STORIE – Enrico Intra, il jazz e quel magico Dorfles

Almeno una cosa, io e Enrico Intra, milanese, maestro internazionale del jazz, condividiamo assieme. Un autore, e certi libri che stanno sempre sui nostri comodini, a portata di braccio. 

Tanto lui tanto io ammiriamo Gillo Dorfles. Non solo per il traguardo di quei  107 anni di una vita vissuta bene, ma soprattutto per il talento che Dorfles, maestro formidabile di pensiero, aveva nel guardare avanti, sempre, nell’accrescere la propria curiosità per il nuovo, sempre, nell’evitare ogni rimpianto per “il bel tempo andato”.

Enrico Intra - by courtesy Fondazione Milano - Civica scuola di musica
Enrico Intra – by courtesy Fondazione Milano – Civica scuola di musica

È lo stesso talento di Enrico Intra che, a dispetto dei suoi 88 anni, da compiere il prossimo 3 luglio, condivide con il magico intellettuale triestino e milanese, la voglia di non mettersi mai in pantofole. Tanto meno di impantofolare il cervello.

L’intervallo perduto, il saggio sulla musica e non solo, che Dorfles aveva scritto nel 1980 – mi dice – è il suo “livre de chevet“. Poi, elegantemente traduce libro da capezzale, quello che tiene sul comodino. Dice che lo legge e lo rilegge spesso. E non è mai lo stesso libro.

Ci vuole il jazz per non mettere pantofole al cervello

Ieri sera, a Trieste, al Teatro Miela, Intra si è seduto al pianoforte e a forza di musica e improvvisazioni ha cominciato a battagliare con un giovane quartetto d’archi, bravi intraprendenti strumentisti appena usciti dal Conservatorio.

Cornice dell’incontro-scontro, le ispirazioni bizzarre di Erik Satie, il compositore francese di cui il Teatro Miela festeggia ogni anno il compleanno con un evento: SatieRose

Trapezista di un circo sonoro” è la definizione che Intra dà dell’autore delle Gymnopédies. Lo ha dimostrato con la suite intitolata Ossimoro per Satie. La serata si era placidamente avviata con la Gymnopédie n.1 trascritta per archi (lent et doloreux) e eseguita dal Quartetto Rêverie (Uendi Reka, violino; Florjan Suppani, violino; Lucy Passante Spaccapietra, viola; Alice Romano, violoncello).

Ma è stata subito travolta dagli spunti jazzistici con cui, da dietro la coda del maestoso e lucido Steinway and Sons, Intra ha pungolato i giovani musicisti, educati al pentagramma, disposti però a seguirlo anche nelle improvvisazioni più ardite.

Ossimoro per Satie - Teatro Miela Trieste - 17 maggio 2023
Ossimoro per Satie al Teatro Miela – ph Paola Sain

Parliamo un po’ musica, gli chiedo. O meglio sarebbe dire musiche.

“Non trovo una gran differenza tra la musica che faccio io e gli altri generi. Esiste un grande universo del suono, che è la musica, e contiene tanti diversi modi di fare musica” – spiega lui, pianista, compositore arrangiatore, direttore d’orchestra, docente e maestro di generazioni di musicisti .

“Il jazz – prosegue – è semplicemente un modo di pronunciarla. È una lingua che raccoglie i generi, li elabora, li trasforma. Poi li sputa fuori, restituendo forti emozioni, a chi esegue e a chi ascolta”.

Con una felice espressione – “nulla è lontano” – Intra cancella le distanze tra mondi: quello di Satie, appena eseguito, e quello dei più grandi strumentisti jazz gli sono stati amici e colleghi, come il sassofonista Gerry Mulligan.

“I pensieri degli altri mi arricchiscono. È certo vero che, nella propria vita, uno può decidere di leggere un solo libro, di vedere un solo quadro. Ma gli scrittori sono infiniti e i pittori pure. Io ho sempre cercato di conoscere il più possibile. Mi affascinava sentire ciò che diceva Luigi Pestalozza, ineguagliabile storico della musica: quando parlava, ogni volta era un fiume. Mi arricchivano gli incontri con Strehler e Grassi, a Milano, quando collaboravo con il Piccolo Teatro. Ma ascolto volentieri anche ciò che la gente dice mentre viaggia sui mezzi pubblici, al supermercato, nei bar… La loro musica è dappertutto”.

Enrico Intra - ritratto

Intra dappertutto, tra jazz e pop

Lei non si è risparmiato nulla. Dal jazz alla musica nazional-popolare: direzioni d’orchestra a Sanremo, pezzi per una giovane Giuni Russo e poi Zanicchi, Malgioglio. Perfino i Caroselli, come il suo indimenticabile compagno d’avventura, il chitarrista Franco Cerri, “l’uomo in ammollo”.

“E perché no? Era una forma di comunicazione molto popolare, ci mettevamo la faccia, eravamo ‘quelli del jazz’. Così la nostra musica passava attraverso i media, quel suono si diffondeva”.

Jazz e improvvisazione sono parole pronunciate a volte con diffidenza.

“Il jazz è stato comunicato male. Musica americana, si è scritto spesso. In realtà è il frutto di ciò che gli europei, gli ebrei, gli africani hanno portato in quel continente. Da un punto di vista geografico è statunitense, di fatto è invece la fusione di tante diverse culture. Quanto a improvvisazione, è chiaro che, detta così, comporta sfumature negative. Un medico improvvisato, un giornalista improvvisato… persino un musicista improvvisato. Preferisco dire che sono un musicista estemporaneo. Quest’altra parola mette in evidenza la capacità di inventare all’istante, di cogliere l’atmosfera, le sensazioni intorno. Il pubblico si trova davanti a un artista che crea, in quell’esatto momento”.

L’improvvisazione è di casa al teatro Miela, palcoscenico famigliare per Paolo Rossi.

“Esatto. Paolo, che io definisco appunto ‘jazzista della parola’. Ci ho lavorato e ho riconosciuto in lui lo stile del mio amico Walter Chiari: arrivava sempre all’ultimo istante, magari in ritardo, ma approfittava dell’ambiente, sentiva il profumo, registrava i suoni della gente, li trasformava al volo in parole e storie, con grande simpatia anche, e comicità”.

Quegli anni all’Intra’s Derby Club

Stiamo parlando di quei formidabili anni ’60, vero?

