Sala piena. Sala vuota. Quanto contiamo, noi spettatori, in teatro?

L’impatto che uno spettacolo, una stagione teatrale, un festival, hanno sul pubblico si valuta anche dai posti rimasti liberi e dai posti occupati. A volte, più che l’allestimento, più che il programma, conta in quanti siamo, là, seduti in sala. Un invito a pensarci.

Ecloga XI di Anagoor - ph Giulio Favotto
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto

Due premesse

Premessa indispensabile. Una sala da 1000 posti è un fatto. Una da 200, un fatto di tutt’altro tipo. Per chi gestisce un teatro, per chi programma un’iniziativa, per chi ha un naturale bisogno di pubblico, la seconda è più facile da riempire. Ovviamente. La sfida è la prima. La tradizione storico-operistica dei teatri italiani ha dotato le principali città di sale grandi, storiche, importanti. Molte superano i 1000 posti. Purtroppo, o per fortuna.

Seconda premessa. Ci sono spettacoli, anche belli, che in una sala grande muoiono, annegati dall’ampiezza del palcoscenico, sterminati dal numero dei posti rimasti vuoti.

Allo stesso modo, ci sono spettacoli che in una sala piccola non possono proprio stare. Vuoi perché sono pensati in grande, dal punto di vista scenografico, o per la numerosità di chi ci lavora. Vuoi perché il loro costo non consente di limitarli a un pubblico di poche centinaia di spettatori. Certo, si possono programmare più repliche, ma ogni replica moltiplica il costo.

Ci pensavo mentre…

Scrivo ciò anche per condividere delle riflessioni che mi passavano per la testa, mentre vedevo alcuni spettacoli al Festival Vie, una delle principali iniziative di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Fedele a una storia trentennale, il festival si tiene in alcuni teatri emiliani (Bologna, Modena, Vignola) e della Romagna (Cesena). Quindi in diverse sale: alcune più ampie, altre meno.

Imagine, di Krystian Lupa

Il grande e storico edificio del Teatro Storchi a Modena, per esempio, ha circa mille posti. Vederli vuoti per una buona metà, insieme a gallerie desolate, è stato una specie di amplificatore della delusione per chi ha assistito a Imagine, la produzione dei Teatr Powszechny di Varsavia e Łódź, con la regia del polacco Krystian Lupa

È il polpettone di rimpianti generazionali e di aspirazioni fuori tempo di un artista che presto compirà 80 anni e che, comunque, ha un magistrale passato alle spalle. Ma sembra qui accontentarsi di accarezzare (problematicamente) i figuranti di un’epoca passata. In scena ci sono personaggi chiamati Janis, Joan, Susan (cioè Joplin, Baez, Sontag…), tanto per dirne alcuni, convocati da un certo Antonin (si suppone Artaud) in uno slabbrato salotto per discutere del come eravamo e come siamo. 

Imagine di Krystian Lupa - ph NK - Vie Festival - Modena - Sala Teatro Storchi
Imagine di Krystian Lupa – ph NK

A sedere nel titolo è Image di John Lennon (e la iconica clip girata nella white room della sua villa a Tittenhurst Park), e tutto il portato di comunismo utopico della canzone. Quella brigata di reduci si attarda invece a chiacchierare, anche violentemente, stravaccata sulle poltrone e a fare autocoscienza sulle proprie sconfitte. Per ben due ore. Faticose, sul serio. Tralascio le tre ore successive, più faticose ancora, in cui la tensione dello spettacolo e le situazioni sceniche si mostrano inversamente proporzionali alle ambizioni della regia.

Audience Amplification

Amplificatore in senso positivo è invece la sala piccola del Arena del Sole, intitolata allo scomparso regista Thierry Salmon. Là sì soli 200 spettatori, che occupano tutte le sedute, qualcuno perfino in piedi, hanno potuto creare quell’elettricità, quella tensione tra palcoscenico e pubblico, che certo ha portato fortuna al debutto di titoli come Gli anni di Marco D’Agostin e Marta Ciappina (ne ho parlato in un post precedente). O come Il Capitale – un libro che ancora non abbiamo letto, della compagnia Kepler-452. 

