Almeno una cosa, io e Enrico Intra, milanese, maestro internazionale del jazz, condividiamo assieme. Un autore, e certi libri che stanno sempre sui nostri comodini, a portata di braccio.
Tanto lui tanto io ammiriamo Gillo Dorfles. Non solo per il traguardo di quei 107 anni di una vita vissuta bene, ma soprattutto per il talento che Dorfles, maestro formidabile di pensiero, aveva nel guardare avanti, sempre, nell’accrescere la propria curiosità per il nuovo, sempre, nell’evitare ogni rimpianto per “il bel tempo andato”.

È lo stesso talento di Enrico Intra che, a dispetto dei suoi 88 anni, da compiere il prossimo 3 luglio, condivide con il magico intellettuale triestino e milanese, la voglia di non mettersi mai in pantofole. Tanto meno di impantofolare il cervello.
L’intervallo perduto, il saggio sulla musica e non solo, che Dorfles aveva scritto nel 1980 – mi dice – è il suo “livre de chevet“. Poi, elegantemente traduce libro da capezzale, quello che tiene sul comodino. Dice che lo legge e lo rilegge spesso. E non è mai lo stesso libro.
Ci vuole il jazz per non mettere pantofole al cervello
Ieri sera, a Trieste, al Teatro Miela, Intra si è seduto al pianoforte e a forza di musica e improvvisazioni ha cominciato a battagliare con un giovane quartetto d’archi, bravi intraprendenti strumentisti appena usciti dal Conservatorio.
Cornice dell’incontro-scontro, le ispirazioni bizzarre di Erik Satie, il compositore francese di cui il Teatro Miela festeggia ogni anno il compleanno con un evento: SatieRose.
“Trapezista di un circo sonoro” è la definizione che Intra dà dell’autore delle Gymnopédies. Lo ha dimostrato con la suite intitolata Ossimoro per Satie. La serata si era placidamente avviata con la Gymnopédie n.1 trascritta per archi (lent et doloreux) e eseguita dal Quartetto Rêverie (Uendi Reka, violino; Florjan Suppani, violino; Lucy Passante Spaccapietra, viola; Alice Romano, violoncello).
Ma è stata subito travolta dagli spunti jazzistici con cui, da dietro la coda del maestoso e lucido Steinway and Sons, Intra ha pungolato i giovani musicisti, educati al pentagramma, disposti però a seguirlo anche nelle improvvisazioni più ardite.

Parliamo un po’ musica, gli chiedo. O meglio sarebbe dire musiche.
“Non trovo una gran differenza tra la musica che faccio io e gli altri generi. Esiste un grande universo del suono, che è la musica, e contiene tanti diversi modi di fare musica” – spiega lui, pianista, compositore arrangiatore, direttore d’orchestra, docente e maestro di generazioni di musicisti .
“Il jazz – prosegue – è semplicemente un modo di pronunciarla. È una lingua che raccoglie i generi, li elabora, li trasforma. Poi li sputa fuori, restituendo forti emozioni, a chi esegue e a chi ascolta”.
Con una felice espressione – “nulla è lontano” – Intra cancella le distanze tra mondi: quello di Satie, appena eseguito, e quello dei più grandi strumentisti jazz gli sono stati amici e colleghi, come il sassofonista Gerry Mulligan.
“I pensieri degli altri mi arricchiscono. È certo vero che, nella propria vita, uno può decidere di leggere un solo libro, di vedere un solo quadro. Ma gli scrittori sono infiniti e i pittori pure. Io ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Mi affascinava sentire ciò che diceva Luigi Pestalozza, ineguagliabile storico della musica: quando parlava, ogni volta era un fiume. Mi arricchivano gli incontri con Strehler e Grassi, a Milano, quando collaboravo con il Piccolo Teatro. Ma ascolto volentieri anche ciò che la gente dice mentre viaggia sui mezzi pubblici, al supermercato, nei bar… La loro musica è dappertutto”.

Intra dappertutto, tra jazz e pop
Lei non si è risparmiato nulla. Dal jazz alla musica nazional-popolare: direzioni d’orchestra a Sanremo, pezzi per una giovane Giuni Russo e poi Zanicchi, Malgioglio. Perfino i Caroselli, come il suo indimenticabile compagno d’avventura, il chitarrista Franco Cerri, “l’uomo in ammollo”.
“E perché no? Era una forma di comunicazione molto popolare, ci mettevamo la faccia, eravamo ‘quelli del jazz’. Così la nostra musica passava attraverso i media, quel suono si diffondeva”.
Jazz e improvvisazione sono parole pronunciate a volte con diffidenza.
“Il jazz è stato comunicato male. Musica americana, si è scritto spesso. In realtà è il frutto di ciò che gli europei, gli ebrei, gli africani hanno portato in quel continente. Da un punto di vista geografico è statunitense, di fatto è invece la fusione di tante diverse culture. Quanto a improvvisazione, è chiaro che, detta così, comporta sfumature negative. Un medico improvvisato, un giornalista improvvisato… persino un musicista improvvisato. Preferisco dire che sono un musicista estemporaneo. Quest’altra parola mette in evidenza la capacità di inventare all’istante, di cogliere l’atmosfera, le sensazioni intorno. Il pubblico si trova davanti a un artista che crea, in quell’esatto momento”.
L’improvvisazione è di casa al teatro Miela, palcoscenico famigliare per Paolo Rossi.
“Esatto. Paolo, che io definisco appunto ‘jazzista della parola’. Ci ho lavorato e ho riconosciuto in lui lo stile del mio amico Walter Chiari: arrivava sempre all’ultimo istante, magari in ritardo, ma approfittava dell’ambiente, sentiva il profumo, registrava i suoni della gente, li trasformava al volo in parole e storie, con grande simpatia anche, e comicità”.
Quegli anni all’Intra’s Derby Club
Stiamo parlando di quei formidabili anni ’60, vero?
“A Milano avevo dato vita all’Intra’s Derby Club, 1962. Da noi, in Italia, il cabaret non esisteva ancora e al Derby sono passati attori e musicisti, e molti attori-musicisti. Franco Nebbia, per esempio, suonava benissimo il pianoforte. Davvero, grandi jazzisti della parola. Quello era il momento: possedevano una plasticità che ora manca, perché gli attori si impegnano su altri fronti. Ma ritornerà, perché il jazz si arricchisce sempre di ciò che gli sta intorno: musica contemporanea è l’unica definizione giusta. Ritornerà il momento”.

Ne è proprio sicuro?
“Tutto ritorna. Pensi che sono ritornati persino quegli imbecilli che fanno la guerra. Me lo ripeto ogni mattina: ci vuole il jazz per non mettere le pantofole al cervello”.
Eggià. Chiudiamo tornando a Dorfles? A quei libri sul comodino.
“Ogni volta che li riapro ci trovo qualcosa di nuovo. Anni fa avevo composto un pezzo e lo avevo intitolato proprio Dorfles. Adesso però, dopo questo passaggio a Trieste, credo proprio di voler scrivere un pezzo espressamente dedicato a lui. Lo si potrebbe far nascere proprio qui, su questo palcoscenico, il prossimo anno”.
Promesso?
“Promesso”.
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[questa intervista è stata parzialmente pubblicata sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste mercoledì 17 maggio 2023]