“A Milano avevo dato vita all’Intra’s Derby Club, 1962. Da noi, in Italia, il cabaret non esisteva ancora e al Derby sono passati attori e musicisti, e molti attori-musicisti. Franco Nebbia, per esempio, suonava benissimo il pianoforte. Davvero, grandi jazzisti della parola. Quello era il momento: possedevano una plasticità che ora manca, perché gli attori si impegnano su altri fronti. Ma ritornerà, perché il jazz si arricchisce sempre di ciò che gli sta intorno: musica contemporanea è l’unica definizione giusta. Ritornerà il momento”.

Enrico Intra
Enrico Intra e Fiorenza – anni ’70

Ne è proprio sicuro?

“Tutto ritorna. Pensi che sono ritornati persino quegli imbecilli che fanno la guerra. Me lo ripeto ogni mattina: ci vuole il jazz per non mettere le pantofole al cervello”.

Eggià. Chiudiamo tornando a Dorfles? A quei libri sul comodino.

“Ogni volta che li riapro ci trovo qualcosa di nuovo. Anni fa avevo composto un pezzo e lo avevo intitolato proprio Dorfles. Adesso però, dopo questo passaggio a Trieste, credo proprio di voler scrivere un pezzo espressamente dedicato a lui. Lo si potrebbe far nascere proprio qui, su questo palcoscenico, il prossimo anno”.

Promesso?

“Promesso”.

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Le STORIE di QuanteScene!
Oltre a questa, ci sono tante Storie che ti potrebbero interessare. Le ho dedicate a Living Theatre, Harold Pinter, Kazuo Ohno, Eimuntas Nekrošius, Milva, Maria Grazia Gregori, Giuliano Scabia, Massimo Castri e tanti altri.

Lasciati portare in giro dai link di QuanteScene!

[questa intervista è stata parzialmente pubblicata sul quotidiano IL PICCOLO di Trieste mercoledì 17 maggio 2023]

E se Dio fosse un peluche peloso? Riconsiderare Shakespeare

Riccardo II d’Inghilterra, ultimo dei Plantageneti, ha un consigliere. Non come ce lo immaginiamo. Un saggio anziano, o il solito spin doctor che trama nell’ombra. No no, il consigliere di Riccardo è un orsacchiotto di peluche.

A lui il sovrano si rivolge quando, nei momenti solenni, ha bisogno di un consiglio. Oppure deve prendere una decisione importante. Poi, a tutti dice che a ispirarlo è stato Dio.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)
Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Succede così in Secondo Riccardo, primo episodio di un teatro palesemente pop che la Compagnia ArtiFragili, cresciuta nel Nordest d’Italia, sta portando in scena a puntate.

Il re ha una corona di cartone e un pelliciotto sintetico. La scena è un praticabile rialzato, un po’ balera, un po’ passerella. Troneggiano i microfoni ad asta. Il pubblico sta tutto intorno.

Riccardo secondo non è Riccardo terzo. Ovvio. Ce lo ricordano più volte i quattro interpreti di Secondo Riccardo, una tragedia che ufficialmente comporterebbe 25 personaggi, più un capitano gallese, due giardinieri, uno stalliere, un carceriere, svariate lady, soldati, servi.

Ce lo ripetono perché? Perché il loro pubblico è in larga parte giovane, generazionale, e i lavori di Shakespeare, in buona sostanza, li ignora. Certo: Amleto, Giulietta, Otello, possono avere qualche circolazione nell’immaginario giovanile, ma tutto il resto, soprattutto ciò che la storia del teatro definisce drammi storici, history plays, si confonde mirabilmente. Gli Enrichi, gli Edoardi. Figurarsi due Riccardi due. Proprio troppi.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

To play the game

Comunque, fosse anche il Riccardo più feroce, il terzo, non ha importanza. Secondo Riccardo è un gioco di teatro, anzi in teatro. E si potrebbe sviluppare anche attorno ad altri lavori. Prendendo in mano altre vicende.

Perché? Perché il proposito è di mettere in piedi una serata divertente, molto divertente, della quale il fine ultimo – almeno così mi sembra di capire – è raccontare una storia, scherzarci attorno, prendersene gioco. E buttare là qualche parola proibita, politically uncorrect, qualche madonna. Sussurrare nei microfoni. Strizzare l’occhio, solleticare l’orecchio con una furba playlist.

E poi battersela con il pubblico. Fargli girare la testa con i faretti colorati. Provocarlo, acchiapparlo con qualche gancio malandrino, per portarlo in scena. O fuori scena. Ovunque. To play the game. E chiudere con un bel dj set.

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Duelli

Shakespeare suggerisce una contesa? Bene, loro moltiplicano i duelli: la sfida delle tabelline, il gioco del palloncino, un due tre stella, paga pegno chi ride per primo.

E’ vero: con Shakespeare di può fare tutto. Gli Oblivion strizzavano otto tragedie in otto minuti, cantando. Derek Jarman riscriveva gli elisabettiani con le sue pennellate barocche, soffrendo. I musical hanno rivoltato il Bardo come un calzino, da Kiss me Kate a West Side Story. Non parliamo del cinema, che ci ha campato per tutto il secolo. 

La theatre-band ArtiFragili ha studiato tutto questo, e magari anche altro. Poi, come si fa con il Martini Cocktail, hanno buttato via il Martini. E lasciato solo il gin, il gioco. Gin Game (ma no: questa è un’altra storia)

ArtiFragili - Secondo Riccardo (ph. Massimo Baxa)

Più puntate

L’impianto inoltre, è seriale. Non un solo spettacolo, da replicare. Ma più puntate, da accumulare. Quante ancora non si sa. Perché? Perché, come sanno gli sceneggiatori americani (quelli che stanno per scioperare, forse proprio per questo) è il pubblico alla fine che decide se una storia va avanti o no. Se si lavora, o si rimane fermi al palo. Il che comporta un seria (ben più seria) riflessione sul precariato creativo. Gli ArtiFragili mi sembrano gli interlocutori giusti per farla.

Ci domanda Riccardo: “Di cosa parla la mia storia? Cosa significa avere il potere e cosa significa perderlo? Cosa sareste disposti a fare per strapparlo a qualcun altro?