Il Capitale, di Kepler-452

C’erano, soprattutto in questa proposta, motivi anche emozionali e di solidarietà. I tre lavoratori di un’azienda messa in liquidazione (la GKN di Campi Bisenzio) e il loro rappresentante sindacale raccontavano la propria storia di mobilitazione e occupazione dello stabilimento toscano che produce (produceva, anzi) semiassi per veicoli. La GKN è stata messa in liquidazione, nel luglio 2021, dalla multinazionale proprietaria, con il contestuale licenziamento via mail dei 422 dipendenti. Oggi gli operai sono ancora in presidio, all’interno dello stabilimento, a macchinari fermi (qui è riassunta la vicenda).

Un impatto – la presenza in questo spettacolo di persone, i tre operai, non di personaggi – che ha avuto la capacità di squarciare il tran tran teatrale (per dire, la drammaturgia contemporanea). 

Tanto più nella serata ad alto voltaggio che ha visto in platea anche compagni di lavoro dei tre – Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – promossi perfomer dalla poetica politica di Nicola Borghesi e del coautore, Enrico Baraldi.

Il Capitale - Kepler-452 - ph Enrico Baraldi (Vie Festival- Sala Salmon)
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi

Va detto che alcuni precedenti titoli di Kepler-452 (dedicati agli espropri eseguiti in nome del parco alimentare Fico, alle sorti dei rider in tempo di pandemia, all’annullamento di identità sociale degli immigrati senza dimora, allo hate speech in Rete) hanno avuto, su di me almeno, impatto più forte.

Agivano più da vicino e con maggior consapevolezza di classe – o di ciò che un tempo era lotta di classe – rispetto a questo reportage di fabbrica, emozionale certo, condiviso certo. Però anche viziato dal paradosso di una critica del capitalismo globale, dello sfruttamento del capitale umano, della mercificazione del tempo che ci consegna la vita (e non son mica bazzecole), esercitata attraverso uno strumento supremamente mercantile come è uno spettacolo teatrale, prodotto da uno dei più finanziati stabili italiani. Rispolverando Marx, uno spettacolo possiede un questionabile valore d’uso, ma nasce e vive in una elitaria economia di scambio.

Il Capitale - Kepler-452 - ph Enrico Baraldi (Vie Festival- Sala Salmon)
Il Capitale – Kepler-452 – ph Enrico Baraldi

Però il respiro di quella sala piena, la partecipazione, la condivisione, la vicinanza stretta di un sentimento solidale, hanno certo minimizzato il problema economico-filosofico. E decretato la standing ovation di un pubblico toccato profondamente. Funziona così. 

Ecloga XI, di Anagoor

Era un punto di riflessione che mi pareva utile esportare, magari sul piano estetico, quando mi è apparso davanti, al Teatro Fabbri di Vignola, il nuovo lavoro della compagnia Anagoor. Concentrato sulla rilettura teatrale dell’opera poetica (più precisamente della raccolta di versi IX Ecloghe, 1962) di uno dei grandi del ‘900 letterario italiano: Andrea Zanzotto. 

La sala di Vignola che conta 450 posti, abbastanza vuota anch’essa, era tuttavia popolata da operatori stranieri (programmatori, direttori di teatro, curator, selector…). Giustamente invitati al nuovo debutto dal gruppo che, in anni non lontani, ci ha dato titoli sapienti come Virgilio brucia e Socrate, il sopravvissuto.

Peccato che la poesia di Zanzotto – per il quale personalmente nutro stima – sia ostica sul serio. Al 93% degli italiani (il calcolo è mio) riuscirebbe incomprensibile, anche per il lessico che il poeta adotta. Nello spettacolo non veniva tradotta in altre lingue. 

Capisco la difficoltà di tradurre poesia, ma non veniva tradotta nemmeno la lunga conversazione dei due attori, Leda Kreider e Marco Menegoni. Davanti alla riproduzione della Tempesta di Giorgione, da cui erano state abolite le due figure umane, i loro Adamo e Eva riflettevano sull’emergere del paesaggio naturale della pittura umanistica: un piccolo saggio di storia dell’arte.

Ecloga XI di Anagoor - ph Giulio Favotto
Ecloga XI di Anagoor – ph Giulio Favotto

Mi domandavo: se faccio fatica io, italofono, a seguire il dettato poetico di Zanzotto, come mai faranno gli stranieri, senza traduzione, a comprendere il principale veicolo dello spettacolo che, in sostanza, era linguistico. Poetico, anzi.

