrittura. Come in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (2013) e Il cielo non è fondale (2016). Deflorian e Tagliarini hanno appena vinto il Premio Riccione per l’innovazione drammaturgia (vedi anche il paragrafo 5).
Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (2013). Photo: Gabriele Zanon
La stessa inclinazione è presente nei testi scritti per se stesso da Oscar De Summa e in Lino Musella. Mentre il linguaggio popolare quotidiano, con i suoi luoghi comuni e la sua volgarità, è diventato la firma dei lavori di Babilonia Teatri (dall’iniziale Made in Italy, 2007, al più recente Calcinculo, 2018, video in appendice).
4. Trasformazioni nei formati di produzione
Nonostante questa larga base di registi, di attori e attrici, il teatro occupa uno spazio sempre meno rilevante nel sistema italiano della cultura e dell’intrattenimento. La concorrenza delle opera digitale riprodotta resta infatti imbattibile. Una risposta a questa crisi e alla minor disponibilità economica per la distribuzione di opere è stato il formato monologo, o meglio la performance di un attore o di un’attrice sola.
In Italia il fenomeno si è intrecciato con il crescente interesse per un teatro di impegno civile, analisi della storia recente, spesso in forma di inchiesta giornalistica. Questo tipo di teatro sfrutta principalmente forme non-drammatiche. A partire dagli anni ’90 (con gli artisti che possiamo considerare fondatori: Marco Paolini, Marco Baliani, Laura Curino, tutti ancora in attività) il teatro civile e di inchiesta si è arricchito di altri performer, che oggi sono i cantori problematici della contemporaneità: Ascanio Celestini (Il razzismo è una brutta storia, 2009), Davide Enia (L’abisso, 2018), Giuliana Musso (La fabbrica dei preti, 2012), Mario Perrotta (Nel nome del padre, 2019), oppure coltivano la varietà delle tante lingue che, come si è detto sopra caratterizza l’Italia. Saverio La Ruina, per esempio è portavoce di un teatro del Meridione (La Borto, 2009).
Marco Paolini in Nel tempo degli dei (2018). Ph. Gianluca Moretto
Una risposta antagonista alla diffusione dei formati one-performer è stata la crescita professionale di giovani compagnie. Già negli anni ’70 il teatro italiano aveva vissuto un periodo di grande invenzione collettiva. Di quel periodo restano attivi alcuni gruppi storici: il Teatro dell’Elfo, la compagnia delle Albe di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, a cui si sono aggiunti più tardi i Motus, con un teatro ricco di elementi trasgressivi.
Ma rilevante in questa ultima decade è il fenomeno di compagnie giovani, nate da esperienze di formazione comune, di solito nelle accademie e nelle scuole di teatro, a volte anche nei centri sociali e negli spazi occupati da combattivi movimenti politico-culturali. Si chiamano Carrozzeria Orfeo, Vico Quarto Mazzini, Teatro dei Gordi, Archivo Zeta, Kepler 452, Collettivo Controcanto. Su un peculiare orizzonte di interscambio tra cultura classica e contemporaneità, artigianato e tecnologia, lavora la compagnia Anagoor, con uno spiccato amore per il mondo antico, in Virgilio Brucia (2014, video in appendice) e Socrate il sopravvissuto (2016).
Socrate il sopravvissuto- Anagoor – Ph. Giulio Favotto
4.1. Formati: le tendenze
Il tentativo di rendere più familiare il teatro a gruppi sociali che ne erano esclusi e, al tempo stesso l’interesse per un più diretto ingaggio del pubblico ha dato spazio a nuovi modelli di creazione e produzione.
Affiancando le ricerche dei tedeschi Rimini Protokoll e dei loro Experten des Alltags, esperti del quotidiano, oppure seguendo il modello del teatro sensoriale del colombiano Enrique Vargas, anche il teatro italiano sta elaborando formule di teatro partecipato.
A disegnare il progetto è sempre un regista o un performer ma, nel gruppo degli esecutori, la componente professionistica lascia sempre maggior spazio a amateurs, o cittadini interessati al contatto diretto una lingua d’arte. Sono loro che, con la propria esperienza diretta, vivificano i temi e l’interesse suscitato nello specifico contesto, come in alcuni progetti di Rita Maffei e di Fabrizio Arcuri.