Il primo biglietto della tua vita

Ho visto la prima puntata di Secondo Riccardo, qualche sera fa al Teatro Miela a Trieste, Nordest. Mi sono divertito. Si è divertito anche chi stava attorno a me. E magari aveva acquistato per la prima volta in vita sua un biglietto di teatro. Potere dei social.

Adesso sono curioso di sapere se la prossima puntata sortirà lo stesso effetto. 

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SECONDO RICCARDO
uno spettacolo di ArtiFragili
liberamente ispirato a Riccardo II di Shakespeare
progetto drammaturgico a cura di Davide Rossi
regia di Alejandro Bonn 

con Alejandro Bonn, Romina Colbasso, Veronica Dario, Davide Rossi
con il sostegno di Teatro Miela / Bonawentura

La prossima puntata il 30 e il 31 maggio 2023, sempre al Teatro Miela, a Trieste.

Le immagini sono di Massimo Baxa e Federico Valente

Claudio Magris traduttore. Parole sotto le parole

“È come se, sotto ogni libro, ce ne fosse sempre un altro”. Garzanti ha da poco pubblicato Traduzioni teatrali (696 pp., 32 euro), il volume in cui Claudio Magris, scrittore e germanista, riscrive nove capolavori “moderni” della scena di lingua tedesca (e norvegese).

Claudio Magris
Claudio Magris

“Ho sempre trovato scandalosa la sottovalutazione del lavoro del traduttore”. Così Claudio Magris nella prima pagina del suo nuovo libro, appena pubblicato da Garzanti nella collana I libri della spiga.

Le 700 pagine che seguono, una dopo l’altra, sono dimostrazione e documento di quella opinione. Nove capolavori “moderni” della scena di lingua tedesca (e norvegese) da lui tradotti, stanno in fila nello spessore cospicuo del volume. Che mette assieme Ibsen, Schnitzler, Büchner, Grillparzer, e aggiunge loro il meno noto Poly Henrion, secondo un ordine dettato dalla biografia stessa del traduttore. 

Sono gli autori su cui Magris ha lavorato, a cominciare dalla metà degli anni Settanta, per la messa in scena di alcuni loro titoli, potendo seguire, a volte personalmente, l’allestimento.

Claudio Magris - traduzioni teatrali - copertina

Le ganasce di Buazzelli

Così le ganasce di Buazzelli, le guance paffute dell’attore che aveva contribuito non poco al successo di Un nemico del popolo di Ibsen, prima traduzione di Magris per il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia (1974), spuntano già nella premessa al libro.

Messe là, davanti alle successive centinaia di pagine, a ricordare quanto sia necessario, o perlomeno auspicabile, per un traduttore teatrale pensare “agli attori e alle attrici che avrebbero detto, avuto nella loro bocca e nell’espressione del loro viso le parole che avrei scritto”. 

E di conseguenza, quanto fosse doveroso per lui seguire le prove, discutere con gli interpreti, vedere quelle parole prendere (letteralmente) corpo, consolidarsi e trasformarsi. In monumenti addirittura, come era successo nella istrionica performance di Tino Buazzelli, protagonista in quel testo ibseniano. 

Tino Buazzelli
Tino Buazzelli (1922 -1980)

Merito dell’attore. Merito del regista (si trattava di Edmo Fenoglio). Merito però anche del germanista che con quella versione (dal tedesco, non dal norvegese) aveva dato avvio alla propria la carriera di traduttore teatrale. 

Nella quale resta decisiva la versione in italiano di Woyzeck di Georg Büchner, “con quelle sciabolate che tagliano la parola e la vita” (nel 1983, per un progetto televisivo di Giorgio Pressburger). Finché, dopo aver tastate e metabolizzate tutte le regole dello scrivere per il teatro, anche Magris diventerà drammaturgo in proprio (con Stadelmann nel 1988).

Un mestiere nell’ombra

Il che pare essere assai più soddisfacente. Se è vero che, sempre dalla prima pagina, egli lamenta: “A parte eccezioni, quella dei traduttori è una categoria trattata spesso iniquamente. Sono per lo più malpagati o pagati con incredibili ritardi, sicché i loro interessi maturati restano troppo a lungo a impinguare le casse dei committenti ovvero degli editori”.

Non è per tornaconto personale che lo dice (gli si augura anzi di far parte di quelle “eccezioni”). Ma è proprio da là, dalla sottovalutazione anche economica del lavoro dei traduttori, che parte la perorazione partecipata e globale che illumina un “mestiere nell’ombra” (definizione di Renata Colorni), la professione “necessaria e impossibile” (come scrivevano molti anni fa due germanisti triestini, Guido Cosciani e Guido Devescovi).

Breviario di scienza della traduzione

Dalla personale esperienza di traduttore e di autore tradotto (che comincia già negli anni Sessanta con le edizioni straniere del glorioso Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna) Claudio Magris trae quindi tutte le considerazioni, gli stralci, le note e l’aneddotica che rapidamente trasformano la sua premessa in un breviario di scienza della traduzione. Comprese le osservazioni sulle dinamiche transculturali che si riveleranno indispensabili per portare le sue pagine in Giappone e in Cina. 

Claudio Magris sulle Rive a Trieste
Claudio Magris sulle Rive a Trieste

La traduzione è empatica. La traduzione afferra alla gola la vita. È come se, sotto ogni libro, ce ne fosse sempre un altro. Parole sotto le parole

E finalmente tocca alle nove traduzioni dal tedesco. Dall’amato Ibsen (Un nemico del popolo, Spettri e John Gabriel Borkmann) al necessario Schnitzler disincantato cantore della Finis Austriae (La contessina Mizzi, Al pappagallo verde e Casanova a Spa), a Büchner (Woyzeck) e Henrion (La bella Galatea), fino a un Grillparzer arcaico ma al tempo stesso borghese (Medea).

Con tante “piccole inevitabili infedeltà materiali, in nome di una fedeltà di sostanza”. Perché – ricorda Magris – il traduttore “è l’unico autentico lettore di un testo”. Cioè, citando Gesualdo Bufalino, “il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante“.

[questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano di Trieste, Il Piccolo, del 30 ottobre 2022]

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Claudio Magris, Traduzioni teatrali, Garzanti (696 pp., 32 euro)
ISBN 9788811000129

A Miramare la sfinge rivela i segreti di Massimiliano d’Asburgo

Da giovedì 18 agosto e fino al 28, al tramonto, alle 19.30, il Castello e il Parco di Miramare a Trieste ospiteranno lo spettacolo itinerante che Paola Bonesi ha intitolato I segreti dei giardini dell’Arciduca. Un reportage sulla vita di Massimiliano d’Asburgo raccontato attraverso il meraviglioso botanico che lui stesso aveva creato su quel bastione di scogli che ancora oggi fa da portale d’ingresso a Trieste.