Bella domanda: tanto più decisiva dopo, quando ho scoperto che buona parte di quel pubblico internazionale ha avuto parole di apprezzamento per Ecloga XI. A colpirli dev’essere stato l’annerimento totale della Tempesta giorgionesca, a forza di rullate di vernice scura. Oppure le strane forme al neon e luce di Wood che pendevano dall’alto nella seconda parte.

Chissà che a motivare la mia perplessità – mi sono detto allora – non sia l’effetto sala: solo poche decine di persone per 450 posti, capaci di annientare questo “omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto“, come dice il sottotitolo.

Ripensandoci ora, non credo sia esattamente così: non era solo l’effetto di una sala vuota.
Ma perciò, se vi capitasse di vedere Ecloga XI da qualche altra parte, ne riparliamo assieme.

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IMAGINE
regia e scenografia Krystian Lupa
testo Krystian Lupa e creazione collettiva degli attori
musica Bogumił Misala
costumi Piotr Skiba
con Karolina Adamczyk, Grzegorz Artman, Michał Czachor, Anna Ilczuk, Andrzej Kłak, Michał Lacheta, Mateusz Łasowski, Karina Seweryn, Piotr Skiba, Ewa Skibińska, Julian Świeżewski, Marta Zięba, voce fuori campo Krystian Lupa
coproduzione Teatr Powszechny Varsavia, Teatr Powszechny Łódź

IL CAPITALE 
Un libro che ancora non abbiamo letto

un progetto di Kepler-452
drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con Nicola Borghesi
e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – Collettivo di fabbrica lavoratori GKN
e con la partecipazione di Dario Salvetti
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

ECLOGA XI
testi di Andrea Zanzotto
con Leda Kreider e Marco Menegonim
usiche e sound design Mauro Martinuz
drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto
regia, scene, luci Simone Derai
voce del Recitativo Veneziano Luca Altavilla
produzione Anagoor 2022
coproduzione Centrale Fies, Fondazione Teatro Donizetti Bergamo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, Operaestate Festival Veneto

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Marco D’Agostin e Marta Ciappina. Contando anni e limoni

“Che colpaccio, eh!” avevo scritto a Marco D’Agostin un attimo dopo che si era sparsa nel mondo la notizia del Nobel per la letteratura a Annie Ernaux.
Perché il titolo del lavoro che D’Agostin stava portando a termine – Gli anni – è lo stesso di un romanzo della scrittrice francese Nobel 2022. Oltre ad appartenere a un famoso brano di Max Pezzali per gli 883.

Ho visto Gli anni qualche sera fa, a Bologna, a tarda ora, tra le proposte bolognesi del Festival Vie.

Gli anni - Marco D'Agostin - Vie Festival Bologna 2022

Al libro più chiacchierato della scorsa settimana, Gli anni (quelli di D’Agostin) rubano una citazione (“La sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari…“). Alla canzone anni ’90 di Max Pezzali sottraggono qualche icona (il Real Madrid, Candy Candy…). A tutti gli effetti, però, Gli anni portati in scena da D’Agostin sono un romanzo di formazione. Dico romanzo sapendo bene che il Premio Ubu 2018 e la nomination 2021 gli erano stati attribuiti come miglior performer e coreografo. E non come narratore.

Contro la prepotenza del danzare

Ma il 35enne autore di Valdobbiaene ci ha abituati, nelle sue ultime creazioni, a districarci dagli obblighi della coreografia e dalla prepotenza del danzare. E da un bel po’ si libra leggero e singolare nel campo della memoria (la propria, prima di tutto, ma come vedremo anche quella altrui). 

Una sua lettera affettuosa a Nigel Charnok, leader dei DV8 – Physical Theatre, era la traccia lungo la quale si muoveva Best Regards (2020), che porgeva i saluti postumi a un maestro irruento e ipercinetico degli anni ’80. La rievocazione del suo primo amore (non una ragazzina, ma lo sci di fondo) dava invece il titolo a First love (2018). E letteralmente, una valanga di parole, in cinque lingue diverse, investiva gli spettatori di Avalanche, da lui portata in scena, sempre nel 2018, assieme alla portoghese Teresa Silva.