L’assemblea, regia Rita Maffei (2018) Ph. Alice Durigatto/Phocus Agency
Esistono inoltre pratiche progettuali più ampie e variamente frammentate che, ben oltre gli spettacoli, coinvolgono ambiti come quello educativo, sociale, urbanistico, turistico, o anche semplicemente esperienziale, e toccano perciò discipline diverse. Intrinseco nei progetti di Residenza territoriale, essenziale nelle esperienze di teatro per le giovani generazioni (il cosiddetto Teatro Ragazzi), questo è anche il tratto distintivo di molte compagnie, gruppi, istituzioni operanti sui diversi territori, come Teatro dell’Argine (Emilia), Akropolis Teatro (Liguria) , Nest (Campania), Teatro dei Venti (Emilia, con il loro Moby Dick, 2018, video in appendice), Centrale Fies (Trentino), …
5. Trasformazioni nella scrittura
Il tema è molto articolato e non può essere esaurito nelle poche righe a disposizione. La preponderante presenza del digitale ha indebolito l’editoria teatrale (non solo quella fondata sulla carta) e solo tre case editrici italiane sembrano oggi interessate alla pubblicazione di testi teatrali contemporanei. Titivillus (www.titivillus.it), Editoria & Spettacolo (www.editoriaespettacolo.com) e Cue Press (www.cuepress.com, con un prevalente interesse per l’editoria digitale e per gli eBook interattivi).
Le nuove scritture si affidano quindi soprattutto ai premi e ai concorsi, che però hanno poca disponibilità economica e scarsa capacità distributiva. I vincitori di manifestazioni specificamente dedicate alla drammaturgia, come il Premio Hystrio-Scritture di scena e il Premio Riccione, trovano difficoltà nel far arrivare alla produzione le loro opere.
Per questa ragione, soprattutto nel teatro indipendente, si assiste alla creazione di progetti scenici, studi, trailer, schegge (della durata di alcune decine di minuti) utili a portare il proprio lavoro davanti a giurie di esperti (come il Premio Tuttoteatro.com e il Premio Giovani Realtà del Teatro).
Si è imposta comunque, negli ultimi anni, l’efficacia verbale di Lucia Calamaro (che nello scrivere segue un movimento flottante di pensieri piuttosto che storytelling lineari, da L’origine del mondo, 2012, a La vita ferma, 2016). Un caso speciale è quello del prolifico Stefano Massini. La sua originale e epica riscrittura della saga dei Lehman Brothers è stato un fenomeno internazionale, oltre che l’ultima regia di Luca Ronconi (2015, video in appendice).
Lehman Trilogy, Stefano Massini, regia Luca Ronconi. Piccolo Teatro Milano (2015). Ph: Attilio Marasco
6. Trasformazioni dei contesti di spettacolo. Festival e premi
I nomi che sono finora apparsi in questo paper sono anche comparsi una o più volte negli elenchi dei finalisti dei maggiori premi teatrali Italiani.
I Premi Ubu, i premi Hystrio, i premi ANCT (l’associazione dei critici italiani di teatro), le selezioni operate dalle giurie web di Rete Critica, sono oggi una bussola per orientarsi nel teatro italiano. Fino alla scorso decennio, questa ruolo era svolto dai festival. Che continuano sì a svolgere la loro funzione di collettori, ma sono sempre più spesso sottoposti alle determinazioni economiche delle amministrazioni locali (cioè dei loro principali supporter economici) e tendono oggi piuttosto a assolvere funzioni turistiche e di marketing territoriale, come è il caso del celebre Festival dei Due Mondi di Spoleto.
A manifestazioni di forte richiamo come RomaEuropa (a Roma), Vie (a Modena e dintorni), o al festival di teatro della Biennale di Venezia, è affidato il compito di presentare in Italia creazioni internazionali. Svolgono invece attività di scouting Santarcagelo dei Teatri (in Italia centrale ), Drodesera (al Nord), Primavera dei teatri (al Sud) e altre iniziative più localizzate o tematizzate (Bassano Opera Festival in Veneto, Terreni creativi in Liguria, Contemporanea Prato e Kilowatt in Toscana …).
Questi festival focalizzano spesso un orizzonte multi-disciplinare (come è auspicato dal decreto di cui si è parlato all’inizio di questo paper) e sempre più decisiva si rivela l’incidenza del movimento coreografico e della componente musicale anche a teatro.
Molti creatori, con una formazione di danza, sono ospiti dei cartelloni che tradizionalmente erano riservati al teatro. Alessandro Sciarroni, con Folk-s. Will you still love me tomorrow (2012) e Chroma_don’t be frightened of turning the page (2015), Silvia Gribaudi (Graces, 2019, video in appendice), Chiara Bersani, Francesca Pennini e il suo Collettivo Cinetico, sono i principali esponenti di un fenomeno che si pone oggi come traghetto tra linguaggi che molti considerano ancora separati. E aprono inoltre la danza a sollecitazioni forti, fino a smantellarne il tradizionale impianto coreografico.
Age, Collettivo Cinetico (2014). Ph: Marco Davolio