La sfinge e il Castello di Miramare a Trieste
La sfinge a Miramare

“Era una persona di grandi talenti, un uomo di scienza e di avventura, intellettuale raffinato, studioso di botanica, curioso, appassionato di architettura ed esperto di mare” mi racconta Paola Bonesi. Lei che la vita di Massimiliano d’Asburgo l’ha studiata in lungo e in largo: biografie, carteggi, diari, disegni e fotografie. “Era uno che aveva bisogno di vedere lontano”. 

Allora io penso alla sfinge immobile, sul molo nel porticciolo di Miramare, che guarda lontano, il mare, l’orizzonte. Muta. Anche lei – la Sfinge di granito rosa – sarà uno dei personaggi che affollano questo progetto, nato da un’ idea di Andreina Contessa (direttrice del Museo del Castello e del Parco), sviluppato e realizzato da Bonesi (ne che è autrice e regista) e che vedrà coinvolti, nei diversi percorsi e nei diversi ruoli, gli attori della Compagnia del Teatro Stabile del Friuli venezia Giulia.

Che cosa nasconde un giardino?

I segreti dell’Arciduca, non sono in realtà segreti. “Tutti i parchi, tutti i giardini, svelano il carattere di chi li ha creati e di chi li cura”. Paola Bonesi ne è così sicura da aver voluto applicare il principio anche al più più bello tra i parchi del Nordest italiano. Questo di Miramare.

Castello e Parco di Miramare Trieste
Il Castello e il Parco

Una passione, coltivata da più di vent’anni, e incrementata dai libri letti e studiati sulla vita e i progetti di Massimiliano d’Asburgo. Che dal 1855 fino al 1867, l’anno della morte, dedicò buona parte delle sue giornate all’edificazione del Castello e del suo “giardino di meraviglie“. Un parco di 22 ettari che raccoglie essenze e piante da tutti i continenti. Un patrimonio botanico che lui stesso si era ingegnato a raccogliere e sviluppare assieme al suo giardiniere d’elezione, Anton Jelinek.

[A tal proposito, potreste leggere gli articoli che Pier Paolo Dorsi e Zeno Saracino hanno scritto su questo sconosciuto ma fondamentale maître di alberi, cespugli e piante].

Miramare, i luoghi, la storia

Lo spettacolo-passeggiata porterà il pubblico in alcuni dei luoghi più suggestivi del Parco – la balconata a mare, i dintorni del Castelletto, i giardini attorno al laghetto – attraversando i quali gli attori comporranno il ritratto di un Massimiliano diverso dall’iconografia ufficiale. Quello che i libri di storia ricordano per la fucilazione a Querétaro, per mano dei repubblicani messicani.

La fucilazione di Massimiliano (1863), secondo Edouard Manet (1868)
La fucilazione di Massimiliano (1867), secondo Edouard Manet (1868)

Dalle finestre del Castello di Miramare, per molti decenni, uno spettacolo di Luci e Suoni aveva ripercorso l’avventura e la tragica fine dell’erede d’Asburgo e imperatore in Messico. 

I tempi però sono cambiati e una nuova consapevolezza porta oggi valorizzare il rapporto tra quell’uomo e quel parco: la sua creatura. O come sostiene Bonesi, “il suo testamento estetico e spirituale”.

Massimiliano intimo

“Su Massimiliano ho letto tanto: le biografie, i carteggi, i diari di coloro che gli stavano accanto e assieme a lui, giorno per giorno, si occupavano di trasformare in realtà quel sogno naturalistico. Jelinek, il fidato giardiniere boemo, oppure José Luis Blasio, segretario e autore di una biografia intitolata Massimiliano intimo” racconta Bonesi.

Anton Jelinek, giardiniere a Miramare
Il giardiniere Anton Jelinek e la moglie in una foto d’epoca

Intimo sì, perché più del rapporto con la consorte Carlotta del Belgio, complesso e non ancora del tutto esplorato, a svelare il carattere avventuroso di Massimiliano (molto diverso da quello del fratello, l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe) ci sono le lettere che dai suoi tanti viaggi (Massimiliano era ammiraglio) l’arciduca spediva, con l’intento di far rivivere sul promontorio adriatico la varietà delle avventure emotive e botaniche da lui esperite nel mondo. E racchiuse nei semi e nelle piante che “importava” dalle Americhe o dai Paesi asiatici.

Alberi e fantasmi a Miramare

“Con la luce del sole al tramonto potrebbe manifestarsi l’invisibile – anticipa Bonesi – grazie ai fantasmi di quei personaggi, che appariranno nei luoghi dove erano abituati a intrattenersi: l’arciduchessa Sofia, il medico di corte von Basch, la dama di compagnia di Carlotta, …”.

A Miramare gli spettatori potranno incontrarli nei pressi della balconata prospiciente al mare, dove tutte le linee prospettiche volgono all’infinto. Oppure nell’aranceto, accanto al Castelletto, dove Carlotta impazzita di dolore fece crescere una pianta d’edera, simbolo di fedeltà eterna. O ancora là dove il giardino formale, all’italiana, e quello romantico, all’inglese, si fondono per merito dell’abilità di Jelinek, diligentissimo capo-giardiniere di corte. 

“Nella rispondenza delle essenze arboree e degli stati d’animo – conclude Bonesi, grata anche al Museo Storico del Castello e del Parco, che collabora all’iniziativa – si cela il segreto che, assieme al pubblico, andremo ogni sera a a scoprire”.