Marco D'Agostin - Best Regards- Ph Roberta Segata
Marco D’Agostin – Best Regards – Ph Roberta Segata

Stavolta non è D’Agostin a esporre in Gli anni, il proprio diario privato. È Marta Ciappina, perfomer altrettanto singolare. Che in questo solo racconta se stessa, provando a capire, assieme al pubblico, se “la propria storia e quella della propria famiglia, possano duettare con quella del genere umano“.

Proposito francamente ambizioso. Che affrontato però con ironia e giusta distanza dal vissuto produce i 50 minuti leggeri in cui D’Agostin – alle spalle, dal banco della regia – sorveglia che il diario della performer (biglietti d’amore adolescenziali, pellicole super8 di lei bambina, canzoni del cuore e ricordi famigliari) si metta in sintonia con il pubblico al quale viene chiesto di collaborare un po’. “Ditemi una vostra canzone“, chiede Ciappina a un certo punto agli spettatori, e ci saranno poi Spotify o YouTube a lanciarla in pista. 

Marta Ciappina - Gli anni - ph Andrea Macchia
Marta Ciappina – Gli anni – ph Andrea Macchia

Al ritmo dei limoni

Ma andiamo con ordine. Si comincia che lo spazio è quasi vuoto, solo un tavolo. Appare lei, magnetica Ciappina, con uno zainetto giallo. “Sono andata al mercato e ho comprato un limone, due limoni, tre limoni, quattro limoni….”

L’acquisto dei limoni (saranno subito 26, 27, 28… ) segnerà passo passo il ritmo all’azione. 104, 105, 106 limoni… Mentalmente, lei conterà fino a 1000 per regredire poi all’inverso: di nuovo fino a uno. Ma dallo zaino giallo, intanto, faranno capolino un paio di cuffie, anche loro gialle, un telefono giallo, due segnaposti gialli. E poi un cagnolino di porcellana, una tessera del Pci di Occhetto. Con la colonna sonora che infilerà, uno dopo l’altro la Vanoni di L’eternità, il De Gregori di Rimmel, la Bertè e la Pausini, i Bronski Beat, i boati degli anni di piombo, i radiogiornali d’epoca… È quello stile-catalogo, perfezionato da D’Agostin già in Best Regards

Lo asseconderà, lo doppierà, lo accompagnerà, e proverà a dargli un certificato di nostalgia collettiva, il movimento di Ciappina. Mai coreografico (“Qui è il momento in cui Marco mi raccomanda di essere meno seduttiva“), spesso allusivo e ironico (“Immensità, spalanca le tue braccia“), ancora più spesso dedicato a verbalizzare le posture del corpo (“La mia ascella si inarca come la cupola del Brunelleschi“).

Post-coreografico

È un movimento a tecnica libera, empatico, sganciato dalle maglie di un disegno minuziosamente preordinato. Viene spontaneo chiamarlo post-coreografico, così come a teatro si usa il termine post-drammatico, per indicare i lavori che si staccano dalle regole costruttive del Novecento. E provano a costruire un diverso orizzonte di invenzione (da parte degli artisti) e di percezione (da parte del pubblico). Cosa che nel settore contemporaneo della danza si riflette oramai in tanti lavori che si parlano l’un l’altro, perché assieme si parlano e collaborano anche i loro creatori: Marco D’Agostin, Marta Ciappina, Chiara Bersani, Alessandro Sciarroni, Silvia Gribaudi, … una famiglia nel post-coreografico italiano.

Marta Ciappina
Marta Ciappina

E intanto siamo arrivati anche noi spettatori a contare alla rovescia gli ultimi limoni – … quattro, tre, due, uno – come in quel gioco infantile di cui protagonista è una Ciappina bambina, nel super8 di famiglia che chiude Gli anni.

Proprio come voleva Annie Ernaux nel suo romanzo, in cui protagonista è sì la scrittrice. Ma si parla sempre e comunque di noi, impersonale collettivo: “La sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari, su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ha ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte…“. Una notte di tutti, singola plurale, collettiva.

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GLI ANNI
di Marco D’Agostin
con Marta Ciappina
suono LSKA
luci Paolo Tizianel
produzione VAN
coproduzione Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e Fondazione CR Firenze, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Aperto – Fondazione I Teatri, Tanzhaus nrw Düsseldorf, Snaporazverein, 

Visto al Festival Vie, Bologna, Arena del Sole