[parzialmente pubblicato sul quotidiano di Trieste, IL PICCOLO, il 17 agosto 2022]

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I SEGRETI DEI GIARDINI DELL’ARCIDUCA 

da un’idea di Andreina Contessa
scritto e diretto da Paola Bonesi
con Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Andrea Germani, Iacopo Morra, Maria Grazia Plos
e Francesca Boldrin, Alessandro Colombo, Serena Costalunga, Giacomo Faroldi, Radu Murarasu
produzione il Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
in collaborazione con il Museo Storico e il Parco del Castello di Miramare

Ferdinando Massimiliano d'Asburgo-Lorena; Vienna, 6 luglio 1832 – Santiago de Querétaro, 19 giugno 1867
Ferdinando Massimiliano d’Asburgo-Lorena; Vienna, 6 luglio 1832 – Santiago de Querétaro, 19 giugno 1867

Mettiti all’opera. Pochi giorni ancora per creare una “operina per Rosella”

Ne stanno arrivando, piano piano, sempre di più. Via via che si avvicina la scadenza, gli amici di Rosella si mettono d’impegno. Per lei, ognuno crea un’operina.

Operina per Rosella by Cesare Piccotti
la prima operina per Rosella pubblicata nel gruppo – by Cesare Piccotti

OPERINE IN ROSE_LLA è il gruppo Facebook che abbiamo attivato per ricordare a tutti coloro che le hanno voluto bene, che il 19 dicembre Rosella avrebbe compiuto… beh, un numero tondo. 🙂

Tante idee per chi ci ha regalato idee

Ci è sembrato un buon pensiero, semplice, senza fronzoli, pensato nello spirito che Rosella aveva sempre trasfuso nel suo lavoro. E quanto lavoro!

L’idea è semplice. Ognuno può creare un’operina, preferibilmente una foto, un disegno, una composizione originale – ma la scelta è strettamente personale – e pubblicarla con un post sul gruppo.

Operina per Rosella by Massimo Gardone
un’altra fra le prime operine postate nel gruppo

Domenica 19 dicembre 2021, alla Stazione Rogers, a Trieste, ma anche in streaming su Facebook, scorreremo tutti assieme la galleria delle operine, e le trasformeremo quindi in un libro. Cartaceo sì, perché il digitale non ha mica fatto fuori la carta. Certi miei amici assai avanti dicono che la carta è resiliente, antifragile. Del resto, pure Rosella lo era.

Poche e semplici, le indicazioni che abbiamo dato. Le trascrivo qui sotto.

“Il 19 dicembre, giorno in cui Rosella avrebbe festeggiato il suo compleanno, noi la festeggeremo con la presentazione di tutte le “operine” che i suoi amici le vorranno dedicare per l’occasione. Ricordando così il suo spirito d’iniziativa, le sue aperture creative, la dedizione alle arti e agli altri, la gentilezza, l’umanità“.

Operina per Rosella by Maila Zarattini

Contribuire è semplice

– crea un “operina per Rosella” (pensa a una cosa che le sarebbe piaciuto ricevere)

– “gentilezza” e “però non tanti gattini, eh!” sono le sole regole che suggeriamo 

– fanne una foto e pubblicala sul gruppo Facebook “Operine in rose_lla” (lei amava Fb), il link è questo: https://www.facebook.com/groups/431674095199299

– ricorda che tutte le operine pubblicate entro le 18.00 del 18 dicembre saranno visibili nel gruppo (dopo una verifica tecnica)

– partecipa, domenica 19 dicembre 2021, alle ore 11.00, in Stazione Rogers a Trieste, e in diretta streaming su Fb, all’evento in cui visioneremo tutti assieme la galleria delle operine. E brinderemo: perché a Rosella piacevano le feste.

– se vuoi entrare nel gruppo, e non sai come fare, manda a me (o a qualsiasi altro amministratore del gruppo) una mail attraverso Fb e ti faccio avere il link.

Tutto chiaro? Penso di sì. E mi raccomando, sii gentile, perché la gentilezza fa bene.

Operina per Rosella by Alessandra Muran

Rosella

Rosella Pisciotta (1941 – 2017) è stata l’anima e il motore femminile di tante iniziative che hanno trasformato Trieste dagli anni Sessanta in poi.

Gentile e sorridente, schiva e determinata, irresistibilmente pop, ha acceso nella città le luci internazionali di una cultura d’avanguardia.

Operina per Rosella by Ori Varesano

Dove è veramente nato Giorgio Strehler? Un interrogativo senza documenti

Sarebbero stati cento, oggi 14 agosto, i compleanni di Giorgio Strehler. Si concentra così attorno a questa data una rete di pubblicazioni, iniziative, articoli, libri, trasmissioni, proposte, che riflettono sul ruolo che Strehler artista, intellettuale e regista, ha avuto nella storia del ‘900 italiano e europeo. 

Trieste, la città in cui era nato, nel 1921, ha un posto particolare in questa antologia di rievocazioni. Qui, nel cimitero di Sant’Anna, nella tomba di famiglia, sono oggi collocate le sue ceneri.

Sul quotidiano di Trieste, Il Piccolo, è apparso oggi questo mio articolo, che indaga attorno a uno dei piccoli punti di domanda che – nonostante la mole di notizie e di studi sulla sua vita e sui suoi spettacoli – restano fortunatamente tali.

Giorgio Strehler - 1926
Nel 1926 Giorgio Strehler ha cinque anni

Una casa confusa tra gli alberi, a Bàrcola

“La vedi? Proprio davanti al campanile. È la casa dove è nato Giorgio”. Vagamente, con le dita lunghe e ossute, il critico teatrale del quotidiano di Trieste, Giorgio Polacco, indicava dal finestrino del treno un edificio, confuso tra gli alberi, non molto distante dal giardino di Bàrcola. Lo faceva con chiunque, ogni volta che il convoglio, partito dalla Stazione Centrale, arrivava a costeggiare il rione riviera della città.

In quella casa confusa tra gli alberi, cent’anni fa, il 14 agosto del 1921, doveva essere venuto al mondo Giorgio Strehler.

Triestini entrambi, i due Giorgio erano accomunati dal dialetto, dal teatro, da una prolungata collaborazione. E naturalmente erano amici. Figli della diaspora che per tutto il Novecento ha spinto all’emigrazione molte della teste migliori di questa città. Con Milano e Roma tra gli approdi preferiti.

Giorgio il regista – quello di cui oggi si parla e con il quale si celebra un impossibile compleanno – aveva lasciato Trieste quando aveva sette anni, nel dicembre del 1928, destinazione Milano: la sua seconda città, la sua seconda pelle. 

Alla stazione di Trieste

Alla stazione chissà, mano nella mano, mamma Albertina e il piccolo Strehler avevano preso posto sul treno. Pochi minuti dopo la partenza, passando proprio in quel punto, il bambino aveva salutato, forse, l’edificio in cui gli era stato detto di essere nato.

Perché la casa in cui aveva passato l’infanzia non era certo quella. Albertina Lovrich, violinista, e Bruno Strehler, imprenditore nel settore della carta, erano convolati a nozze nel gennaio del 1920, e abitavano in un palazzo del centro di Trieste, in via San Lazzaro 4. Dalle finestre del loro appartamento si vedeva il Corso. “Una casa piena di donne e di musica: madre, nonna, cameriere e governanti… mi addormentavo sentendo in una stanza vicina mia madre che suonava il violino“.

Un’infanzia da idillio, nelle parole del regista. In realtà, il destino non era stato generoso con quella famiglia. A 28 anni – quando il piccolo Strehler ne aveva soli tre – Bruno Strehler era morto di tifo. Fulminato dalla malattia, durante un breve soggiorno con Albertina a Vienna. “Lei fece il viaggio di ritorno in treno, da sola, tutta vestita di nero, tenendo sulle ginocchia una cassetta con le ceneri del marito“.

Pochi anni più tardi, nel 1928 – quando Giorgio stava per compierne sette – era scomparso anche Olimpio Lovrich, padre e nonno, originario di Zara, impresario teatrale, uno che era riuscito a dare la svolta ai cartelloni musicali del Teatro municipale Verdi, e a lanciare il Cinema Teatro Fenice. 

Destinazione Milano

Per madre e figlio, ormai orfani, non c’era ragione di rimanere a Trieste. Tanto più in quegli anni, con un cognome di origine slava, Lovrich. Così avevano preso il treno. Lei con il suo violino e le promesse di una carriera da concertista (si farà chiamare Albertina Ferrari, suonerà con il Trio di Milano). Il piccolo Giorgio con la curiosità di conoscere una nuova città, che lo avrebbe trasformato, reso adulto, e che lui, viceversa, trasformerà culturalmente. La Milano del Piccolo Teatro di Milano.  Ma tutto questo accadrà dopo la guerra. 

Giorgio Strehler

Torniamo invece a quella casa tra gli alberi. Perché mai, cent’anni fa, il neonato Strehler vede la luce a pochi passi dal mare, a Barcola, e non nell’elegante e borghese edificio di via San Lazzaro?

È un bel quesito. Ci abbiamo riflettuto, qualche tempo, fa, nel 2007, quando per conto del Comune di Trieste e sotto l’egida del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, io, Franca Tissi, archivista, e Stefano Bianchi, conservatore, preparavamo la mostra che assieme a una pubblicazione e altri eventi, avrebbe celebrato il decennale della morte del regista, avvenuta nella notte di Natale del 1997.

I documenti

In tante interviste e dichiarazioni Strehler aveva sempre sostenuto di essere nato a Bàrcola. Ma non c’è alcun documento a comprovarlo. L’atto battesimale, nella chiesa di Sant’Antonio, conferma anzi che i genitori risiedevano in via San Lazzaro.

Però, tra le carte del Fondo Giorgio Strehler, ospitato nel Museo Schmidl e frutto della donazione congiunta di Andrea Jonasson e Mara Bugni, ci sono due fotografie. Mostrano un decoroso edificio, con gli alberi e le ombre di una giornata d’inverno. Sul retro, scritto a mano, “Villa Maria, Barcola”.

Villa Maria - civico 76 di Barcola Riviera  - Trieste
Villa Maria, Barcola

Se interrogati a dovere, la toponomastica e i documenti catastali rispondono. Si trattava del civico 76 di Barcola Riviera, di proprietà di Natalia Jasbitz, la mamma di Bruno, la nonna paterna, di origine slovena. 

Sarà vero che Giorgio Strehler era nato proprio là, nei pressi del mare? Sarà stata Albertina ad aver deciso di partorire in casa della suocera? Sarà stato più comodo, per la puerpera, il basso edificio di Barcola e non i piani alti di via San Lazzaro?

Oppure era proprio Strehler, nella propria ricostruzione biografica, a “voler” essere nato a Bàrcola? Con i riflessi delle onde e la luce del sole al tramonto. Proprio come in alcuni dei suoi spettacoli.

Sotto il segno del Leone

Né il nostro libro, pubblicato in occasione della mostra (Strehler privato. Carattere affetti passioni, Comune di Trieste 2007) né il recente studio biografico di Cristina Battocletti (Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste, La Nave di Teseo, 2021), avanzano una risposta. 

Con maggior determinazione, lo farà invece il Comune di Trieste che tra qualche settimana, apporrà una targa commemorativa su quell’edificio – al 76 di Barcola Riviera – che oggi corrisponde a un numero civico di via Moncolano. Iniziative, convegni, mostre, eventi, verranno dopo.

Del resto, lo sapeva bene Strehler stesso: non devi aspettarti molto per il tuo compleanno, se sei nato il 14 agosto. Il tuo segno è il Leone, ma la gente, quel giorno, vive il pieno dell’estate, è in vacanza, pensa a altro.

Anche le celebrazioni del centenario prenderanno perciò il via più in là. Probabilmente quando farà meno caldo.

[pubblicato sull’edizione del 14 agosto 2021 del quotidiano IL PICCOLO]

Strehler chi? Quel ragazzo di Trieste

Previdente, Cristina Battocletti anticipa in un volume la data fatidica del 14 agosto 2021, quando saranno passati 100 anni dalla nascita di Giorgio Strehler. Mi sono letto tutte le sue 450 pagine di minuziosa biografia. La vita come spettacolo.

Strehler in tenuta da tennis

“Giorgio era un pianeta” dice Andrea Jonasson, parlando dell’uomo capace di cambiare le vite. Non solo la sua: la vita di un’attrice tedesca catapultata in Italia per amore di lui e trasformata. Ma anche la vita del teatro: quello italiano, quello europeo, il teatro di un secolo, trasformato anch’esso.

Per raccontare in un libro il “pianeta Strehler” ci vogliono almeno 450 pagine. Tante quante ne ha riempite Cristina Battocletti nel suo lavoro di esploratrice di vite. In Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste (La nave di Teseo, 19 euro, ebook, 9,99 euro) Battocletti percorre in lungo e in largo quel pianeta, provando a descriverne i tanti climi, le tante luci, le tante donne.

Battocletti copertina

La più rumorosa impronta nella regia italiana

Nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita di Strehler, ricordi e rievocazioni e commenti non mancheranno. C’è anzi da pronosticarne il culmine, ad agosto, sotto il segno del Leone. Proprio cent’anni fa in quei giorni e dalle mie parti, nella silenziosa casetta a due piani di una stradina discosta a Barcola, frazione di Trieste, nasceva l’artista che ha lasciato la più rumorosa impronta nella regia italiana e nella pratica teatrale del Novecento europeo. Per scomparire improvvisamente un momento prima che il secolo di concludesse: la notte di Natale del 1997, a Lugano.

Ma definire Strehler “il ragazzo di Trieste“, non è solo scegliere un titolo per una biografia: è fissare un punto di vista. È la chiave per andare a scoprire che cosa abbia fatto di Strehler un uomo capace di essere triestino, milanese, italiano, europeo, tutto nello stesso tempo. Battocletti, friulana d’origine, poteva farlo. Con lo sguardo di coloro che vedono da lontano il mare – come nelle canzoni di Paolo Conte – oltre che la cultura mitteleuropea. Tanto da rimanerne infine stregata e dedicare ad alcuni grandi “triestini dentro”, prima a Boris Pahor (“Figlio di nessuno”, 2012 ), poi a Bobi Bazlen (“L’ombra di Trieste”, 2017), e adesso finalmente a Strehler, il proprio stringente lavoro di cartografa di vite straordinarie.

Strehler giovane al Piccolo Teatro di Milano

Il Piccolo e il grande

Non è uno scrittore, stavolta, ad essere mappato. È il regista che ha dato al Piccolo Teatro di Milano una grande notorietà mondiale. Naturale perciò che il volume vada modellandosi come una pièce teatrale, o un’opera musicale. Una tra le tante che il regista aveva messo in scena, fino a quell’ultima Così fan tutte, rimasta incompiuta nel dicembre fatidico del ’97.

Una biografia allestita come uno spettacolo: sette scene, sei intervalli, ouverture all’inizio e sipario finale. In mezzo, un apparire e uno scomparire continuo di personaggi. Dai ruoli più importanti (Paolo Grassi, Nina Vinchi “terza fondatrice del Piccolo”, e tutte le iconiche attrici di quel teatro Valentina Cortese, Milva, Giulia Lazzarini, Ottavia Piccolo, Andrea Jonasson, …) fino ai figuranti meno noti, ma indispensabili e capire la complessa personalità di Strehler. Che sta tutta – assicura Battocletti – nelle sue radici. 

È nelle prime decine di pagine, dedicate alle origini, che si disegna il mondo di luci e ombre che saranno poi il segno maturo del regista, mago degli effetti luminosi. “Se quella abilità appare a tutti magica o stregonesca, è perché c’è lo zampino di Trieste” scrive la biografa.

Strehler giovane

Genealogie

Il nonno materno, Olimpio Lovrich, è un montenegrino, impresario teatrale, e a Trieste tiene il timone del Teatro Verdi e del cinema-teatro Fenice. La nonna è una francese, Marie Aline, “che mai parlò altro che il francese”. La madre, la “mammetta” anzi, si chiama Albertina Lovrich, cognome che verrà italianizzato in Ferrari, quando diventerà violinista di una certa fama e comincerà a esibirsi con il Trio di Milano.

Infine, appena sbalzato in controluce dalle proprie origini tedesche, il padre, Bruno Strehler, morto di tifo fulminante, a 28 anni, durante un viaggio con Albertina a Vienna. “Mia madre fece ritorno a Trieste in treno, da sola, con la cassetta delle ceneri sulle ginocchia”. Il piccolo Giorgio aveva solo tre anni. 

In una casa del centro (via San Lazzaro 4, per essere precisi) che risuonava di musica e di voci di donna, il ragazzo di Trieste cresce sognando un futuro da direttore d’orchestra. E tale lo prefigura Victor de Sabata (altro eccellente nome della diaspora triestina) che lo incontra quando ha meno di 30 anni: “Perché non ti rimetti a studiare musica con me per due o tre anni?”. “Penso che ognuno di noi che fa un certo mestiere – rifletterà Strehler parecchio tempo più tardi – possa sostenere che avrebbe dovuto farne un altro”.

Strehler con copione in mano
(ph. Lelli Masotti)

Il senso dell’apocalisse

Infatti la storia va in tutt’altra direzione, quella che conosciamo, e si squaderna per le successive 400 pagine del libro. Fino alla stretta finale – la notte tra il 24 e il 25 dicembre del 1997 – che ripercorre, in un montaggio velocissimo, quasi in un filmato, il diffondersi della notizia della morte. Che coglie impreparati, increduli, atterriti, tutti i personaggi di quello spettacolo che è stata la vita di Giorgio Strehler.

Da Trieste aveva ereditato il senso dell’apocalisse e dell’angoscia, di un sentimento sempre sull’orlo del baratro” scrive Battocletti. Che è una visione estremista della città, ma adeguata al personaggio. “Strehler è la più grande contraddizione montata su due gambe che si possa immaginare. Per lui è impossibile non spendere superlativi assoluti, e molto spesso di segno opposto“.

[pubblicato sul quotidiano IL PICCOLO, domenica 18 aprile 2021]

STORIE – Quella sera a dicembre nel camerino di Milva

È passato quasi un mese dal post più recente di QuanteScene! Ne ho fatte mille, nel frattempo, direbbero i miei amici a Milano. Però nei teatri ne sono successe poche. E poche ne succederanno, se va avanti così. Altro che riapertura del 27 marzo. 

Pazienza. Abbiate pazienza. Esercitiamo la pazienza. È l’unico invito possibile. Così in questa domenica di passione e di pazienza (da domani precipito anch’io in zona rossa) mi sono deciso a postare un’altra storia per la miniserie degli Incontri con uomini (e donne) straordinari. Spero vi piaccia, almeno quanto vi sono piaciute i precedenti episodi dedicati a Harold Pinter, Kazuo Ohno, Ingvar Kamprad

Sapete a chi tocca oggi? A lei…

Milva canta Brecht

Milva, la rossa

Perché oggi Milva? Perché stamattina in una bella puntata della rubrica che seguo ogni domenica su Facebook (la raccomando anche a voi: Il caffè di Bolzano 29) si parlava di Giorgio Strehler. Del centenario della nascita – il regista era nato a Trieste nel 1921 – e del segno che ha lasciato nel teatro italiano.

Fra i tanti ospiti, autorevoli, celebri, con tanti aneddoti da raccontare, mancava lei, Milva. Lei che con Strehler aveva stretto un sodalizio importante, e non solo: alla visibilità italiana di Bertolt Brecht, lei e la sua voce hanno contribuito quasi quanto Strehler.

Milva canta Brecht

Mancava quindi proprio lei, Milva, perché da qualche anno, chissà se per scelta o per necessità, questa indimenticabile signora dello spettacolo ha deciso di scomparire. Effetto ghosting, che rende ancor più affettuoso il suo ricordo, almeno a me.

Perciò mi sono rammentato del nostro ultimo incontro.

Giorgio Strehler e Milva
Giorgio Strehler e Milva, inizio anni ’70

Milva a Trieste, nel 2007

Ovviamente Strehler era il nostro punto di contatto. In quel 2007 cadeva il decennale dalla morte del regista e il Comune di Trieste, attraverso uno dei suoi più illuminati funzionari, Adriano Dugulin, mi aveva affidato l’ideazione e la cura di una manifestazione che lo ricordasse. Una mostra, un libro, diverse altre iniziative. Perfino un cocktail, intitolato Giorgio, e inventato da un famoso barman. Si combatte anche così l’angoscia della morte.

Si inaugurava allora anche il Fondo Giorgio Strehler, costituito dal lascito personale che Andrea Jonasson (dalla casa milanese di Strehler) e Mara Bugni (da quella di Lugano) avevano voluto donare alla città. Ne trovate notizia in questo articolo su Ateatro.

Tra le tante cose, avevo pensato fosse doveroso estendere l’invito ufficiale dell’amministrazione comunale, oltre che a Andrea Jonasson e a Mara Bugni, anche a Milva.

E perciò, in quella piovosa giornata di dicembre, nelle sale del Politeama Rossetti, apparve lei. Luminosa come un tramonto d’autunno. Rossi, i capelli. Rossa e perfettamente intonata, la pelliccia di volpe con cui fece un ingresso da regina nel foyer.

Cominciò poi a passare in rassegna le foto e i manifesti che il Teatro Stabile ed io avevamo preparato, molti dei quali erano dedicati a lei. E alla sua avventura brechtiana.

Non era la prima volta che la incontravo. Era capitato per esempio nei ristoranti del dopoteatro. Con quell’aria regale mi era apparsa, anni prima, una sera a Genova. Là si era appena conclusa la replica di uno spettacolo in cui interpretava Capitan Uncino (Capitan Uncino, credetemi). Subito dopo, già in pelliccia (nera, se non ricordo male), si era ritrovata nello stesso locale in cui cenavamo noi, giornalisti e operatori tv. Aveva voluto salutare chi aveva con lei più confidenza. E poi, con un gran sorriso, clamorosamente: “Questi amici al tavolo, sono miei ospiti“. Quando si dice, lo stile.

Milva, lo stile

Mina e Milva, per fare un esempio, sono state per lungo tempo i due poli vocali della canzone italiana. La prima sempre sperimentale (la sua estensione di voce, del resto, va dai registri del tenore a quelli del soprano). La seconda, contralto, alternativamente popolare (La filanda) o raffinata (nelle collaborazioni con Battiato, nelle canzoni dedicate a Alda Merini).

Al contrario di Mina, il contatto con il pubblico Milva lo ha sempre coltivato. Non si è arroccata, come l’altra, in qualche lontana Svizzera. E fino a poco tempo fa ha voluto raccontarsi ai giornali. “Trovo delle emozioni nella musica, in un’opera d’arte, nell’affetto profondo dei miei familiari e nelle persone che mi sono vicine, nei tortellini come li faceva mia madre… e nel dormire bene” ha detto nel 2019, prossima gli 80 anni, in un’intervista al Corriere.

E l’anno scorso, durante il lockdown, in alcune immagini emozionanti e incredibilmente tenere della clip di Dario Gay, ha scritto con le proprie mani un video-saluto a tutti gli amici (al minuto 4:18).

Soli in quel camerino

Però fu in quei giorno, dicembre 2007 a Trieste, che Milva svelò ai miei occhi il suo carattere di sovrana.

Le avevo proposto di leggere e registrare una lettera scritta a Strehler da lei stessa negli anni ’70, subito dopo la loro avventura brechtiana. Avrei fatto sentire quella voce nella stanza della mostra dove erano esposte molte lettere indirizzate al regista. Lei acconsentì.

La raggiunsi nel camerino del Politeama Rossetti. Seduti davanti allo specchio, le diedi i due fogli dell’originale e preparai il registratore Nagra che avevo portato come me. Era una lettera molto bella, scritta con cura, l’avevo letta e riletta più volte. In quelle due pagine ringraziava Giorgio e si augurava di poter tornare a lavorare con lui il più presto possibile. Tra le righe si leggeva chiara una affettuosa richiesta, una delicata supplica quasi. Le consegnai il microfono. Avviai la registrazione. 

Una regina non si inginocchia mai

Che lo dica Ecuba o Elisabetta II, è sempre di sovrane che si tratta. Così fece anche lei.

Cominciò a leggere e, proprio sotto i miei occhi o meglio le orecchie, modificò via via le parole e il tono della lettera. Sbalordito, non ci potevo credere. Lei imperturbabile, con voce suadente, come se in quel momento avesse davanti Giorgio, lei continuò a leggere inventando. Alla fine, il senso erano la stima e le congratulazioni di una grande artista a un altro un grande artista, più alcune frasi che vagamente lasciavano aperti orizzonti a una nuova collaborazione. Ma da pari a pari.

Uscii da quel camerino, senza dire una parola, sconcertato e anche ammirato dalla disinvoltura e da uno stile che mi risuona ancora dentro, quando sento uno degli Lp in cui interpreta Brecht. O quando rivedo qualche clip del Festival di Sanremo: ha partecipato a 15 edizioni, mica scherzi. Impegnata in molte occasioni, very pop in altre. Sempre fedele a se stessa.

Da allora, per me, Milva è sempre regina. Una regina rossa: per i capelli e per tante altre ragioni.

Milva canta ‘Alexanderplatz’ a Berlino Est, davanti alla Porta di Brandeburgo (1990)